Le origini della disinformazione

Le origini della disinformazione

di Sergio Caldarella

DEGENERAZIONE CULTURALE ED INTELLETTUALE

Chiunque voglia invitare ad un discorso invocando la necessità di un ragionamento collettivo, di un dialogo razionale condotto insieme, parte oggi già perdente. Nelle narrazioni diffuse a livello generalista domina quel tratto centrale dell’industria culturale che è la costante ripetizione dell’esistente la quale costringe sempre entro gli stessi confini e vicoli chiusi, mentre il ragionare insieme (Synphilosophieren) cresce in territori sempre aperti.

Per chi si sottoponga ad una «discussione» in uno studio televisivo nazionale, la sola cosa concessa è una piccola variazione su temi già stabiliti o prestabiliti (argomenti sui quali esiste un assenso precostruito) – e questo vale tanto per la comunicazione generalista, quanto per gran parte di quelli che, in apparenza, dissentono. Queste sono forme di degenerazione culturale ed intellettuale le quali manifestano una fondamentale mancanza di autonomia di giudizio, di capacità di analisi critica e, in ultimo, sono segni evidenti di una perniciosa forma di corruzione morale e materiale che pervade l’intero tessuto sociale. 

La domanda che qui ci si può porre è: da dove proviene questo livello di corruzione ormai talmente radicato nel tessuto sociale da diventare pressoché invisibile? Con questa domanda si spalanca la porta ad un’enormità di altri problemi e discorsi, tanto sociologici quanto antropologici, poiché, alla fine, si sta qui anche discorrendo sui fini, le passioni, gli orientamenti ed i desideri che muovono gli esseri umani e le loro visioni del mondo. La domanda diventa allora: da cosa vengono determinate le opinioni della collettività?

Per provare ad intentare una risposta bisogna interrogarsi su quali siano gli strumenti in grado di raggiungere la collettività intera. Credo sia facile trovarsi d’accordo quando si afferma che i cittadini vengono in larga parte raggiunti dai mass media e, ancor prima, indirizzati da scuola e università. Ossia da una parte vi è una comunicazione diffusa urbi et orbi e, dall’altra, una comunicazione ristretta al corpo studentesco e finalizzata a selezioni particolari. In entrambi i casi si tratta di modelli di comunicazione costruiti per un target e con un fine. 

Negli anni ’60 gli studenti si ribellavano proclamando di voler cambiare le finalità degli «apparati ideologici dello Stato», per utilizzare un termine coniato all’epoca da Althusser, ma, poi, che ne è stato di queste accalorate intenzioni? Non aveva allora ragione Ionesco il quale, osservando un corteo di protesta studentesco a Parigi, nel ’68, disse lapidariamente: «diventeranno tutti notai», ossia diventeranno tutti dei conformisti o, per dirla con il cinismo di Umberto Eco, degli «integrati»?

Una socialità costruita su precisi modelli di soggiogamento che ricorrono all’ideologia ed alla materia riesce a schiacciare la gran parte delle forme di resistenza e, al tempo stesso, trasforma il mondo intero in una grande prigione da cui possono sfuggire solo coloro i quali mantengono la facoltà di pensare autonomamente. I chierici del potere chiameranno questa sottomissione al modello dominante con il nome di «realismo». 

Non è difficile immaginare che coloro i quali vogliano indirizzare e determinare le direzioni della socialità debbano, dapprima, ottenere un controllo sugli indirizzi della comunicazione generale e sulla programmazione scolastica. Tutto questo non è forse evidente? Eppure uno degli scopi essenziali dell’industria culturale è proprio quello di trasformare l’evidenza in una chimera di parte. 

Proprio grazie al rapporto antitetico tra evidenza ed ideologia si incappa, da subito, nel benpensante, ossia in colui il quale, proprio perché si abbevera unicamente alle fonti dell’ufficialità e, per questo, non conosce né riesce ad immaginare altra alternativa, dice: «sarà forse evidente per te ma è, in ogni caso, giusto così, perché viene fatto per il nostro bene, per la patria, per la mia chiesa, per la solidarietà, etc.». Il benpensante non riesce a chiedersi: «che tipo di opinioni, modelli comportamentali e contenuti vengono veicolati ed imposti da queste strutture davanti alle quali abdico alla mia autonomia?» Per il benpensante la legittimità politica o morale – ammesso che si ponga tali problemi – sono determinate unicamente dal posizionamento gerarchico. La sua è, sostanzialmente, una moralità di vertice. Questa è un’impostazione concettuale la quale tende, naturalmente, all’autoritarismo. Non c’è allora da stupirsi se una società in cui vi è una maggioranza di benpensanti, o integrati, sia una società tendente all’autoritarismo in cui ciò che proviene dall’alto è giusto proprio perché proviene dall’alto e basta. Questa asserzione è, però, solo una mediocre tautologia, ossia una dichiarazione logicamente invalida, poiché trae dalla premessa la giustificazione per una conclusione fallace e, sostanzialmente, tendente all’inumanità. L’etica è, infatti, nel discorso condiviso e indirizzato alla giustizia, uguaglianza e libertà, non nelle dichiarazioni del capo o del Duce. 

