La vicenda Englaro e la “giurisprudenza creativa” che sta scardinando il nostro sistema giuridico

La vicenda Englaro e la “giurisprudenza creativa” che sta scardinando il nostro sistema giuridico

Nel nostro Paese dopo la vicenda del suicidio-assistito di Eluana Englaro (1970- 2009) ed il contorno di decisioni della magistratura che l’ha causato ed accompagnato, molti sostengono che occorrerebbe nel nostro ordinamento una legge sul cosiddetto “fine vita”.

Il paziente incapace terminale o cronico, infatti, tecnicamente non può esprimere il suo consenso. Se però, in precedenza, ha espresso la volontà di morire in determinate circostanze, il problema si considererebbe risolto, equiparando il consenso anticipato al consenso attuale. In prima battuta, va detto che sussistono larghi margini di incertezza nell’interpretazione di tale “volontà presunta”.

Mancando l’attualità della richiesta, è inevitabile che rimangano dubbi sui reali desideri del paziente in quel momento, attualità che, d’altra parte, non può che mancare nel momento della redazione delle “Dichiarazioni”, riguardo alle condizioni cliniche descritte nell’ambito di tale documento.

La legge sul “fine vita”, sostengono i fautori delle DAT, sarebbe necessaria per impedire in futuro quella “giurisprudenza creativa” che, nel “caso Englaro”, è stata determinata per la morte della giovane morta nella clinica “La Quiete” di Udine.

Purtroppo, la giurisprudenza che ha condannato a morte Eluana è stata consolidata sia dalla Corte Costituzionale (ordinanza n. 334 dell’8 ottobre 2008), sia dalla posizione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha rifiutato di firmare in calce al decreto-legge “salva Eluana” e sia, infine, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che, con sentenza del 16 dicembre 2008, ha dichiarato irricevibile il ricorso contro l’Italia per l’eutanasia comminata alla Englaro.

Pensare che una “buona” legge sulle DAT sia in grado di scongiurare il rischio eutanasia nel nostro Paese, può quindi rivelarsi un clamoroso errore di strategia.

Le motivazioni le hanno così condivisibilmente espresse due studiosi cattolici come il compianto Mario Palmaro (1968-2014) e Alessandro Gnocchi: «Primo. Il nostro ordinamento continua ad avere un presidio molto solido contro l’eutanasia e l’abbandono terapeutico nelle norme del codice penale regolarmente in vigore, soprattutto gli articoli sull’omicidio del consenziente e sull’istigazione al suicidio. […] Secondo. Lo scopo dei settori ideologizzati della magistratura favorevoli all’eutanasia è proprio quello di spingere il Parlamento a fare una legge e a riconoscere il testamento biologico. E se stessimo facendo proprio il gioco dei nostri avversari? Terzo. Può darsi che serva una legge, ma non qualunque legge. I parlamentari stiano molto attenti all’inserimento di emendamenti peggiorativi, che trasformerebbero il testo sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento in una legge sull’eutanasia in incognito. Quarto. Anche ammettendo che il testo sulle DAT in discussione non venga stravolto [si riferisce al disegno di legge Calabrò sul testamento biologico, licenziato dal Senato della Repubblica Italiana nel 2011, e non votato alla Camera dei deputati per la fine anticipata della XVI legislatura], esso comporta il riconoscimento solenne da parte della legge della efficacia e validità del testamento biologico. […] Quinto. Se il problema sono le “sentenze creative”, con ogni probabilità esse non saranno scongiurate dalla legge sulle DAT, ma al contrario si moltiplicheranno, e si assisterà a quello stesso stillicidio di ricorsi, anche in sede costituzionale, che dal 2004 a oggi hanno smontato come una matrioska la legge 40 sulla fecondazione artificiale» (La legge sul testamento biologico, un clamoroso autogol, in “Il Foglio quotidiano”, 24 febbraio 2011).

E’ quindi sul terreno giudiziario e dei poteri della magistratura, non quello legislativo, che si dovrebbe condurre la battaglia contro le “sentenze creative”. Approvare nuove leggi perché le vecchie non sono rispettate, oltre che metodicamente errato, si presta, come l’esperienza italiana dimostra, ad aprire ad ulteriori “zone grigie” che andranno ben oltre il principio di autonomia del paziente. Se un intervento legislativo si deve proprio fare, scrivono Palmaro e Gnocchi, esso dovrebbe consistere in un solo articolo, il quale vieti «l’interruzione di ogni trattamento vitale in pazienti privi di conoscenza, garantendo così, per esempio, alimentazione, idratazione, ventilazione, come cure doverose da parte del buon medico ippocratico. Senza aprire porte o finestre al mostro giuridico che si chiama testamento biologico» (art. cit.).

