Povertà del tempo, dominio della tecnica, ricerca di Dio

Povertà del tempo, dominio della tecnica, ricerca di Dio

di Francesco Bellanti

RAINER MARIA RILKE E IL VIAGGIO ALLA RICERCA DI DIO

Che cosa fu il viaggio, che cosa furono i viaggi di Rilke? Che cosa cercava Rilke? Il più grande poeta di lingua tedesca del Novecento cercava forse la sua anima? Hölderlin viaggiò molto ma davanti alla sua follia si fermò. Raccontiamo la storia di un poeta che non si è mai fermato. Nemmeno di fronte alla sua solitudine. Un altro poeta del tempo della povertà, secondo Heidegger.

Tutto è solitudine, per Rilke. Anche il matrimonio, in cui il trionfo c’è per uno dei due quando è custode della solitudine dell’altro. Anche l’amore è solitudine, ed è questo il suo vertice, quando due solitudini si proteggono a vicenda. Anche la nascita è solitudine: nasciamo, disse, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente. Nulla, secondo me, è di più vero. “E non si ha più nulla e nessuno e si viaggia per il mondo con un baule e una cassa di libri e di fatto senza curiosità. Di fatto, senza casa, senza cose ereditate, senza cani, che vita è mai questa?”.

Vivere, per Rilke, significa perdere. Significa prendere congedo da tutte le cose, ma anche i dolori sono ignoti, anche l’amore non s’impara, l’ingiunzione che ci chiama a entrare nella morte rimane oscura. Quale amore, poi? Forse l’amore per la moglie dalla quale ha divorziato senza traumi? Forse l’amore fuggitivo per le amanti? O forse l’amore per la madre, alla quale mandava sempre una lettera sul Bambino Gesù per Natale? “Accetta dunque, mia cara mamma, un bacio con tutto il cuore nella solenne ora di Natale, la più pacata dell’anno, la più misteriosa, in cui i desideri ancora ignari si tendono fino all’estremo e vengono per prodigio esauditi: trascorrila nel profondo, grande raccoglimento del Tuo cuore, abbandona ogni dubbio e incomprensione: in quest’ora abbiamo un posticino dentro di noi dove siamo semplicemente bambini, che attende e sta là, fiducioso e mai confuso, nel suo diritto a una grande gioia: questo è il Natale”. Così scrisse alla madre in una lettera di Natale. No, per Rilke, solo la poesia, solo il canto sulla terra consacra e celebra.

Chi è Rilke? Rilke è poeta orfico e inquieto che viaggia con la mente, che come un sacerdote misterico offre agli uomini uno strumento, cioè i suoi versi, per potere conoscere sé stessi e la realtà che li circonda. Rilke che trasferisce amori e passioni nelle fuggevoli memorie d’infanzia, che riflette continuamente sulla morte. Oggi non possediamo più nemmeno la morte. “…è sempre lo stesso. Tutti avevano una propria morte. Gli uomini che la portavano nell’armatura, dentro, come un prigioniero, le donne che divenivano vecchissime e piccole, e poi in un letto enorme morivano come su un palcoscenico, dinanzi all’intera famiglia […] E quale bellezza malinconica nelle donne, quand’erano gravide e si reggevano in piedi, e nel loro grosso ventre, su cui giacevano d’istinto le mani esili, c’erano due frutti: un bambino e una morte. Il loro sorriso denso e quasi nutriente nel volto svuotato non scaturiva forse dal loro capire, talvolta, che i due frutti crescevano insieme?”

Che cosa sono i versi, che cosa sono i ricordi. I versi sono esperienze. “Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché parola i ricordi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, allora diventano versi”.

……….