Lasciandosi alle spalle il primo grande scoglio del benpensante da cui provengono, poi, tutta una serie di altre categorie come gli obbedienti, i silenti, i solerti esecutori, etc., continua a rimanere valida l’antica domanda: chi determina la visione del mondo dominante se non i dominatori? 

Già il fatto che in una società esista un’opinione che possa dirsi «dominante» è indicativo di una carenza di pluralità democratica la quale ha, sempre, delle conseguenze sull’organizzazione politica. Una società ad una dimensione (Marcuse), da un solo libro, da un solo modello senza alternative (neoliberismo), non può dirsi autenticamente democratica. I chierici del potere che diffondono le chiacchiere politiche su una società in cui non vi sono altre alternative dal modello dominante escludono, ab ovo, i presupposti di una società democratica. Tutto quello che segue è, poi, il risultato di questa petitio principii originaria.  

Un sistema democratico moderno trova conciliazione sotto l’ombrello della Costituzione e delle leggi: nel momento in cui si escogitano e giustificano cavilli per violare l’una o le altre ci si addentra, nuovamente, nei territori bui della storia. In un Paese libero e democratico uno può ben credere negli unicorni e l’altro nei fantasmi, purché nessuno dei due provi ad imporre le proprie credenze e fantasie all’altro attraverso metodi coercitivi. Alla radice di una società libera vi è proprio la diversità di opinioni che consente la stratificazione eterogenea della socialità, mentre una società totalitaria tende sempre ad un modello unico e totalizzante dettato dall’alto. 

È anche essenziale osservare che la forza non è il solo metodo di coercizione e forme di comunicazione propagandistica generalizzata rappresentano, già in sé, una violazione del diritto democratico ad un’informazione libera, introducendo anche una fondamentale confusione sul contenuto stesso della realtà. Secondariamente, ostacolano proprio lo sviluppo della persona la quale viene indottrinata in un mondo costantemente falsificato dal potere e, come osservava Theodor Adorno, non può darsi una vita giusta nel falso. Ossia un mondo falso non consente lo sviluppo di quell’autonomia su cui cresce la libertà ed è attraverso la conformità di massa che viene resa possibile la completa falsificazione della realtà, proprio come nella fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore. Accettare la realtà oggettiva, in un’epoca di distanziamento da questa, si configura, dunque, come il primo dovere di un cittadino che voglia dirsi democratico.  

Se vogliamo, possiamo aggiungere che, poiché un sistema democratico pone giustizia, uguaglianza e libertà quali suoi fondamenti, si può allora auspicare una società la quale si trovi unita sull’ermeneutica giuridica dei fatti mentre, per quanto riguarda tutti gli altri aspetti della vita in comune, ognuno dev’essere libero di scegliersi i propri vizi e virtù – purché questi non confliggano con le norme della legalità condivisa.  

Questo ci porta al secondo problema. Chi vuol soggiogare la socialità ai propri fini, oltre alla manipolazione, deve anche appropriarsi della facoltà di varare delle norme che siano indirizzate alla tutela di interessi particolari e non generali. La depenalizzazione del falso in bilancio – per limitarsi ad un solo esempio – giova unicamente a coloro i quali hanno bilanci da presentare, non certo alla socialità nel suo insieme. Emerge, proprio da questi punti, la centralità del discorso giuridico che stabilisce e garantisce le libertà nel contesto di una società democratica intervenendo, con l’azione legale, contro il dolo tanto in basso come in alto.

C’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui la teoria politica, come osservava Norberto Bobbio, caratterizzava le epoche pre-liberali dal fatto che in queste vige un’equivalenza tra conflitto sociale e disintegrazione con la quale si giustifica l’imposizione di modelli autoritari, mentre l’epoca liberale si caratterizza per la sua interpretazione dei conflitti e delle rivalità come fattori positivi e costitutivi di tale modello sociale. È però evidente e sotto gli occhi di tutti come, a partire dal 2020, qualunque discorso che dissenta dalle narrazioni dominanti viene immediatamente attaccato e denigrato a reti unificate, una tecnica che rivela, implicitamente, il serpeggiare di un’ideologia più vicina alle epoche pre-liberali che non a quelle liberali e democratiche. 

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