Cristianesimo e giudaismo, quale atteggiamento per la buona battaglia cattolica?
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CHE LE MENTI DEGLI EBREI SIANO ILLUMINATE!
Il cardinale gesuita tedesco Agostino Bea gestì la parte preponderante del testo conciliare Nostra Aetate – scrisse padre Stjepan Schmidt, suo segretario particolare, nella rubrica “Rileggere il Concilio”, su Il Tempo del 5 novembre 1985, p. 17. In particolare, si soffermò sulla questione giudaica.
Nel giugno del 1960, Giovanni XXIII ricevette in udienza l’israelita Jules Isaac che perorò la causa del suo popolo, secondo le tesi formulate nel suo libro “Gesù e Israele” e lo indirizzò dal card. Bea. Fu l’inizio del cammino che, dopo cinque anni, portò alla Dichiarazione del Concilio Vaticano II.
Al fine di superare la diffidenza dei Padri conciliari e le evidenti difficoltà manifestatesi durante gli incontri coi maggiori esponenti del giudaismo, il card. Bea scrisse un lungo articolo su La Civiltà Cattolica, dal titolo impegnativo: “Gli ebrei sono “deicidi” e “maledetti da Dio”?” L’articolo sarebbe dovuto comparire anche in Germania e Francia, simultaneamente, ma la Segreteria di Stato non ne ritenne opportuna la pubblicazione.
Il card. Bea non si diede per vinto e l’articolo fu pubblicato sulla rivista tedesca “Stimmen der Zeit”, a firma di P. Ludovico von Hertling, già professore di Storia ecclesiastica alla Pontificia Università Gregoriana. In seguito, l’articolo fu tradotto in italiano ed altre lingue, fu fatto stampare da un industriale di Genova e distribuito ai Vescovi, al momento opportuno per la presentazione dello schema in Concilio. Il suo influsso fu notevole e davvero determinante.
Il grande teologo Card. Charles Journet, nel III volume dell’opera “L‘Eglise du Verbe Incarné. Essai de Théologie de l’histoire du Salut“, Desclée de Brouver, 1969, si sofferma su “La tragedia di Israele” e trattando della causa della morte di Gesù, confuta le tesi di Jules Isaac ed illustra, con commento conforme alla nota dottrina della sostituzione alla dialettica paolina “Giudei e Gentili” (Rom. 9-11, pag. 412-518). Per farlo in maniera scientificamente sicura, Journet utilizza le migliori fonti, in particolare l’opera classica del grande esegeta domenicano P. Marie-Joseph Lagrange (+ 1938).
Le sue conclusioni furono in linea con le Sacre Scritture e con la Tradizione, nonché col Magistero Perenne della Chiesa Cattolica: “Le promesse divine (del V.T.) si sono realizzate nel “resto” (i figli di Abramo per la fede, che hanno aderito a Cristo: l’Israele “secondo la carne” invece ha respinto il Messia). “Sulla massa d’Israele esse sono sospese. Ancora adesso, più gravemente di prima, essi sono dei figli ribelli, nemici a motivo dell’Evangelo. L’effetto delle promesse, ora sospeso…, finirà per scendere nel loro cuore” (pag. 482).
Il P. Lagrange, sulla stessa linea, scrisse: “Amati, in quanto destinati a convertirsi, come gruppo etnico, in un futuro imprecisato, nella Chiesa, Corpo mistico di Gesù Redentore”. (cfr. L’Epoca della reintegrazione, pag. 495-499 e pag. 513 col commento di P. Lagrange a Rom. 11).
Il Cardinale Journet specifica che la speranza dell’attuale Israele è tutta temporale, un piano dei regni di questo mondo, interiore allo svolgimento della storia, in cui il ruolo principale è la comunità d’Israele – il popolo che è “messianico”- e in cui il ruolo del Messia, semplice uomo, non può essere che episodico e secondario.
Completamente chiuso sui misteri della trascendenza cristiana, regno spirituale – nei quattro Vangeli, dall’inizio alla fine – Israele si apre nell’avvenire temporale dell’umanità. A conferma, il card. Journet porta la testimonianza di quattro autori giudei, due anteriori e due posteriori alla proclamazione dello Stato di Israele.
Al primo posto troviamo Joseph Klausner, professore all’Università ebraica di Gerusalemme che spiega come il Messia come persona scompare davanti ad Israele, uomo mortale, col suo regno in questo mondo. Il popolo ebraico deve marciare alla testa del progresso ed affrettare il tempo della conversione di tutto il mondo.