I poeti metafisici sono quelli che non dicono è o non è, ma forse. E Rilke è il più grande poeta metafisico europeo, il modello, per il grande filosofo Martin Heidegger, del poeta-pensante, del poeta del linguaggio poetico come pensiero dell’essere. Martin Heidegger ritiene fondamentali in Rilke solo due opere, le Elegie di Duino e i Sonetti a Orfeo. È, si chiede il filosofo, Rilke un poeta nel tempo della povertà? “In quale rapporto sta la sua poesia con la povertà del tempo? Fin dove arriva scendendo nell’abisso? Fin dove giunge il poeta, posto che egli vada fin dove può andare? Percorrendo il lungo cammino poetico che conduce a queste due opere altissime, Rilke riconosce più chiaramente la povertà del tempo. Il tempo è povero non soltanto perché Dio è morto, ma anche perché i mortali sono a malapena in grado di conoscere il loro essere mortali. Essi non sono ancora padroni della propria essenza. La morte si ritrae nell’enigmatico. Il mistero del dolore resta velato. Non s’impara ad amare. Ma i mortali sono; e sono in quanto c’è la parola. Il canto si leva ancora sulla povera Terra. La parola del cantore conserva la traccia del Sacro. Ma questa traccia si è fatta irriconoscibile; anzi, non sappiamo nemmeno se ravvisiamo nel Sacro una traccia della divinità del divino o se non riconosciamo più neppure la traccia del Sacro. Non si sa neppure in che consista la traccia della traccia”. Sono parole altissime, non solo sulla poesia, ma sul mistero della vita e della morte, sul mistero del dolore.

Il tempo è povero, dice ancora Heidegger, perché privo del non-nascondimento dell’essenza del dolore, della morte e del dolore… Ma resta il canto che nomina la Terra. Che cos’è questo canto? E in che modo è possibile a un mortale? Da dove proviene questo canto? Fin dove procede nell’abisso?

Muovendosi sulla scia di Hölderlin, lungo il suo cammino storico-ontologico, e di Nietzsche, che rappresenta il compimento della metafisica occidentale, Rilke si spinge fin dove è possibile capire dove sta il pericolo. Il pericolo sorge in un luogo in cui l’uomo si pone fuori dalla natura. Cioè quando dispone la natura affinché essa soddisfi alle sue rappresentazioni oggettive. La Terra e la sua atmosfera divengono materie prime. Insomma, la tecnica è il pericolo. La tecnica esorbita dalla sfera della cultura e della civiltà. Rilke ha intuito che è l’essenza stessa della vita a esser sottomessa alla produzione tecnica. Il predominio essenziale della tecnica in tutti gli aspetti del vivere quotidiano, anche i più minuti, non solo nell’organizzazione dell’opinione pubblica mondiale e delle convinzioni quotidiane degli uomini. 

Scriveva Rilke da Duino il primo marzo 1912: “Il mondo si rattrappisce. Lo stesso fanno le cose, che dissolvono sempre più la loro esistenza nella vibrazione del denaro, in cui dispiegano un tipo di spiritualità che oltrepassa fin d’ora la loro realtà tangibile. Nel tempo di cui parlo – XIV [secolo] – la moneta era ancora oro, ancora metallo, era una bella cosa, la più maneggevole e comprensibile di tutte”.

L’umanità dell’uomo si è dissolta. La produzione incondizionata, l’uomo si pone contro la natura. Ciò che minaccia l’uomo di morte è l’incondizionatezza del puro volere, nel senso dell’autoimposizione deliberata e globale. Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è l’ingannevole convinzione che, attraverso la produzione, la trasformazione, l’accumulazione e il governo delle energie naturali, l’uomo possa rendere agevole a tutti e in genere felice la situazione umana. Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è la convinzione che la realizzazione della produzione assoluta possa aver luogo senza pericolo alcuno, purché restino in vigore anche altri interessi, ad esempio quelli della fede. La convinzione che la produzione tecnica metterà in ordine il mondo. Il giorno della tecnica è il giorno della notte del mondo.

