La profanizzazione del pensiero e dei conseguenti modelli culturali e politici

La profanizzazione del pensiero e dei conseguenti modelli culturali e politici

di Alvise Parolini

PENSARE IN DIO: PARMENIDE E LA PURIFICAZIONE DEL PENSIERO CRISTIANO TRADIZIONALISTA

“Orbene io ti dirò, e tu ascolta accuratamente il discorso, quali sono le vie di ricerca che sole sono da pensare: l’una che “è” e che non è possibile che non sia, e questo è il sentiero della Persuasione (infatti segue la Verità); l’altra che “non è” e che è necessario che non sia, e io ti dico che questo è un sentiero del tutto inaccessibile: infatti non potresti avere cognizione di ciò che non è (poiché non è possibile), né potresti esprimerlo… Infatti lo stesso è pensare ed essere.”

Il celebre frammento dal “Poema sulla natura” di Parmenide ha segnato la storia del pensiero. Il vero filosofo non può eludere il confronto con l’eleate, perché egli è, a ben vedere, il primo pensatore che si pone il problema se la Verità vada a ricercarsi nell’immutabilità piuttosto che nella mutevolezza delle cose. Questione per altro molto attuale, visto l’acutizzarsi, nella cultura dominante, di una sorta di profananizzazione del pensiero, e dunque dei conseguenti modelli culturali e politici, ai danni di una sempre maggior esigenza di sacralizzazione che batte nei cuori di coloro che, svegli ed in attesa, parafrasando il celeberrimo motto certosino, stanno presso la croce, mentre tutto gira loro intorno. Diciamolo: oggi si respira troppo Eraclito e poco Parmenide.

Abbiamo infatti volutamente sottolineato, nel riportare la citazione del filosofo greco, innanzitutto il termine “possibile”, che credo molto significativo. Infatti la questione della “possibilità” apre, nel lessico parmenideo, alla doxa, all’opinione, in quanto essa è mutevole. L’opinione, per farci capire, è vista similmente al socratico: “Io affermo, ma, a ben vedere, so di non sapere”. È l’esposizione di un pensiero umano, di un fantasma d’idea. Ma se Socrate utilizzava tale procedere come umile strategia e come punto di partenza per “far partorire” (in modo analogico alla moglie Santippe, levatrice) la Verità dallo stesso interlocutore, ciò non accade oggi nei vari dibattiti e contese ideologiche. Oggi, più che mai, l’oblio della genuina correlazione e circolarità tra l’essere ed il pensiero, tra l’oggetto (“ciò che sta di fronte”) ed il soggetto (“ciò che è posto al di sotto”) ha portato ad una schizofrenia d’opinione paralizzante gran parte delle salutari iniziative di riscatto morale.

Platone, adoratore del “Dio ignoto”, assieme agli altri cercatori precristiani della Verità, si oppose a questo genere di contraddizioni sofistiche e relativistiche. Nel suo cuore cercò il Dio perfetto, che non inganna, che vive nell’Iperuranio, nel Mondo delle Idee, delle essenze perfette. Lo Stesso Dio che si rivelò a Mosè come “Colui che È”. Purtroppo, la narrazione mitologica tipica della Gottanschauung greca fu un freno per Platone nel chiarire la dimensione ipostatica dell’Essere e dunque tale essere rimase come “pietrificato” nell’immutabilità concettuale. Ciò va detto, perché Platone è molto più parmenideo di quello che si pensi.

La teologia cristiana, per reagire al caos prodotto dalla rivoluzione moderna, si cristallizzò proprio a mo’ di denuncia delle derive mortifere che le mode scientiste iniziavano già dal Rinascimento in poi a cavalcare. Per esempio, la tradizione platonico-aristotelica, come è stata concepita dalla filosofia gesuitica ottocentesca, dal tardo tomismo suareziano, ha storicamente oscurato la più potenzialmente fruttuosa francescano-bonaventuriana, finendo infatti per diventare erede di un movimento del pensiero inteso come scostamento totale dall’opinione del mondo per rimanere nell’Essere di Dio. Il che è farisaico e porta a raffreddare la carità: pensiamo che significato abbia avuto, tra il XVIII ed il XIX secolo, la dottrina carmelitana della contemplazione o la “devotio moderna” del grande San Francesco di Sales, nel loro travisamento fideistico di certa teologia gesuitica allora dominante.

