L’Europa è nuovamente divisa
A cura di Pietro Licciardi
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LA GUERRA IN UCRAINA HA RIALLONTANATO LA RUSSIA. TRAMONTA IL SOGNO DI GIOVANNI PAOLO II DI UN CONTINENTE CON DUE POLMONI
Lorenzo Vita è un giornalista professionista, scrive analisi e realizza reportage per Il Giornale e InsideOver oltre a collaborare con alcune riviste specializzate della difesa.
Lei è mai stato in Dombass? Ha avuto modo di capire coe si è arrivati alla guerra aperta tra Russia e Ucraina senza riuscire a comporre una crisi che si trascinava da almeno otto anni?
«Sinceramente non ho esperienza diretta “sul campo” in Dombass però ho avuto modo di studiare la questione e devo dire che effettivamente c’erano tutte le condizioni per prevedere che il conflitto sarebbe scoppiato. Da una parte c’è stata la volontà di chi l’ha scatenato ma dall’altra una serie di omissioni e negligenze di chi questa guerra non ha fatto molto per evitarla. Se guardiamo alle organizzazioni internazionali cui fanno riferimento entrambe le parti in conflitto e quelle che supportano Kiev di certo non c’è stato un impegno per far si che la guerra non iniziasse. Pensiamo alle Nazioni Unite, che ormai da dieci anni hanno praticamente fallito su tutti i fronti in cui poteva fare qualcosa. L’Onu non solo non è riuscita a prevenire ma neppure è riuscita a frapporsi fra le parti già in guerra. Oggi costatiamo una serie di errori che si sono sovrapposti alla volontà delle singole parti creando una miscela che ha fatto diventare il conflitto quasi l’unica via di uscita e paradossalmente adesso è anche diventato impossibile capire quale può essere la via di uscita dal conflitto, perché è diventato difficile perfino intravedere quali sono oggi gli obiettivi strategici di Russia e Ucraina. L’Ucraina evidentemente vuole la liberazione del proprio territorio ma entrambe le parti hanno assunto posizioni massimaliste per cui stanno cambiando gli obiettivi rispetto all’inizio della guerra. La stessa Ucraina parla di vittoria sui russi ma non si capisce se questa vittoria comprenda o meno la Crimea e come pensano di prendere il Dombass. Il ministro degli esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, nella conferenza di Monaco che si è svolta a Febbraio ha chiesto apertamente di specificare qual è il significato di vittoria di cui parla l’Occidente, perché su questo punto ancora non ci sono delle specifiche definizioni. Si pensa alla fine della guerra ma tutti quelli che supportano l’Ucraina pensano effettivamente ad una liberazione come spera Kiev o a qualcosa di intermedio?».
Tra l’altro bisognerà anche vedere come l’Ucraina intende governare i territori eventualmente liberati, considerato che lì ormai sono rimasti probabilmente solo filo russi.
«Infatti recentemente il governo ucraino ha fatto uscire dei documenti in cui si spiega che la riconquista della Crimea deve andare di pari passo con la derussificazione e questo potrebbe essere un segnale. Ma bisognerà capire se i Paesi allineati con Kiev saranno d’accordo con determinate azioni».
Se pensiamo all’Iraq e all’Afghanistan sembra che gli americani in politica estera si comportino come un elefante in un negozio di cristalli. Oggi sono in Ucraina. E’ saggio lasciare a loro il ruolo di sceriffi del mondo?
«La questione afghana è stato un trauma dal quale gli Stati Uniti si sono ripresi a livello di leadership proprio con la gestione del conflitto in Ucraina e il sostegno a Kiev. Ricordiamo che dall’accordo di Doha, fatto da Trump, e col ritiro disastroso gestito da Biden gli Stati Uniti hanno perso tantissima autorevolezza con gli alleati, tanto che nel periodo del ritiro, nell’Agosto 2021, in Europa si parlava di autonomia strategica proprio perché era palese che gli americani si comportassero in modo del tutto autonomo rispetto agli alleati della Nato. L’Afghanistan inoltre non ha portato all’America un beneficio diplomatico perché tanti governi si sono risentiti da questa azione. Vi sono state tuttavia delle letture secondo me un po’ superficiali in quanto si è parlato dell’Afghanistan come della grande sconfitta degli Stati Uniti ma poi bisogna valutare nel lungo periodo. Oggi quel Paese è un buco nero e ci sarà da capire quel buco da chi sarà colmato. Anche l’invasione dell’Iraq si è rivelata successivamente un disastro diplomatico, con gli Usa che hanno abbattuto Saddam Hussein per trovarsi con le milizie filo-iraniane a controllare molte aree del Paese. Insomma è vero che gli Stati Uniti si comportano in maniera un po’ caotica. Non so se sono proprio degli elefanti in una cristalleria perché alla fine si comportano da quello che sono: una superpotenza e non è che per certi versi la Russia si comporti in maniera troppo lineare e sobria. La Cina da questo punto di vista ha un modo di comportarsi totalmente diverso, che deriva dalla loro storia. Gli Stati Uniti secondo me in questa fase stanno riprendendo le fila di una alleanza occidentale danneggiata dalle precedenti iniziative che però adesso mi sembra assolutamente salda, anche perché l’Europa paga un prezzo altissimo per non aver limitato prima la Russia e adesso non può fare altro che accettare la linea americana».