Così Heidegger. Ma è la stessa tecnica a barrare prima di ogni altra cosa la comprensione della propria essenza, perché essa sviluppa sempre più in seno alle scienze un genere di sapere che è del tutto inidoneo alla comprensione dell’essenza della tecnica, e ancor di più a risalire all’origine di questa essenza. Chi ci salverà? Ci salverà chi giunge più rapidamente nell’abisso.

……….

Dove ha luogo il pericolo, là sorge

anche il Salvatore

(Hölderlin V, 190)

E forse è proprio così. Forse ogni salvezza che non provenga da dove ha luogo il pericolo è ancora sventura. Ogni salvezza mediante espedienti, per bene intenzionata che sia, non è che vuota apparenza nel destino dell’uomo, minacciato nella sua essenza. La salvezza della terra è nel diventare invisibile, dice Rilke, e “l’Angelo delle elegie altro non è che quella creatura in cui appare già perfetta la trasformazione del visibile nell’invisibile”. L’Angelo è la figura metafisica che succede al mercante. Solo l’arte salva, pensiero nietzschiano, la sola vera attività metafisica dell’uomo. L’unico autentico luogo dell’essere è la dimensione interiore. Quella che sostituisce la trascendenza.

Io non ho mai incontrato un poeta così ricco dentro e così moderno. Ecco, ora parliamo di ciò che è la poesia per Rilke, di ciò che è la parola. La concezione rilkiana degli oggetti. “È così, gli oggetti d’arte sono sempre un risultato dell’essere-stati-in pericolo, dell’essere andati fino in fondo a un’esperienza, sin dove nessuno può avanzare oltre. Tanto più si va avanti, tanto più un’esperienza diventa particolare, personale, unica, e l’oggetto d’arte è finalmente la pronuncia necessaria, irreprimibile, quanto più possibile definitiva di tale unicità”. Per Rilke la poesia si dà come “cosa”, significa proprio nel suo darsi come “cosa”. 

Nella sua critica all’opera di Rodin, il poeta dice che l’artista francese è stato in grado di realizzare opere capaci di vivere da sole, che sanno distaccarsi dalle cose comuni, che diventano inattingibili, lontane dallo spazio e dal tempo, lontane dal caso. Insomma, la scultura di Rodin è una creazione che non chiede nulla a tutto ciò che sta intorno, sottratta alla contingenza e inserita nell’eterno fluire, nella tacita durata dello spazio e nell’ordine delle grandi leggi della natura. Così io ho immaginato l’opera di Rilke, una poesia che non ha nome e non appartiene a nessuno. È questo il nuovo che nasce dall’incontro tra le cose, una cosa senza precedenti, una cosa in più, che non ha un nome e non appartiene a nessuno. La vera opera d’arte, l’opera di genio, soggioga la luce e lo spazio, realizza la piena indipendenza cosmica, è fuori dalla storia, il luogo dell’arte è il tempo della non-storia, il suo spazio è un luogo senza Dio. O forse è Dio stesso. L’opera d’arte vive solo nel tempo vuoto dell’immaginario. 

La parola è tutto. Rilke vuole recuperare nell’epoca moderna l’identità di essere la parola su cui in origine, dice Claudio Magris, si fonda ogni conoscenza e anche ogni religione e poesia. Egli vuole recuperare la rete di somiglianze e di analogie che permetteva di afferrare l’essere nella parola. L’autosufficienza radicale della parola poetica. Questo discorso porta a Dante, alla parola altissima di Dante. La parola di Dante, nel suo viaggio dalle bassure dell’inferno fino all’ineffabilità del paradiso, si ferma solo davanti a Dio, tace solo al cospetto dell’indicibile trascendente. Il linguaggio di Rilke, invece, si ferma non davanti al trascendente, ma nell’immanente del reale, nel fin qui. È la misura che fa parlare Rilke, che dà la mancanza di misura della lingua degli Angeli, è la vittoria sul silenzio metafisico ma anche la sua affermazione, il suo inveramento.

Per capire meglio quanto abbiamo detto, leggiamo alcuni versi su Dio di uno dei più grandi interpreti lirici della spiritualità moderna. 

