Troppo rumore danneggia ciò che c’è di delicato e prezioso
Con il silenzio creiamo, c’è silenzio dopo un sogno e silenziosa è la capacità di comprendere le parole che ci vengono dette. Troppo rumore danneggia ciò che c’è di delicato e prezioso, come può essere una poesia.
Così mi piace pensare Wislawa Szymborska, come la poetessa del silenzio. Ogni sua poesia, con una carica potente di semplicità, tocca i temi più fragili e essenziali della vita umana, l’amore, la morte, il tempo, il destino. E come vanno presentati tutti questi aspetti della nostra esistenza, se non con un rispettoso silenzio?
La poesia tuttavia è composta da parole e potrebbe sembrare incoerente questo discorso, ma le parole di Wislawa sono di una così grande leggerezza ed eleganza che, per forza di cose, le associamo a qualcosa di altrettanto leggero e delicato come il silenzio.
Adolescente nella Polonia della Seconda guerra mondiale, Wislawa vive in prima persona il dramma della guerra. Nel 1939 è infatti costretta a continuare gli studi clandestinamente, le sue prime raccolte vengono censurate e solo nel 1957 arriverà il successo, con la raccolta di poesie Appello allo Yeti. Nel 1996 viene premiata con il Nobel «per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti di umana realtà».
Un’umana realtà che non può non passare attraverso le maglie del destino, tema decisamente presente nell’opera della poetessa polacca, che si confonde spesso con un’altra figura, quella del caso. Sembra che nelle poesie queste due forze si scambino di posto, cosicché il lettore non sempre comprende per quale dei due parteggi la poetessa.
Gli eventi possono accadere o devono? Il fato gioca con noi o il caso? E quali altri possibilità ci sarebbero state in luogo di altre? Sono questi i quesiti che Wislawa si pone e pone al lettore, lasciando sempre aperti i due punti.
Poteva accadere.
Doveva accadere.
È accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
È accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.
Roberta Conte