Poi, con idee affini, si espresse il rabbino russo Samuele Mohilever, in una lettera al primo Congresso sionista, 1897: “Jahweh Sebaot dice: il Messia re condurrà il suo popolo ad abitare a Gerusalemme”, parafrasando Zach. 8,7. Ma il testo di Zaccaria si realizzò nella libera Gerusalemme, la Chiesa (Gal. 4,26).
Dopo la proclamazione dello stato di Israele, il 15 maggio 1948, hanno scritto André Chouraqui, “L’Etat d’Israel”, Parigi, P.U.F., 1955 e André Neher, “Moise et la nation juive”, Paris, Seuil, 1957, scelti tra tanti dal Card. Journet. Il primo vede nel risorto stato di Israele “la risposta di Dio alle persecuzioni subite nei secoli da parte di tutte le nazioni cristiane… Venti secoli di dolori preparavano il compimento della promessa e la triplice risurrezione di un popolo, di una terra e di una lingua.
André Neher poneva Gesù tra i grandi fondatori di religioni, con Buddha e Maometto. “Il vero Messia che salva se stesso e il mondo, è il popolo di Israele. Sempre a proposito di uno Stato ebraico, la III Conferenza dei rabbini europei di Parigi, il 14-15 novembre 1961, riaffermando i 6 principi fondamentali del giudaismo, formula, così, il 4°:
“La Terra Santa ha un ruolo capitale nei destini del giudaismo e la risurrezione dello Stato d’Israele deve essere considerata come il segno manifesto della Provvidenza” (c.f.r. Documentation Catholique, 21/01/1962, col. 150). In realtà, chiosa il card. Journet, “non è possibile confondere un episodio della storia, quale fu la creazione dello Stato di Israele, con un fine o una svolta della storia del popolo giudaico in rapporto a Dio”.
Quasi mezzo secolo prima, il 26 gennaio, 1904, Theodor Herzl, fondatore del sionismo, fu ricevuto in udienza, per circa 25 minuti, da Papa San Pio X in Vaticano, per chiedere il suo sostegno allo sforzo sionista di stabilire uno stato ebraico in Palestina. Questa è la sua versione dell’incontro, registrata nel suo diario. La fonte è: Raphael Patai, “I diari completi di Theodor Herzl”, tradotto da Harry Zohn (New York / London: Herzl Press, Thomas Yoseloff, 1960), 1601-1605.
Il Santo Padre rispose: “Noi non possiamo favorire questo movimento. Non potremo impedire agli ebrei di andare a Gerusalemme, ma non possiamo mai favorirlo. La terra di Gerusalemme, se non era sempre santa, è stata santificata per la vita di Jesu Cristo (lui non pronuncia Gesù, ma Yesu, al modo veneziano). Io, come capo della Chiesa, non posso dirle altra cosa. Gli Ebrei non hanno riconosciuto nostro Signore, perciò non possiamo riconoscere il popolo ebreo”.
Continuò il santo papa Giuseppe Sarto, originario di Riese (TV): “Lo so, non è piacevole vedere i turchi in possesso dei nostri luoghi santi. Dobbiamo semplicemente fare i conti con questo. Ma sostenere gli ebrei nell’acquisizione dei Luoghi Santi, quello non possiamo farlo”. E concluse con affermazioni di carattere teologico: “Il nostro Signore è venuto senza potere. Era povero. E’ venuto in pace. Non ha perseguitato nessuno. E’ stato perseguitato. E’ stato abbandonato, anche dai suoi apostoli. Solo più tardi è cresciuto in statura. Ci sono voluti tre secoli alla Chiesa per evolvere. Gli ebrei hanno avuto, quindi, il tempo di riconoscere la sua divinità, senza alcuna pressione. Ma non l’hanno fatto, fino ad oggi”.
E il Papa buono, nonché buon Papa, elevato agli onori degli altari dall’ultimo Papa che mantenne questa linea, Pio XII, concluse:
“…sono sempre stato in buoni rapporti con gli ebrei. Solo l’altra sera, due ebrei sono venuti qui a trovarmi. Dopo tutto, ci sono altri legami, diversi da quelli della religione: cortesia e filantropia. Questi non li neghiamo agli ebrei. In effetti, preghiamo anche per loro: che le loro menti siano illuminate. Oggi stesso la Chiesa celebra la festa di un non credente che, sulla via di Damasco, si convertì miracolosamente alla fede vera. E così, se andate in Palestina e sistemate lì la vostra gente, dovremo avere chiese e sacerdoti pronti a battezzare tutti voi”. Et de hoc, satis.