Non attender che Dio su te discenda

Non attender che Dio su te discenda

e che ti dica: Io sono.

Senso alcuno non ha quel Dio che afferma

l’onnipotenza sua.

Sentilo tu, nel soffio onde Egli ti ha colmo 

da che respiri e sei.

Quando non sai perché ti avvampa il cuore,

è Lui che in te si esprime.

E poi, dalle Elegie di Duino:

Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare 

un simbolo in noi, 

vedi che forse indicherebbero i penduli amenti  

dei nocciòli spogli, oppure 

la pioggia che cade su terra scura a primavera. 

E noi che pensiamo la felicità 

come un’ascesa, ne avremmo l’emozione 

quasi sconcertante 

di quando cosa ch’è felice, cade.

(Elegie di Duino, X)

E nella poesia Annunciazione.

Annunciazione

(Le parole dell’Angelo)

Tu non sei più vicina a Dio

di noi; siamo lontani

tutti. Ma tu hai stupende

benedette le mani.

Nascono chiare a te dal manto,

luminoso contorno:

Io sono la rugiada, il giorno,

ma tu, tu sei la pianta.

Sono stanco ora, la strada è lunga,

perdonami, ho scordato

quello che il Grande alto sul sole

e sul trono gemmato,

manda a te, meditante

(mi ha vinto la vertigine).

Vedi: io sono l’origine,

ma tu, tu sei la pianta.

Ho steso ora le ali, sono

nella casa modesta

immenso; quasi manca lo spazio

alla mia grande veste.

Pur non mai fosti tanto sola,

vedi: appena mi senti;

nel bosco io sono un mite vento,

ma tu, tu sei la pianta.

Gli angeli tutti sono presi

da un nuovo turbamento:

certo non fu mai così intenso

e vago il desiderio.

Forse qualcosa ora s’annunzia

che in sogno tu comprendi.

Salute a te, l’anima vede:

ora sei pronta e attendi.

Tu sei la grande, eccelsa porta,

verranno a aprirti presto.

Tu che il mio canto intendi sola:

in te si perde la mia parola

come nella foresta.

Sono venuto a compiere

la visione santa.

Dio mi guarda, mi abbacina…

Ma tu, tu sei la pianta.

……….

Ma per capire meglio la spiritualità di questo grandissimo poeta, dobbiamo seguire il suo viaggio. E allora facciamolo viaggiare, questo poeta.

Rainer Maria Rilke nasce a Praga come René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke il 4 dicembre 1875 e muore a Montreux in Svizzera il 29 dicembre 1926. È considderato poeta, scrittore e drammaturgo austriaco di origine boema, ma in realtà Rilke è stato un uomo che ha cercato sempre una patria, e probabilmente non l’ha mai trovata. La vita di Rilke, come dicevamo, è stata sempre una fuga. Dal padre, che lo voleva ufficiale all’accademia militare, lui che il grado di ufficiale non lo aveva mai avuto, da Praga che considerava città provinciale. Aveva appena nove anni e i suoi genitori si separarono, lui fu affidato alla madre, che era figlia di un industriale, che comunque acconsentì che il giovane Rilke entrasse nella scuola militare. Rilke la lasciò subito nel 1890 col consenso del padre. Scriveva già poesie, che continuò a scrivere sempre anche quando frequentò subito dopo gli studi all’Accademia del Commercio di Linz. In quei primi anni Novanta studiò giurisprudenza aiutato da uno zio, ma lui voleva essere poeta, e così fu. Conseguì un diploma di maturità ginnasiale da privatista in tre anni invece degli otto necessari. Frequentò a Praga associazioni culturali e s’iscrisse all’università seguendo corsi di storia dell’arte, filosofia e storia della letteratura. Continuò a pubblicare su riviste poesie. 