La Russia nonostante abbia dimostrato di avere gli artigli un po’ spuntati fa ancora paura e c’è una rincorsa ad Est nell’entrare nella Nato. Se si pensa anche al ventilato armistizio con l’Ucraina stile trentottesimo parallelo tra le due Coree, stiamo andando verso una nuova Cortina di ferro?
«Probabilmente già ci siamo e anzi è ancora più allargata di prima perché oggi la cortina arriva fino al confine russo perché a parte la Bielorussia non ci sono paesi in Europa che non siano parte della Nato o dell’Unione Europea. L’ingresso di Finlandia e Svezia chiude il cerchio. Questa cortina di ferro ha cominciato a calare ormai da qualche anno e non con la guerra in Ucraina ma le premesse c’erano tutte. Magari prima non se ne parlava perché era meno importante ma la Nato e gli Stati Uniti non si comportavano in modo del tutto aperto con Mosca e viceversa. Prima dell’Ucraina ci sono state tante iniziative strategiche dell’Occidente che voleva un mondo orientale legato sempre più al mondo occidentale. Penso ad esempio al Trimarium, il progetto di collegare il Baltico col Mar Nero e l’Adriatico per creare una cintura infrastrutturale, strategica e politica che in qualche modo chiudeva l’Europa orientale legandola al blocco Nato. e si è anche materializzata, pensiamo ai “muri” sui confini russi: oltre alla barriera in Finlandia ci sono anche i “muri” in Polonia al confine con la Bielorussia e nei Paesi baltici. Una cortina di ferro che è anche culturale. Ricordiamo che questa guerra ha anche una connotazione “esistenziale” per le due parti ed è difficile farle dialogare non volendo riconoscere l’altro come un interlocutore, considerato solo un nemico. Ormai è impossibile per l’Occidente aprire un canale di dialogo con Mosca e anche negli Stai Uniti è difficile trovare qualcuno che voglia gettare un ponte politico verso il Cremlino. Non vorrei sbagliare ma neppure più si parla di sostenere possibili oppositori di Putin e la Russia è ormai considerata un mondo a parte. Insomma la Cortina di ferro c’è ed è anche più impenetrabile di quella ai tempi della Guerra fredda, in cui c’erano molti più scambi e un continuo tentativo di dialogo con l’idea che crollata l’Urss, la Russia potesse tornare nel mondo occidentale. Oggi invece la cortina sta inglobando anche la Cina costituendo una divisione tra Occidente e Oriente anche più complessa e profonda di quella che c’era tra Est e Ovest».
Quindi a quanto pare possiamo dire addio al sogno e all’auspicio di Giovanni Paolo II di una Europa con due polmoni: occidentale e russo… Ma adesso spostiamoci sul Medio oriente, dove la situazione è drammatica, pensiamo a Libano e Siria, e dove anche a causa del disimpegno russo e in parte americano la situazione potrebbe degenerare ulteriormente.
«Un mese fa ero in Libano e ho visto due problemi, oltre alla enorme crisi che sta vivendo il Paese. Uno è la diaspora dei cristiani e non solo, perché ormai chiunque può andar via lo fa. Ma l’esodo è avvenuto soprattutto dopo l’esplosione del porto di Beirut che colpì in modo più grave proprio il quartiere cristiano. Mi permetto di dire che noi forse vediamo in maniera superficiale e anche con lenti ideologiche quello che succede. Ad esempio in Libano la distinzione tra mussulmani e cristiani è molto meno marcata ed è anche difficile trovare chi fa distinzioni tra sciiti e sunniti; non perché ovviamente non ci siano ma ormai la crisi del Paese è tale e con un nemico che per molti resta Israele che le differenze tra confessioni sono molto meno marcate rispetto ad altre realtà del Medio oriente. La diaspora dei cristiani comunque rappresenta un danno non solo per la cultura – Iraq, Libano e Siria sono paesi in cui il cristianesimo ha un radicamento bimillenario – ma anche per la società e l’economia, poiché con i cristiani va via una potenziale classe dirigente, di imprenditori e artigiani, che sarà difficile recuperare. Le comunità cristiane sono state per molto tempo anche dei riferimenti e degli interlocutori politici. Quello che è accaduto in Iraq nella piana di Ninive, una delle aree in cui il cristianesimo si è sviluppato, è stata una fuga totale di cristiani e anche su quello che sta avvenendo in Libano bisognerebbe porre gli occhi. Il Medio oriente sta effettivamente vivendo una emorragia di cristiani che nel tempo porterà ad una polarizzazione e al rischio di ulteriori focolai di tensioni».
