La strategia realista di Aurelio De Laurentiis
di Eugenio Capozzi
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LO SCUDETTO VINTO DAL NAPOLI È INNANZITUTTO IL FRUTTO DELLA GESTIONE ESEMPLARE DI UN’AZIENDA
Lo scudetto vinto dal Napoli è innanzitutto il frutto della gestione esemplare di un’azienda. È innanzitutto la vittoria di un uomo e di un imprenditore, Aurelio De Laurentiis, e delle persone da lui scelte, a cominciare dal geniale direttore sportivo Cristiano Giuntoli.
De Laurentiis nel 2004 rilevò una squadra fallita e degradata in C2, per colpa di enormi sprechi cominciati già nella tanto mitizzata epoca di Ferlaino. In vent’anni, senza promettere né fare miracoli, sbagliando e imparando e correggendosi, l’ha portata al vertice del calcio italiano e a competere stabilmente da pari a pari con i più grandi club europei: impresa proibitiva per una compagine gestita ancora da un presidente “normale” in un’epoca in cui il grande football è dominato da mega-fondi d’investimento finanziario, mega-corporation, emiri e sceicchi.
E ha ottenuto questo incredibile risultato usando al meglio i mezzi di cui disponeva: con una politica finanziaria oculata, non accumulando debiti, scegliendo giocatori giovani e motivati, non viziandoli con ingaggi fuori dalla realtà, ricavando occasionalmente dalla vendita di alcuni tra essi guadagni reali, non “plusvalenze” fittizie.
Una strategia realista come quella di altre società similmente non ricche, Atalanta e Udinese in primis. Ma con risultati molto migliori. L’esatto contrario dei club italiani più blasonati, che intanto sprofondavano vittime del loro senso di onnipotenza, facendosi abbindolare da procuratori rapaci e/o investendo in giocatori “figurina”, idoli demotivati, gratificati di compensi faraonici.
In questo modo De Laurentiis ha costruito, da ultimo grazie alla sapiente opera anche didattica di Luciano Spalletti, la squadra dal gioco più brillante, gioioso, moderno, divertente del continente, superiore qualitativamente anche a quella del tempo di Maradona. Con realismo, buona amministrazione, umiltà, attenzione alla sostanza piuttosto che ai lustrini.
E proprio per la sua lungimirante strategia è stato a lungo criticato e denigrato da una porzione considerevole della tifoseria partenopea, che lo accusava di non vivere al di sopra dei propri mezzi, di non gettare miliardi dalla finestra, persino (cosa sommamente disonorevole per la mentalità “spagnolesca” di certi strati deteriori della società cittadina) di fare profitti.
Ora tanti che lo chiamavano “pappone” esaltano il trionfo di Kvara e Osimhen, dimenticando di nominare prima chi lo ha pazientemente voluto e coerentemente costruito. E magari attingono ai più frusti luoghi comuni del populismo “napoletanista”, blaterando di riscatto di un “popolo”, di vittoria di una città. Un popolo e una città che esistono solo nella loro demagogica fantasia, mentre la realtà ci riporta a un’area metropolitana deindustrializzata, invecchiata, ripiegata su se stessa, stentatamente sopravvivente grazie a cascate di sussidi e al suo trasformarsi in macchiettistico scenario di un turismo di massa da quattro soldi.
No. Lo scudetto 2023 non rispecchia la Napoli del 2023. È semmai un esempio virtuoso della via che la città dovrebbe seguire, se smettesse di piangersi addosso, guardarsi l’ombelico, lodarsi e imbrodarsi, rimirarsi inutilmente allo specchio. L’esempio di un successo d’impresa costruito da un uomo solo, rischiando in prima persona contro ogni probabilità, contro quasi tutto e tutti.