Prime conoscenze importanti, Arthur Schnitzler, Karl Kraus, e ancora viaggi: Monaco di Baviera, nel 1896, dove studia filosofia e conosce numerosi intellettuali. Poi Venezia, dove incontra Lou Andreas-Salomé, con la quale inizia un famoso rapporto epistolare che si concluderà con la morte del poeta. Pubblica sempre poesie, drammi. Studia arte e letteratura italiana e nel 1898 in aprile è a Firenze. Scrive il diario di viaggio Florenzer Tagebuch, quindi è a Berlino il primo agosto. Qui nell’aprile 1899 s’iscrive alla facoltà di storia dell’arte e sempre nello stesso mese parte con Salomé e il marito Andreas, per la Russia, dove incontra, tra gli altri, il grande – e ormai vecchio – Lev Tolstoj. Mosca e San Pietroburgo. Ancora Tolstoj e Salomé in un altro viaggio l’anno dopo, e pubblica un saggio sull’arte russa. Il 28 aprile 1901 il matrimonio con la scultrice Clara Westhoff a Brema e il 12 dicembre nasce la figlia Ruth. Scrive una monografia su Rodin, e per qualche tempo si trasferisce a Parigi con la moglie, lascia la capitale francese nel 1903.

Una vita tumultuosa. Il 10 settembre dello stesso anno è a Roma, dove rimane per ben nove mesi. Roma gli piacque. Scrisse a Salomé:  

“Ti ricordi ancora di Roma, cara Lou? Com’è nella tua memoria? Nella mia rimarranno un giorno solo le sue acque, queste limpide, stupende, mobili acque che vivono nelle sue piazze; e le sue scale, che sembrano modellate su acque cadenti, tanto stranamente un gradino scivola dall’altro come onda da onda; la festosità dei suoi giardini e la magnificenza delle grandi terrazze; e le sue notti, così lunghe, silenziose e colme di stelle”

Scrive liriche in endecasillabi sciolti, inizia il Der Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, poi è in Svezia dove legge Kierkegaard, quindi Danimarca, Copenhagen, dove è raggiunto dalla moglie. Il 9 dicembre lascia per sempre la Danimarca e la Svezia. A giugno del 1905 rivede dopo cinque anni Lou Salomé, il 2 settembre accetta di lavorare da Rodin a Meudon, quindi tiene conferenze a Dresda e Praga. Esce a dicembre Das Stunden-Buch, che dedica a Salomé. Il 14 marzo è a Praga per i funerali del padre, quindi è a Parigi perché litiga con Rodin, poi ancora viaggi, in Belgio. La moglie si reca a Berlino e lui va a Capri il 4 dicembre dove resta ben sei mesi. Viaggi sempre viaggi tumultuosi: Napoli, Parigi, Praga, Breslavia, fa pace con Rodin e sempre scrive, traduce, sempre pubblica.

