Diktat linguistici orwelliani

Diktat linguistici orwelliani

di Antonio de Felip

“CHI ACCETTA IL LESSICO DEL NEMICO SI ARRENDE SENZA SAPERLO”

Ha destato un relativo rumore la notizia, comparsa solo su alcuni media, che la Corte dell’Unione Europea ha autorizzato alcune aziende alimentari a definire “bistecca” un composto vegetale in cui non c’è un solo grammo di vera, buona carne, “salsiccia” un composto similare, “salame” un prodotto a base di fagioli, “latte” un preparato dalla soia.

Una sentenza, e una mostruosa falsificazione, imposta dallo strapotere delle lobby ecologiste e vegane nelle istituzioni di Bruxelles che, in nome dell’ecologia e della presunta crisi climatica, vogliono privarci della carne attraverso la lotta agli allevamenti: eh sì, guai ai perniciosi peti delle vacche.

Un obbrobrio che si aggiunge ai tanti danni che la UE ha procurato alle nostre economie, alle nostre agricolture, alle nostre tavole, alle nostre vite. Basti pensare alla mostruosità dell’autorizzazione alla “carne” sintetica di Bill Gates o alla commercializzazione di insetti per l’alimentazione.

Ma non si tratta solo di questo. C’è qualcosa di più profondo, e di più inquietante, in questa decisione. E’ l’ennesimo attacco alle parole, al loro senso, alla loro capacità di significare e definire.

Un ambito in cui l’azione sovversiva della dittatura del politically correct, dell’anticultura woke, del progressismo liberal e anticristiano in tutte le sue forme è stata sistematica, pervasiva, ma spesso sottile, inavvertita e di lungo periodo è quello della perversione della lingua e delle parole.

Le parole servono, ovviamente, per comunicare. E’ attraverso le parole che noi diamo senso e significato al mondo, alle idee, ai valori. Di più: noi pensiamo con le parole, con esse stabiliamo i concetti pensati. Pervertendo il significato delle parole, introducendo nuovi termini che s’incaricano di trasmettere non solo un concetto, ma anche un giudizio di valore, impedendo l’uso di altre parole, giudicate offensive, si influenza non solo la comunicazione, ma anche il significato della stessa. Di più: si influenzano le idee, il modo di pensare, i valori stessi, le mentalità collettive. Con le parole si cambia il mondo.

Negli ultimi anni, gli spin doctor della sovversione hanno lavorato intensamente per cambiare il senso delle parole, introdurre nuove parole-concetti, parole-valori, caricandole di significato positivo o negativo, obliterando alcune sgradite ai Signori del Caos, usando altre come clave per squalificare, minacciare, ridurre al silenzio gli avversari. Basti pensare a termini quali “fascista”, “razzista”, “populista”, “no vax”, “negazionista”: non sono delle definizioni, ma delle minacce squalificanti, che prescindono da ogni oggettiva analisi storica e politica.

Ancora, pensiamo a parole assenti nel lessico solo qualche anno fa (o presenti con un diverso significato), ma che consentono una trasmissione inconsapevole e implicita di idee e valori (o disvalori), come “gay”, “maschilismo”, “patriarcato”, “omotransfobia”, “femminicidio”, “razzismo”, “xenofobia”, “sessismo”, “specismo”, “LGBTQ+”, “queer”, “gender”. “islamofobia”, “sostenibile”, “inclusivo”.

Emblematico il citato caso del termine di “femminicidio”, obbrobrio lessicale, grammaticale e sociologico-penale, inventato qualche lustro or sono, si dice da un giornalista di Repubblica, che ha lo scopo precipuo di demonizzare il nemico assoluto dei tempi moderni, il Grande Satana del Politicamente Corretto: l’Uomo Bianco, Europeo, Eterosessuale, Cristiano, considerato colpevole di ogni delitto, vero o presunto: il colonialismo, la schiavitù, le carestie nel terzo mondo, la deforestazione in Amazzonia, la distruzione della natura, la persecuzione di neri e omosessuali. E ovviamente, lo sterminio sistematico delle donne. Quante volte l’abbiamo sentito nei telegiornali: “ennesimo femminicidio…”.