Apro una parentesi: il Libano è economicamente in ginocchio mentre la Siria è distrutta e smembrata, in entrambi i Paesi la popolazione è allo stremo. Hanno ancora senso le sanzioni che l’Occidente ha comminato loro?
«Per quanto riguarda il Libano il problema maggiore non sono le sanzioni. Paradossalmente parlando coi libanesi ci si rende conto che tanti di loro accettano la situazione perché sanno che in qualche modo si riuscirà a trovare una soluzione. La speranza è che i paesi sponsor delle diverse fazioni facciano in modo che i libanesi si mettano d’accordo tra loro almeno per darsi un governo e un presidente della repubblica per superare l’attuale paralisi politica. Dal punto di vista economico purtroppo non hanno risorse per uscire fuori dalla crisi e l’unica soluzione è che l’accordo sul gas con Israele faccia in modo che i giacimenti in Mediterraneo possano essere sfruttati così che le casse dello Stato possano trarne beneficio, ma la crisi è talmente profonda che non sarà un singolo giacimento di gas a risolverla. Credo che il problema più grosso sia che le fazioni libanesi non si accordano e questo ha un effetto domino in quanto non ci si accorda neppure sul prestito del Fondo monetario. E’ insomma una situazione di paralisi totale. Sulla Siria invece il problema è la guerra e le sanzioni, che colpiscono la popolazione e il terremoto. Lì il gioco è complesso, nel senso che le sanzioni al governo di Damasco colpiscono il singolo cittadino. Parlando col parroco di Aleppo dopo il terremoto questi diceva che adesso della guerra non parla più nessuno ma la guerra economica dopo quella militare è persino peggiore perché fintanto ci saranno crisi economica e sanzioni è impossibile per la Siria risollevarsi».
Putin viene descritto da diversi osservatori come un nuovo zar. Secondo lei si sente più un nuovo Romanov o un nuovo Lenin, autore di un nuovo imperialismo bolscevico? –
«Non penso proprio sia un nuovo Lenin, in quanto Putin ha proprio dichiarato nel famoso discorso con cui è iniziata la guerra in Ucraina che è stato il peggior nemico della Russia. Lenin proprio no. Sulla questione della rinascita del cosiddetto zarismo penso che non si debba confondere la strategia con la propaganda ad uso interno di Putin, il quale deve sempre rivolgersi ad una opinione pubblica, per quanto da noi se ne dia l’immagine di un despota isolato in qualche bunker del Cremlino. Putin gioca sul mix tra la vecchia gloria imperiale, nostalgici dell’Urss, simbologie che uniscono entrambe le cose: croci assieme a bandiere rosse. Questo fa parte del gioco propagandistico putiniano. Secondo me non c’è un vero e proprio punto di riferimento storico per Putin; Putin è Putin, ovvero un uomo che dopo vent’anni di governo della federazione stava per finire il suo mandato come un leader che ha perso tanto di quella che prima era la Russia. Durante l’era putiniana sono andati perduti i paesi baltici, la Nato si è ampliata, c’è stata erosione del consenso e l’Ucraina è stato l’ultimo campanello di allarme. Putin probabilmente non voleva essere né il nuovo Lenin né il nuovo zar ma si è trovato una realtà che gli stava scivolando dalle mani. L’Ucraina forse è stato un grande errore non tanto di calcolo quanto di percezione, nel senso che non sarebbe mai entrata nella Nato in quanto c’era una guerra in corso, eppure Putin ha dato per scontato che questo potesse avvenire. Senza fare paragoni col passato direi che Putin è il primo grande leader di questa Russia postsovietica dalla storia abbastanza recente, che ha scatenato questa guerra a completamento della sua strategia di potere e modo di governare la federazione».
Fatto sta che stiamo regalando la Siberia alla Cina, allontanando I russi dall’Europa e il cattolicesimo dall’ortodossia, mentre facilitiamo l’ingresso dei disvalori americani in un Paese, l’Ucraina, guidata da un pagliaccio.