La psicologa Carrara: “Quando la nostra mente non trova la verità si tormenta fino allo sfinimento”
di Matteo Orlando
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LA PSICOLOGA BERGAMASCA SILVIA CARRARA: “IN TEMPO DI PANDEMIA SONO STATE SFODERATE LE MIGLIORI ARMI DI MANIPOLAZIONE”
“Quando la nostra mente non trova la verità, non si dà pace, si tormenta, anche fino allo sfinimento”. A dirlo ad Informazione Cattolica è la dottoressa Silvia Carrara, laureata con Lode in Psicologia Clinica all’Università degli Studi di Bergamo, psicologa presso il Centro Medico Sanitario Dr. Mandelli a Terno d’Isola (BG).
Lo scorso anno la dottoressa Carrara ha pubblicato vari studi in collaborazione con vari professionisti del settore. Ricordiamo a titolo esemplificativo “Psychological Covariates of Blood Pressure among Patients with Hypertension and Metabolic Syndrome. Health Psychology” sulla rivista Health Psychology e “The effects of Attachment, Temperament and Self-Esteem on Technology Addiction: A Mediation Model among Young Adults”, sulla rivista Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking.
Dottoressa cosa nota, dal punto di vista psicologico, negli italiani in questo post pandemia (ammesso che tale si possa definire)?
Dal punto di vista psicologico mi pare di osservare, e questo sin dai primi mesi della “pandemia”, una sorta di frattura tra chi ha sviluppato una consapevolezza rispetto alla vicenda pandemica all’interno del più grande scenario mondiale e chi questo aspetto tende a nasconderlo, innanzitutto a se stesso. E le ragioni non sono riferibili a capacità intellettive ovviamente, ma a ciò che potremo definire una fiducia “epistemica”, ossia quella fiducia nel sistema di conoscenza che plasma la visione del mondo come più o meno buono, e alla difficoltà per la mente di stare senza questa fiducia. Questo fenomeno è facilmente osservabile nella frequente negazione e giustificazione anche di fronte a palesi incoerenze messe in atto da chi ha mantenuto questa fiducia. Non a caso, molto spesso abbiamo sentito intorno a noi la frase “non posso credere che chi ci governa voglia il nostro male” e simili. E non a caso, tendenzialmente chi ha perso questa fiducia l’ha ricostruita in un sistema alternativo rappresentato da gruppi politici e organizzazioni apartitiche dissidenti, proprio perché stare senza di essa è fonte di angoscia per la nostra mente. Questa dinamica psicologica ha importanti conseguenze, a mio avviso, sulla capacità dei singoli di mettere in dubbio lo stato di cose e, quindi, di investire le proprie energie per cambiarle.
In molti hanno parlato di info-demia, di psico-demia o entrambi. A suo giudizio c’è del vero in queste definizioni?
Ritengo ci sia del vero, ma che tali dinamiche che si manifestano nell’intrapsichico (cioè all’interno della singola persona) e riverberano poi a livello sociale, non siano prettamente frutto del nostro tempo. Sono reazioni più fortemente determinate da meccanismi evolutivi che mirano alla protezione dell’individuo e della specie, e che si manifestano attraverso gli strumenti che di volta in volta sono a disposizione. Nel nostro caso, i mezzi di interazione sociale e comunicazione di massa. La mente dell’uomo è fatta per sapere, per conoscere, per trovare risposte a domande, sia a scopo difensivo e adattivo alla sopravvivenza, che a scopo creativo. L’origine è la stessa, ed è riconducibile all’angoscia generata dall’incertezza, dal non sapere, che spinge a scoprire, a cercare. Nei casi di percepita minaccia per la sopravvivenza (come nel caso della “pandemia”) questi meccanismi psichici si amplificano, generando ciò che appunto definiamo info-demia. Credo sia importante risalire a una spiegazione dei comportamenti più ampia, che non guardi solo al presente, per poter avere una comprensione più completa di ciò che il singolo evento (la pandemia) ha generato.
A noi sembra che il popolo italiano, forse più di tanti altri popoli, si sia bevuto (a parte una meritoria minoranza) tutti i diktat sanitari dei governanti senza colpo ferire. Lei che idea si è fatta?
Forse sì, non ho un’idea così chiara sulla situazione all’estero. Se da una parte siamo forse stati tra i popoli più accondiscendenti, dall’altra siamo stati tra i più divisi internamente. Motivo per cui la pressione potrebbe essere stata maggiore. Il problema principale, che più volte è stato ribadito ben prima di me, è stata la divisione interna, di conflitto orizzontale che è stato creato – forse direzionato? – affinché l’attenzione fosse rivolta al proprio simile che di potere non ne ha, anziché all’élite che il potere invece lo esercita. Se vi è realmente stata una maggiore pressione sul popolo italiano, potrebbe essere stato dettato da una consapevolezza di questa perdita di fiducia nel sistema, che ha portato a sfoderare le armi di influenza di massa più potenti.