Nel febbraio 1908 torna a Capri, poi visita ancora Napoli, Roma, Firenze; quindi fa ritorno a Parigi a maggio, si ammala da febbraio all’estate del 1909, inizia un carteggio di 460 lettere con la principessa Thurn und Taxis-Hohenlohe, tiene conferenze a Elbefeld, Lipsia, Jena. Conosce André Gide, poi è in Boemia ospite di amici aristocratici. Nel 1911 è in Africa, visita Algeri, Tunisi, l’Egitto. Visita per nave lungo il Nilo i più grandi monumenti dell’antico Egitto, la Sfinge, la Valle dei Re, le Piramidi di Giza, Luxor, Karnak, Il Cairo. Nel 1911 si separa senza traumi dalla moglie Clara, insieme decidono che la figlia vada a vivere a Monaco con la madre. Ospite a Duino, tra l’ottobre 1911 e il maggio 1912, di Maria Augusta di Thurn und Taxis, scrive uno dei suoi capolavori, Le elegie di Duino. Il poeta conosce Eleonora Duse e la frequenta per tutto luglio. Nello stesso anno visita la Spagna, impressionato dai paesaggi di El Greco, in particolare l’Andalusia, dopo Toledo va a Còrdoba, Siviglia, Ronda, poi va a Madrid. Tra il novembre del 1913 e il febbraio 1914 è ancora a Parigi, traduce opere di Gide. L’8 settembre del 1913 Salomé gli aveva presentato Sigmund Freud. Lasciata Duino il 14 maggio 1914, si trasferisce a Venezia, quindi si reca ad Assisi, poi torna a Parigi. Torna in Germania a luglio, Gottinga, Lipsia, Monaco di Baviera, poi gli ultimi due mesi a Berlino. Nel 1915 legge opere di August Strindberg, Dostoevskij, Montaigne, Flaubert. Nell’autunno riceve l’ultima visita della madre, poi addirittura è ritenuto idoneo alla leva ma pochi mesi dopo viene congedato. Ancora spostamenti: Monaco, Berlino, Monaco, dove scrive una lettera a un’amica, Katharina Kippenberg, in cui si dichiara entusiasta della Rivoluzione d’Ottobre. Con lei vive in un atelier e frequenta amici e conoscenti. Traduce quell’anno poesie di Michelangelo.

Ricevuto un invito, si trasferisce in Svizzera, dopo avere manifestato perplessità sulla Rivoluzione repubblicana (gli fu anche perquisita la casa) e dopo aver visto per l’ultima volta nel 1919 sua figlia. In quei mesi, chissà, forse incontrò senza riconoscerlo un certo Adolf Hitler, ancora uno sbandato senza futuro. In Svizzera è a Zurigo, Nyon, Berna, Engadina. Si dissolve il 10 settembre 1919 l’Impero Austro-ungarico e Rilke diventa apolide, ma di fatto lo era sempre stato. Si fa consegnare un passaporto cèco per restare in Svizzera, in molte città della Svizzera fa letture pubbliche e conferenze delle sue opere. Losanna, Ginevra, Locarno, a Zurigo conosce Nanny Wunderly-Volkart, a cui invierà ben 460 lettere, poi è ospite di amici in castelli e residenze. Contatta Kippenberg per fare trasportare i documenti della sua casa di Monaco – che rischiava di essere sequestrata –  a Lipsia. Traduce opere di Paul Valéry, una rivelazione per lui disse a Gide. La figlia Ruth si sposa con Carl Sieber, e i due saranno importanti per la pubblicazione delle opere del poeta dopo la sua morte.

Completa le sue opere più importanti, le Elegie duinesi e i Sonetti a Orfeo. Il 22 agosto 1923 Rilke viene ricoverato nel sanatorio di Schöneck per dolori e rigonfiamenti all’intestino e in stato di deperimento. Torna a Lucerna il 22 settembre, ma cade in un grave stato psicofisico aggravato dalla solitudine. Sono gli anni peggiori di Rilke, il poeta sente che si approssima la fine, anche se i medici non riscontrano problemi gravi. Passa di sanatorio in sanatorio, fa esami e analisi, consulta medici, gli scoprono dei noduli all’interno delle labbra, il 27 ottobre 1925 il poeta scrive il suo testamento e il suo epitaffio. Intanto, nello stesso anno era stato ancora a Parigi dove aveva incontrato collaboratori e conoscenti, il suo traduttore, critici letterari. A settembre si era separato da Baladine Klossowska. Era malato e solo nel giorno del suo cinquantesimo compleanno.

Nel gennaio 1926 le sue condizioni si aggravano, ed è un accanimento di cure mediche e di sospensioni di cure per completare lavori. A novembre si ammala di febbre intestinale, per il dolore insopportabile fa delle analisi di sangue che rivelano che era affetto da leucemia acuta. Rainer Maria Rilke muore il 29 dicembre 1926 dopo un lungo periodo di febbre molto alta, sui quaranta gradi, e dilaniato da dolori fortissimi. Fu sepolto, come lui aveva disposto nel testamento, nel cimitero di Raron. L’anno dopo, a Berlino, in occasione dell’anniversario della morte di Rilke, un discorso fu tenuto da Robert Musil. 