Femminicidi ovviamente dovuti all’imperante ideologia “maschilista” e “patriarcale”, orribile perversione intrinseca all’uomo bianco eterosessuale. Da notare quel tic linguistico rappresentato dall’aggettivo “ennesimo” che viene abbinato quasi esclusivamente ai “femminicidi” allo scopo di rafforzare il conseguente allarme sociale.

Scrivono Paolo Gulisano e Gianluca Marletta nel loro libro “L’ultima religione”: “La neo-lingua non è solo l’imposizione di nuovi termini al posto di quelli vecchi ma, letteralmente, la trasformazione del pensiero: se non vi saranno più parole per esprimere un concetto, il concetto stesso sparirà.”

E’ drammatico constatare come la fabbrica delle parole falsificanti, delle parole-trappola, delle parole avvelenate è sempre attiva. Come siamo arrivati, passo dopo passo, a questo allontanamento delle parole dalla verità, a quello che Ida Magli definì “la forma più radicale di lavaggio del cervello che i governanti abbiano imposto ai propri sudditi” e “l’obbligo di acquisire, attraverso norme linguistiche, un sistema non corrispondente alla realtà.”? Grazie alla famigerata “egemonia culturale”, che non è un mito o un’invenzione dei reazionari, ma che esiste e agisce.

“Loro” si sono impossessati di tutte le “agenzie datrici di senso”: scuole, università, media cartacei e televisivi, case editrici, persino lo star system. Con una tale potenza di fuoco, è facile, per “loro”, inventarsi parole o modificare il significato di quelle esistenti per poi trasmetterle, diffonderle, farle accettare e cambiare le mentalità collettive, la percezione delle cose. A ciò si aggiunge la “moda verbale”, che è una forma di pigrizia mentale collettiva. Tutti usiamo, per comodità, le parole che tutti usano. E’ una forma di conformismo, di pappagallismo che serve ad amplificare l’uso delle parole-trappola, a diffonderle, a insinuare il veleno ideologico in tutti noi. Oltretutto il loro uso, e abuso, ci qualificano come “informati” e “progressisti”.

Un solo esempio tra i tanti possibili: quando accettiamo che si possa definire “famiglia” una coppia di omosessuali (o, per usare un termine inventato da loro, di “gay”), siamo già caduti nella trappola, siamo stati vittime di questo “trasbordo ideologico inavvertito”, come lo definiva Plinio Corrêa de Oliveira. E ciò ci porta a una lettura ancor più profonda, e ancor più inquietante, di questa perversione del linguaggio: in questa azione è possibile intravvedere un che di infero, un odio gnostico per ciò che è, per il Reale, che si traduce in una negazione della corrispondenza veritativa delle parole con le cose. E’ l’esaltazione del Caos, il rifiuto di un mondo creato razionale, leggibile e descrivibile perché rispondente alla logica e retto da un Logos. All’opposto, difendere la “verità del linguaggio”, per usare una bella espressione di Attilio Mordini, significa difendere l’Ordine divino del Creato.

Si dice che san Tommaso aprisse la prima lezione di ogni anno di studi all’Università di Parigi mettendo una mela sul leggìo e dicendo: “Questa è una mela. Chi non è d’accordo se ne può andare”. Aneddoto forse improbabile data la naturale mitezza del Dottore Angelico, ma coerente con la sua filosofia realista che presuppone necessariamente una corrispondenza tra le parole e la realtà.

Se il linguaggio viene deprivato della sua potenza e precisione descrittiva, noi perdiamo un pezzo di mondo e la sua comprensione: ci ammoniva Emanuele Samek Lodovici: “Chi non ha le parole non ha le cose”.
Così potrà capitare che, tra qualche anno, anche noi, grazie a un processo di accettazione stile “finestra di Overton”, chiameremo “bistecca”, “salsiccia”, “salame” e “latte” alimenti (alimenti?) che bistecca, salsiccia, salame e latte non sono.

