Le brillanti operazioni dei servizi segreti italiani
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I NOSTRI AGENTI FURONO AUTORI DI ALCUNI “COLPI”, GUADAGNANDOSI IL RISPETTO E L’AMMIRAZIONE DEGLI AMERICANI (Seconda parte)
Dopo aver parlato delle operazioni degli italiani in Albania nei primi anni della Guerra Fredda continuiamo la chiacchierata col dottor Alessandro Giorgi, divulgatore di storia militare e autore di numerosi saggi, sulle attività del servizio segreto italiano nel secondo dopoguerra
Dottor Giorgi, ci furono delle operazioni di intelligence particolarmente brillanti che videro protagonisti i nostri agenti?
«Per quanto riguarda il secondo dopoguerra ne ricordo una di cui si trova traccia nelle fonti americane. Si tratta di una operazione tutta italiana nel corso della quale sono stati infiltrati cinquanta agenti nei porti del Mar Nero, allora totalmente sotto controllo sovietico, mescolati tra gli equipaggi dei mercantili che facevano la spola con l’Italia per il trasporto del carbone. Cinquanta spie è un numero abbastanza elevato, anche se non so nel dettaglio quali risultati abbiano ottenuto ma sicuramente è stata una operazione abbastanza importante, che dimostra come l’Italia, oltre a paracadutare informatori in Albania era anche in grado di progettare operazioni a largo raggio. Un’altra operazione degli anni Cinquanta, riportata anch’essa per filo e per segno nei documenti della Cia, riguarda uno scienziato nucleare ungherese che agenti italiani riuscirono a portare dalla nostra parte. A cooptare lo scienziato fu un agente ungherese al nostro servizio. L’esperto nucleare fu poi interrogato in Svizzera ma volle restare sotto la tutela degli italiani. Certamente non si trattava di uno del calibro di Enrico Fermi e inoltre l’Italia non aveva programmi atomici in cantiere ma fu ugualmente un “colpo” molto interessante».
Ci fu anche un episodio di spionaggio nei confronti di francesi e inglesi nostri alleati?
«Si, ma è una vicenda conosciuta solo a metà. L’ufficiale di collegamento in Italia tra i nostri servizi e la Cia, era tal James Jesus Angleton, il quale aveva passato gli anni della giovinezza in Italia perché il padre era il direttore della filiale italiana della Ncr, l’azienda che fabbricava i registratori di cassa dei supermercati e che durante la guerra aveva prodotto in grande serie le macchine Ultra che avevano permesso agli alleati di decriptare i messaggi tedeschi. Avendo conosciuto bene l’Italia aveva un’alta considerazione per noi, a differenza degli inglesi che si mostravano ancora vendicativi avendo subito dagli italiani parecchi danni in guerra. Una fonte che noi avevamo denominato “Durban”, forse un sudafricano, si era fatto avanti tramite un intermediario nel 1940, prima della guerra, per venderci i cifrari segreti delle marine francese e inglese. Noi li comperammo. Nel 1947 Durban si fece nuovamente avanti per venderci ancora una volta i codici, questa volta pos-bellici, sempre di inglesi e francesi. Angleton intanto era stato richiamato in America e non è stato possibile sapere se l’operazione andò in porto oppure se ci tirammo indietro, considerato che in quel momento eravamo alleati e che da lì a poco saremmo entrati nella Nato».
