Falsi miti del Novecento: Ernesto “Che” Guevara
Ernesto de la Serna Guevara nasce a Rosario, in Argentina, il 14 maggio 1928, da una famiglia della buona borghesia. Diventa medico (dentista) ma, subito dopo, si avventura alla ricerca della Rivoluzione sulla Sierra Maestra, con l’amico Fidel Castro. D’allora inizia l’epopea del “bandito santificato” (Andrea Morigi, Che Guevara, il bandito santificato, in Il Timone. Mensile di informazione e formazione apologetica, anno VIII, n. 61, Milano marzo 2007, pp. 18-19), com’è stato finalmente definito il guerrigliero, squarciandosi progressivamente la verità storica agli occhi degli osservatori occidentali o, almeno, di quelli non più disposti a bersi la mitologia da decenni propinata del “martire” dell’Ideale. La storia, infatti, ci presenta piuttosto la figura di un personaggio del tutto diverso da quello che emerge “in quella specie di anniversario perpetuo che le librerie italiane impongono ai loro clienti, mettendo in vendita senza soluzione di continuità pubblicazioni agiografiche e prive di qualsiasi apparato critico” (A. Morigi, p. 18).
Ma anche un ex comunista come Massimo Caprara (1922-2009) ha definito il Che come il responsabile principale «del sistema di repressione di migliaia di dissidenti e oppositori» (Che Guevara sconosciuto, in Il Timone, anno III, n. 20, Milano luglio-agosto 2002, p. 18). Il costruttore, insomma, di quel grande gulag che è stata, ed ancora in parte è, la Cuba castrista. Ha testimoniato infatti a tal riguardo il suo ex seguace Regis Debray: «E’ stato lui e non Fidel a ideare nel 1960, sulla penisola di Guanaha, il primo “campo di lavoro correzionale” (di lavoro forzato)». Comandante militare spietato e crudele, il “Che” si fece presto notare per la durezza con cui trattava tutti, compresi i suoi uomini. Ad esempio, ricorda Pascal Fontaine, che gli ha dedicato un sostanzioso profilo nel Libro nero del comunismo (cfr. Ernesto Che Guevara, in Aa.Vv., Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Mondadori, Milano 1998, pp. 608-610), Guevara punì implacabilmente una volta un ragazzo, suo guerrigliero, solo per aver rubato un po’ di cibo. Ne decise infatti, e senza esitazione, l’immediata fucilazione senza processo. Da fedele allievo della scuola del terrore sovietica, il Che elogiò nel modo più esplicito l’«odio, che rende l’uomo un’efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Del resto, confessò più avanti negli anni, il vero rivoluzionario non poteva «essere amico di qualcuno che non condivida le [sue] idee». Eppure, il Che, come del resto Gandhi e quel Martin Luther King che costituisce un altro esempio di Falso mito del Novecento, è stato, e rimane, l’«idolo di tanti pacifisti cattolici» (M. Caprara, p. 18).
Con la Rivoluzione del Sessantotto, infatti, non poche parrocchie, centri “culturali” e gruppi cattolici (ma anche protestanti, a dire il vero), mobilitati ad organizzare continue riunioni ed assemblee, presero a richiamarsi all’“eredità” del Che, spesso senza nemmeno conoscerla. In prima fila il francese Comitato Rivoluzionario di Agitazione Culturale (CRAC) che, l’8 giugno 1968, organizzò nell’anfiteatro Richelieu a Parigi un dibattito espressamente dedicato al percorso Da Che Guevara a Gesù Cristo (cfr. René Laurentin, Crisi della Chiesa e secondo Sinodo episcopale, Morcelliana, Brescia 1969, p. 15). E, del resto, come ha commentato l’abbé Laurentin, «già il Vaticano II in una certa misura fu la contestazione di un gruppo di vescovi impegnati contro la Curia che tentava di realizzare un concilio istituzionalmente prefabbricato» (ibid., p. 16). Ma anche in Italia il mito guevarista ha coinvolto generazioni di cattolici progressisti. Persino presuli, come ad esempio Mons. Franco Agostinelli, si fecero “pifferai della Rivoluzione”. Nel 2003, quando era Vescovo di Grosseto, Agostinelli fece persino un “pellegrinaggio” in Bolivia, dove fu giustiziato Guevara, sui “luoghi del Che”, e durante un’omelia lo definì in tale occasione un “martire” (cfr. Pucci Cipriani, Ernesto “Che” Guevara. Il fulgido mito, la squallida realtà e la topica di un Vescovo, in Riscossa Cristiana, 24 novembre 2012).
Da servitore ad “esule” del regime castrista Membro del Movimento del 26 di luglio, dopo la sconfitta nel 1958 del dittatore cubano Fulgenzio Batista, Che Guevara assunse un ruolo nel nuovo governo castrista, secondo per importanza solo a quello del leader maximo.