Questo processo di imposizione sociale della menzogna lo ha così simpaticamente descritto la giornalista Daniela Mattalia: “Funziona così: si prende una mela e la si chiama – per decreto o per decisione di qualche politico in stile Laura Boldrini – pera. Poi si redarguisce (o si querela o si esclude dal dibattito) chiunque si ostini a dire: “Ehi, guardate che quella è una mela!”. Col passare del tempo, il linguaggio si modifica: si cominciano a chiamare pere quelle che sono a tutti gli effetti mele. Modificando il linguaggio si modifica la realtà.”

Pensavamo che 1984 di Orwell fosse solo una distopia letteraria? E invece la Neo-lingua, descritta nel romanzo, il cui nuovo vocabolario è stabilito dal Partito e dal Ministero della Verità, è già realtà e molti non se ne sono neanche accorti. L’uso di parole non consentite o con un significato non permesso che possono suggerire, anche solo implicitamente, pensieri non in linea con le direttive della politically correctness, è uno “psicoreato”. Ciò che non si può dire, non si può neanche pensare.

Viviamo in tempi di una “lingua tagliata”, delle parole proibite. L’uso di parole come “negro”, “clandestino”, “zingaro”, “razza” è, in alcuni casi, passibile di essere perseguito penalmente. E, ove non bastasse la legge Mancino, pochi sanno che esiste anche una censoria “Carta di Roma”, redatta dalla Federazione Nazionale della Stampa e imposta dall’Ordine dei Giornalisti come parte integrante del “Testo Unico dei doveri del giornalista”, che vieta espressamente l’uso di questi termini.

Nel mondo anglosassone, le ristampe di libri classici vengono minuziosamente passate al setaccio e le parole proibite vengono diligentemente espunte. Negli USA il termine “nigger” è così stigmatizzato che alcuni editori sono arrivati a censurare i testi di Mark Twain, come Le avventure di Huckleberry Finn, dove questo termine popolare viene usato spessissimo. Pochi sanno che il titolo originale del racconto di Agatha Christie Dieci piccoli indiani era in realtà Ten little niggers, titolo riferito a una filastrocca inglese, a cui la dittatura della politically correctness, già attiva all’epoca, impose di cambiare nome.

Poi vi sono le parole-mantra, dal significato indefinito, dal senso non precisato, ma che hanno lo scopo di trasmettere, di evocare implicitamente un’ideologia, al di là della loro razionalità intrinseca: parole come “sostenibilità”, “resilienza”, “transizione ecologica”, ad esempio, sono strumenti per l’imposizione sociale del dogma della “crisi climatica di origine antropica”, mai dimostrato scientificamente, ma entrato a far parte del pantheon ideologico dell’UE. E non dimentichiamo la categoria delle parole e delle espressioni “dolcificanti”, create per non offendere le delicate orecchie e le indurite coscienze dei moderni di fronte alla cruda realtà della morte procurata: così l’aborto diventa “interruzione volontaria di gravidanza”, l’embrione “un prodotto del concepimento”, l’eutanasia “suicidio assistito” o l’ancor più ipocrita “dolce morte”.

L’ONU e l’Unione Europea hanno da tempo emanato diktat linguistici che impongono un linguaggio ispirato alla distorsione della realtà: occorre quindi sostituire policeman con police officer, salesman con salesperson, wife/housband con spouse e via corrompendo. E non ci siamo dimenticati il divieto, sempre dell’UE, all’uso del termine “Natale”. D’altronde, ben più vicino a noi, la direttiva liberal-progressista, omosessualista e genderista di sostituire madre e padre con genitore uno e genitore due ha già purtroppo preso piede nelle nostre scuole.

Possiamo fare qualcosa per fermare questo processo, voluto e guidato dal mondialismo più antiumano, di degradazione del linguaggio per la corruzione dei nostri pensieri e delle nostre vite? Sì, ognuno di noi può, per la sua parte, rifiutarsi di essere complice, acquisendo innanzi tutto consapevolezza dell’esistenza e del meccanismo delle “parole trappola”, rifiutandosi di usarle, combattendo, in tutti gli ambiti sociali in cui operiamo, il wokismo lessicale. Facciamo nostro l’aforisma di Nicolás Gómez Dávila: “Chi accetta il lessico del nemico si arrende senza saperlo”.

 

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