L’art. 32 della Costituzione citato a sproposito

Nei “visti” preliminari alla delibera del Comune di Trieste, troviamo quindi il riferimento all’articolo 32 della Costituzione, che stabilisce che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» e che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Tale disposto, ad avviso degli estensori della proposta, configurerebbe «per tutti i cittadini quello che i giuristi definiscono un “diritto perfetto”, che cioè non ha bisogno di leggi applicative per essere esercitato». Il «diritto al rifiuto delle cure», però, non esprime la difesa essenziale della libertà personale di fronte alla medicina ed, a differenza di quanto affermano i sostenitori delle DAT, non è affatto confermato dalla Convenzione europea di Bioetica (Oviedo) quando afferma che «Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato» (art. 5). La dignità delle persone, infatti, è certamente violata dall’impossibilità di opporsi a trattamenti giudicati sproporzionati o futili ma, come visto, nella realtà dei precedenti in materia, nazionali e locali, di DAT, in tali trattamenti vengono arbitrariamente incluse anche cure essenziali alla sopravvivenza del paziente.

Le DAT, quindi, nei fatti, non interpretano correttamente l’art. 32 della Costituzione, perché finiscono per eliminarne il principio affermato dalla Costituente del favor curae e del favor vitae, mirando, come si è già tentato di fare con le proposte d’introduzione del testamento biologico (TB), di riformulare “in modo pro-eutanasico” il testo dell’art. 32 Cost., capovolgendolo a favore di un principio di favor mortis. Quest’ultimo esito è dimostrato anche dalla vicenda della morte di Eluana Englaro, poiché è stato osservato da più parti come la giovane sia stata privata della vita “legalmente”, secondo appunto questo tipo di interpretazione dall’art. 32 della Costituzione da parte della Corte di Cassazione italiana.

La Convenzione di bioetica di Oviedo

Infine, la Convenzione sui Diritti Umani e la Biomedicina del 1997, pure citata dalla delibera triestina, in quell’art. 9 che stabilisce che «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente, che al momento dell’intervento non è in grado di esprimere la propria volontà, saranno tenuti in considerazione». Tale articolo non autorizza affatto a dire che debbano, alla sua stregua di tale importante documento internazionale, approvate leggi nazionali sulle DAT. Anzi, sarebbe da ricordare a chi si richiama alla Convenzione di Oviedo, che si tratta dello stesso testo che vieta categoricamente che si producano embrioni umani a scopo di ricerca e, su tale aspetto, tale normativa viene regolarmente “dimenticata”.

E’ questo quindi, a nostro avviso, il punto essenziale dell’inopportunità e della strumentalizzabilità di delibere come, da ultimo, quella di Trieste. Queste intendono porre le premesse affinché sotto l’etichetta Dichiarazioni anticipate di trattamento si nasconda invece la sostanza del testamento biologico e, quindi, dell’eutanasia. Non si deve dimenticare infatti che, sin dalla XIII legislatura della Repubblica italiana, molti progetti e disegni di legge hanno utilizzato l’espressione “DAT” con lo stesso significato di testamento biologico. In questi casi, come ha scritto una studiosa pur favorevole all’approvazione di una legge nazionale sulle DAT, «nonostante l’etichetta “addolcente”, l’aggressività della disciplina è resa palese soprattutto dall’obbligo del medico di eseguire le volontà del paziente e dalla disattivazione del principio di indisponibilità della vita umana sul fronte della malattia e della disabilità» (Marina Casini, Precisazioni sulla legge per evitare l’eutanasia, in agenzia “Zenit”, 15 maggio 2011). Aprire in un contesto giuridico e sociale, nazionale ed europeo, come l’attuale alle DAT, significherebbe quindi introdurre un “piano inclinato” che, una volta innescato, non potrà che aggravare il tentativo di difendere quel principio di indisponibilità della vita umana, sempre più messo a repentaglio.

GIUSEPPE BRIENZA
in Corriere del Sud n. 3
anno XXII/14, p. 3

 

 

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