Con i suoi studi (e metodi) approssimativi, a forza di “destabilizzare”, da sostenitore, divenne però alla fine “esule” anche dalla Cuba comunista che, pure, aveva con grande sforzo organizzativo contribuito ad edificare. Santificato post portem da Fidel Castro, che ne pubblicò anche diversi libri in “edizione di Stato” dopo il 1967, due anni prima il Che fu costretto a lasciare l’isola, ufficialmente per sobillare la Rivoluzione in altri Paesi come l’ex Congo Belga, la Bolivia e la Colombia ma, ad avviso di alcuni storici, perché divenuto scomodo ed inutilizzabile per l’edificazione del “socialismo cubano”.
Fontaine ricorda però che, al momento della conquista del potere, Castro, che come ogni buon marxista era un estimatore della Rivoluzione Francese, lo ebbe a definire «il Saint-Just de L’Avana» (op. cit., p. 608). Uomo del Cremlino Ma il Che fu prima obbediente ad un altro padrone, che era fuori dell’America latina, e risiedeva al Cremlino. Scrivendo ad un amico sostenne ad esempio che, a suo avviso, tutta «la soluzione dei problemi di questo mondo si trova dietro quella che viene chiamata la cortina di ferro», cioè in Unione Sovietica.
Nel febbraio 1959, su impulso anche del Che, quando Castro conquistò i pieni poteri, per prima cosa fu stretto un accordo commerciale con l’URSS per cedere la produzione di zucchero dell’isola in cambio di assistenza tecnica utile a trasformare l’economia cubana. Subito furono espropriati i latifondi. Con decreto governativo del 9 febbraio 1959 Guevara fu naturalizzato cittadino cubano per i suoi “servizi resi alla Rivoluzione”, per conferirgli subito dopo l’incarico di “procuratore”, con la responsabilità di decidere cioè delle domande di grazia dei condannati. Fu in questo momento che, la prigione della Cabana, nella quale Guevara officiava, divenne il «teatro di numerose esecuzioni, soprattutto di ex compagni d’armi conservatesi democratici» (P. Fontaine, op. cit., p. 609). Ad esempio, come ha testimoniato l’ex prete Javier Arzaga, vicino alle posizioni della “Teologia della liberazione”, nel periodo passato accanto al giudice-Guevara alla Cabana: «C’erano circa ottocento prigionieri in uno spazio adeguato a non più di trecento persone: membri dell’esercito e della polizia di Batista, qualche giornalista, uomini d’affari e commercianti. Il Tribunale Rivoluzionario era composto da guerriglieri, mentre il Che presiedeva la Corte d’Appello. Non annullò mai alcuna sentenza [lo] imploravo di usare clemenza… Rimasi talmente traumatizzato che verso la fine di maggio del 1959 mi venne ordinato di lasciare la parrocchia di Casa Blanca, dove si trovava la Cabana, andai in Messico per farmi curare» (in P. Cipriani, art. cit.).
Guevara fu successivamente nominato ministro dell’industria e presidente del Banco nacional de Cuba, in seguito ministro dell’Economia, incarichi nei quali colse l’occasione per mettere in pratica la sua “dottrina economica” di imposizione a Cuba del “modello sovietico”. Privo oltretutto delle più elementari nozioni economiche, egli causò ben presto la completa rovina della banca centrale di un Paese già finanziariamente assai debole come quello caraibico.
“Profeta” del marxismo nell’Afro-America Si volse allora, alla fine degli anni 1960, a sobillare, direttamente o indirettamente, vari paesi latino-americani e africani, cercando di mobilitarli al rivoluzionarismo più violento. Per esempio, quando in Congo furono espropriate nel 1960 le proprietà della Fruits Company statunitense, il Che fece inviare mercenari cubani nel Paese africano, in appoggio alle truppe del leader del movimento filocomunista MCN Patrice Lumumba (1925-1961), che aveva preso a combattere contro la secessione del Katanga.
Il maggiore successo dell’influenza guevarista si ebbe comunque dopo la morte del Che, quasi come una sua sorta di sua vendetta. Sto parlando del Cile di Salvador Allende che, nel 1970, vinse le elezioni con una coalizione di partiti di sinistra, capeggiato dal partito socialista del quale era leader (oltre che della massoneria locale) e dal partito comunista cileno, ma che poterono giovarsi dell’appoggio determinante di un agguerrito movimento internazionalista rivoluzionario, il MIR, che si richiamava appunto espressamente al “lascito” di Che Guevara.
GIUSEPPE BRIENZA
In Corriere del Sud
n. 18, anno XXI/12, p. 3