Quanto era ritenuto capace e affidabile il nostro servizio segreto? In fondo gli italiani erano stati quelli che avevano tradito l’alleato tedesco in piena guerra
«Per quanto riguarda il sistema politico nazionale l’inaffidabilità è uno stigma, un marchio di fabbrica, che meritato o no ci portiamo dietro. Dei nostri servizi, sfrondando dalla propaganda, l’ opinione era abbastanza buona. Gli inglesi erano convinti di essere i maestri dello spionaggio, pur essendo caduti come tonni in una serie di trappole tragicomiche, come quella dei cinque di Cambridge cui ho già accennato. Ma c’è la testimonianza diretta del generale Wernon Walters, che è stato vicedirettore della Cia, il quale in un rapporto parlando anche dell’Italia dice che la regola numero uno è non sottovalutare mai gli avversari ma neanche gli alleati, citando alcuni specifici episodi della sua esperienza italiana di inizio anni Sessanta. In particolare ha ricordato la volta in cui era in Italia in incognito, in giro come un assoluto signor nessuno solo per farsi una idea in generale del paese. Viaggiava in automobile e un giorno si fermò in una trattoria scelta del tutto casualmente; quando al termine del pasto andò per pagare il cameriere lo informò che ci aveva già pensato un signore. Quel signore si presentò poi a Walters come un agente del Sifar, che aveva voluto fargli un gentile omaggio. Il generale americano rimase di stucco per come si era fatto beccare, soprattutto dopo che a Washington gli avevano detto che gli italiani avevano sì una buona organizzazione, ma pochi mezzi e facevano quello che potevano. La stessa cosa accadde qualche tempo dopo. Seguito senza che se ne avvedesse gli fu nuovamente offerto il pranzo da un altro agente del Sifar il quale gli disse: “Ci tenevamo a farle sapere che non abbiamo perso il nostro tocco magico”. Diciamo dunque che soprattutto da parte americana la nostra reputazione era abbastanza buona».
Quando i nostri servizi risultarono particolarmente utili?
«Fu nel 1956, con la crisi di Suez, che i servizi italiani si conquistarono una buona fama. Gli americani non sapevano che inglesi e francesi d’accordo con gli israeliani stavano per lanciare i paracadutisti sul Canale e furono proprio gli italiani ad avvisarli qualche giorno prima. Il fatto che gli americani fossero all’oscuro e che fossimo stati noi a dare l’allarme aumentò la considerazione. Che comunque tra gli addetti ai lavori è sempre stata di livello medio-alto. Alla fine della guerra infatti gli archivi del nostro servizio segreto militare furono tutti portati a Washington e microfilmati; poi ci vennero restituiti ma guardandoci dentro si resero conto di quello che sapevamo fare, come quella volta a fine agosto del 1941 quando in una incursione all’ambasciata americana a Roma fu fotografato, senza che gli americano se ne rendessero conto, il codice segreto diplomatico che almeno fino alla metà del 1942 dette un discreto vantaggio a Rommel in Nordafrica».
Le operazioni segrete italiane, sia quelle oltrecortina che le altre, erano condotte unicamente negli interessi degli alleati e della Nato o l’Italia operava anche a tutela dei propri interessi nazionali?
«Le nostre operazioni in Jugoslavia erano prevalentemente svolte per conto nostro, a tutela dell’interessa nazionale, per vedere che aria tirava in vista della sistemazione di Trieste. Le infiltrazioni in Albania erano fatte prevalentemente per conto nostro mentre quella sul Mar Nero era stata a beneficio anche degli americani. Nel Corno, d’Africa, nei Balcani, in Turchia le operazioni erano svolte per conto nostro. La condivisione delle informazioni con gli americani avveniva solo quando questi ci fornivano i mezzi tecnici. In generale gli americani non avevano bisogno di noi avendo a disposizione molti più mezzi e proprie procedure. Poteva accadere ci chiedessero di fare qualcosa perché magari eravamo meglio introdotti in certi ambienti ma non avevano bisogno di teleguidarci».
L’Italia operò anche in Nordafrica?
«Fu attiva in tutto il Medio Oriente ma sostanzialmente in Nordafrica; in Egitto e nella Libia di re Idris. Con Gheddafi l’Italia mantenne una presenza ma essendo stati cacciati tutti gli italiani con i soli vestiti che avevano addosso l’intelligence divenne più difficile. Un paese dove invece rimanemmo attivi fu senza dubbio la Tunisia. Ogni ambasciata italiana all’estero aveva almeno cinque agenti del Sifar, poi divenuto Sid formalmente dal 1° luglio 1966 (fu nell’autunno 1977 che anche quest’ultimo fu sostituito dal Sismi)».
Qui il video della seconda parte dell’intervista