Diversi pensatori hanno sostenuto che ci sia stato una sorta di forte condizionamento mediatico per spingere a fare gli italiani qualsiasi cosa venisse loro richiesta. Dal punto di vista della psicologia individuale quanto ha inciso lo spauracchio della morte? E dal punto di vista della psicologia masse che tecniche hanno usato?
Indubbiamente c’è stato un condizionamento psicologico, ma questo avviene già quotidianamente, non solo attraverso il mezzo televisione, ma anche e soprattutto attraverso i dispositivi che ogni giorno governano – a scapito della consapevolezza – le nostre azioni: i telefoni. Sotto l’indubbia comodità di efficientare il loro utilizzo, i dati raccolti vengono utilizzati per direzionare preferenze e acquisti, ma non solo, anche idee e visioni del mondo (a tal proposito c’è un noto libro “Il capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff). Non stupisce dunque che anche in tempo di pandemia si siano sfoderate le migliori armi di manipolazione. La morte è la fonte primaria di angoscia, per qualsiasi essere umano e non solo per esso. Accomuna qualsiasi forma di vita. Dal punto di vista sociale abbiamo potuto osservare più esplicitamente tecniche manipolatorie legate soprattutto a una presunta responsabilizzazione nel conformarsi alle richieste di volta in volta presentate alla popolazione. Ricordiamo che la tendenza al conformismo è una delle più note e potenti dinamiche sociali all’interno dei gruppi. Ci sono esperimenti di psicologia sociale degli anni ’50 e ’60 che mettono in luce molto chiaramente la loro potenza e la loro intersezione con i valori morali e la sottomissione alle autorità (l’esperimento di Stanley Milgram, l’esperimento di Solomon Ash, il caso di Kitty Genovese, per fare degli esempi). Se presupponiamo l’esistenza di un’intenzionalità da parte di chi detiene il potere, essendo queste nozioni da manuale, viene difficile pensare non siano stati presi in considerazione da chi aveva – e ha – un interesse nel direzionare le scelte di un’intera popolazione.
Quali sono state le implicazioni psicologiche (e quali sono gli strascichi) per i giovani relative all’uso di piattaforme digitali durante la cosiddetta pandemia?
Difficoltà a entrare in contatto con il proprio mondo emotivo, a stare in contatto con le proprie emozioni, specialmente quelle spiacevoli, che si traduce in una difficoltà di socializzazione, in una minore capacità empatica (che tramite la socializzazione si sviluppa), in un ridotta capacità di interessarsi alle cose del mondo, con conseguente distacco dalla sofferenza altrui. Sono dinamiche intrapsichiche sempre recuperabili, ma che richiedono un lavoro su di sé e sul proprio mondo interiore non indifferente e che difficilmente può essere raggiunto su larga scala. Gli strascichi a lungo termine ad oggi sono sconosciuti e continueranno ad esserlo perché finora, mai nessuna generazione ha vissuto i rapporti sociali in questo modo innaturale.
Ansia e depressione. Come sono messi gli italiani?
Per quanto osservo nella mia pratica clinica, i temi di ansia e depressione non sono mutati rispetto alla pandemia. L’incertezza degli eventi futuri – origine dell’ansia – e le domande esistenziali che gli stati depressivi portano con sé ci sono e ci sono sempre state. Più che all’evento pandemico in sé, imputerei un aumento di queste forme di sofferenza a una più generale perdita di contatto con il propri mondo emotivo che, come si diceva poc’anzi, è quello stesso mondo interiore che permette di dotare di senso le proprie scelte e le proprie azioni, che si tratti di relazioni, di lavoro o di passioni. Uno “svuotamento” che si traduce in timore per l’incertezza futura e in domande sul senso della vita che restano inevase, che non trovano verità. E quando la nostra mente non trova la verità, non si dà pace, si tormenta, anche fino allo sfinimento.
Lei esercita la professione di psicologa guidata da un approccio umanistico. Cosa intende?
La psicologia odierna pullula di approcci di ogni tipo, molto spesso percepiti dagli psicologi stessi come in conflitto tra loro. E questo non giova alla categoria professionale, che concentrandosi su quale approccio sia il più “giusto” in termini di efficacia, perde di vista quali siano i fattori trasversali che rendono l’aiuto psicologico efficace. Questo per dire che qualsiasi approccio usato per descrivere una professionalità perde di valore e di efficacia nel momento in cui si concentra sulla sua supremazia e non sulla sua funzione di permettere al professionista di esprimere al meglio le proprie qualità. Nel mio caso, approccio umanistico significa innanzitutto accogliere chi si rivolge a me come persona e non come paziente, come caso o come cliente. Significa non vedere la sofferenza come una malattia che va curata attraverso un processo di guarigione, ma vedere quella stessa sofferenza come un bisogno di cambiamento e realizzazione che la persona sente dentro di sé. Sono differenze che solo apparentemente sono terminologiche, ma che nella concretezza della pratica clinica, riflettono il rapporto di fiducia che si instaura con la persona e, di riflesso, le diverse traiettorie di sviluppo che il lavoro clinico può portare.