……….

Che senso possiamo dare alla vita di Rainer Maria Rilke? Che senso possiamo dare a questo suo tumultuoso girovagare per l’Europa? Io credo che il mistero possa essere dipanato leggendo l’epitaffio che lui volle dettare un anno prima della sua morte. La sera del 27 ottobre 1925, a Muzot, sentendo approssimarsi la fine, Rilke scrive il proprio testamento, e lo invia all’amica Nanny Wunderly. Desidera che gli sia tenuto lontano ogni conforto religioso, qualora per la malattia non dovesse essere più in grado di rifiutarlo da sé, e sceglie come luogo di sepoltura il villaggio dalle tipiche case Walser di Raron, su una collina accanto a un’antica chiesa, nel Cantone Vallese, che domina il villaggio. Avanza anche una richiesta all’apparenza bizzarra, non una lapide moderna, ma una vecchia pietra, dalla quale potere cancellare ciò che è scritto e incidere un nuovo nome. Un epitaffio-palinsesto, insomma. Sulla lapide, oltre al nome e allo stemma di famiglia, doveva essere scritta una frase di appena tre versi:

 “Rosa, oh, contraddizione pura! 

Piacere di essere il sonno di nessuno 

sotto infinite palpebre”.

Rilke è l’uomo sempre in cerca di una patria, sia fisica che spirituale. È – come Kafka, un altro grande boemo di lingua tedesca – un uomo privo delle fondamentali certezze della vita, che vive in una condizione estraniante e che soffre per questa condizione. Egli, influenzato certamente dalle filosofie di Schopenhauer e di Nietzsche, sostiene che la verità non è nella spiegazione scientifica, e non è solo nella naturalezza del Cristianesimo. Dio è nella Chiesa e oltre la Chiesa, Dio è nell’estasi, solo la parola musicale, solo il virtuosismo linguistico lo può cantare. Dio è – e questo non è solo panteismo – in tutte le cose, è una religiosità, la sua, insomma, lirico-simbolica. È una poesia, quella di Rilke, che possiamo definire simbolista, espressione di un mondo interiore che supera la verità immanente. Il Decadentismo di Rilke è nel pensiero che non esiste una realtà esterna oggettiva, misurabile, la realtà con tutti i suoi oggetti e le sue cose si colora delle nostre esperienze. Le cose hanno un senso solamente nel significato che esse hanno per noi. E la realtà può essere compresa solo da chi ama e, nella pura interiorità, da chi è defunto in giovane età.

Una poesia espressionistica e simbolista allo stesso tempo, ma non radicata nell’Ottocento come potrebbe sembrare. È una poesia spesso di ardua comprensione, perché simbolica-profetica, filosofica, ma moderna. 

L’ultima produzione di Rilke (la più matura) – Le elegie duinesi, i Sonetti a Orfeo e la raccolta postuma delle Poesie estreme – è caratterizzata da una limpida audacia formale, e da una nuova visione della vita, in cui l’uomo è posto al centro del mondo, come distruttore vittima della mercificazione e della tecnica, o come salvatore, a condizione che sappia trasferirlo in uno spazio interiore. A Rilke, la necessità di preservare da ogni minaccia esterna questo spazio interiore era apparsa drammaticamente evidente durante la prima guerra mondiale, alla quale aveva assistito con sgomento pieno di angoscia e di terrore. Rilke, con un’attività enorme e instancabile di esplorazione e di ricerca, con la sua estenuante ricerca del religioso e di Dio, ha rivoluzionato il linguaggio poetico e ha esercitato un influsso decisivo sulla poesia del ventesimo secolo.

Riadattato da Francesco Bellanti, “Casto, incontaminato amore: Lettere di un professore a Constance, la studentessa prediletta”, Amazon 2023.

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