Come trovare l’equilibrio tra il pensiero spontaneo ed il dover essere delle cose? Come postulare il senso di necessità in questo mondo mutevole? Secondo Parmenide, la questione della chréia, della necessità, riporta infatti a qualcosa di ineluttabile. Nella Gottanschauung (“percezione di Dio”) ecclesiale dei fedeli già incamminati nelle vie della purificazione spirituale, la necessità viene collocata come qualcosa di molto simile allo scacco, a volte dal sapore un po’ fatalista: “Affermo che ciò è Volontà di Dio.”. È l’esposizione, anche interiore, inespressa, ma fortemente percepita, di ciò che indiscutibilmente è, e basta. La necessità, quasi paradossalmente, invece di spingere all’agire, porta la maggior parte delle occasioni ad una placida normalizzazione dello scacco divino stesso, piuttosto che ad un entusiastico agire felicemente condizionato dalla notizia dell’ineluttabilità di un progetto che sta sopra di noi, che non riusciamo a comprendere, che è troppo alto (cfr. Salmo 139,6) ma che è adorabilmente vitale e dà senso alla nostra vita: ecco il “timor di Dio”, “principio della Sapienza”, come ci ricorda Isaia.

“Il Mondo tenda a Dio! Ma quanto soffrire per la scarsa comunicabilità di questo grido!” Questo è il sospiro del cristiano, del desideroso di resurrezione spirituale. Anche nelle considerazioni filosofiche di Parmenide, troviamo, in nuce, il problema poi esplicitato da Platone nel rapporto tra l’Uno e la Diade, ovvero tra l’unità ed il molteplice, che nelle dottrine essoteriche sembra trovare un equilibrio nel movimento dell’Eros, ma in quelle esoteriche, non scritte, tende decisamente a svalutare il mondo materiale, la hyle (la concezione del corpo come “carcere dell’anima” nel “Cratilo” platonico è rivelativa in tal senso), come poi faranno più esplicitamente Aristotele, da una parte, e gli gnostici, questa volta con malizia, dall’altra.

I Santi della Redenzione hanno vissuto più di tutti lo scacco della necessità, hanno cercato di adeguarsi ad essa, ma alla fine, con sempre maggior intensità con l’avanzare della Storia della Salvezza, hanno sofferto non poco il bipolarismo tra Dio e le creature e tra la vita mistica e la dottrina catechetica.

Nonostante ciò, è proprio grazie ai santi mistici, le vere vittime d’amore, che si è salvato il tomismo più fedele a San Tommaso, che nella Summa Theologiae afferma: “La sacra dottrina è una scienza che poggia su princìpi conosciuti alla luce di una scienza superiore, cioè della scienza di Dio e dei beati”.

Ora, è per stessa Rivelazione Divina, seppur privata, che proclamiamo che “la scienza di Dio e dei beati” è stata manifestata: la “Teologia della Divina Volontà”. Come riportava Padre Bernardino Bucci OFM, ascoltando un brano sulla Crocifissione di Gesù scritto sotto obbedienza dalla Terziaria domenicana e Serva di Dio Luisa Piccarreta (1865-1947) e revisionato da Sant’Annibale Maria di Francia, lo stesso Papa San Pio X, pochi mesi prima di morire, ebbe a esclamare: “Dài subito alle stampe questi scritti. Sono da leggere in ginocchio: è Gesù Cristo che parla!”. Di cosa parlava Gesù in questi scritti? Parlava dell’essenza di Dio, Ciò che nella Trinità Divina è sorgente, o meglio Colui: Dio Padre, La Divina Volontà in Persona, Colui che, come ricordava Papa Giovanni Paolo I, è anche “Madre”, certamente nella Persona di Maria Immacolata, Perfetta Genitrice ad immagine dell’Eterno.

Nei Libri di Cielo, ora in fase di pubblicazione nella loro edizione tipica vaticana, grazie allo storico interessamento di Cardinal Ottaviani nell’immediato preconcilio, riecheggia un tema molto caro all’ escatologia cattolica, un tema di teologia della storia del quale aveva trattato pure Gioacchino da Fiore, nonostante l’avesse purtroppo formulato secondo un’ermeneutica di rottura: il Tempo dello Spirito Santo, negli scritti della mistica pugliese chiamata “Età della Santificazione” o “Terzo Fiat”. Quale differenza rispetto al tempo del Figlio, della Redenzione, data l’impossibilità di postulare una nuova legge della Legge di Grazia? Nessuna differenza, se non lo svelamento definitivo dell’ermeneutica sulla Persona di Gesù Cristo. L’ ermeneutica perfetta, non travisabile e non manipolabile. Gesù Cristo è l’Unico che quando pensa, pensa sempre il Padre ed oggi, con gli scritti di Luisa e tutta la tradizione santa, tra Bibbia e Magistero, abbiamo l’opportunità prendere la circolarità tra Essere e Pensiero come vita, di “avere il Pensiero di Cristo”, come dice San Paolo in Prima Corinzi 2,16, in consapevole ed attenta partecipazione al Suo Divino e Vitale cogitare amoroso.

La teologia della Divina Volontà dona una luce immensa per scavare in tutte le sane dottrine di ogni tempo. Ritorniamo a Parmenide: egli identificò Essere e Pensiero. Non indagò se il Pensiero fosse trascendente o immanente, come dichiaratamente farà invece Plotino, dando inizio al trascendentalismo. Per Pensiero, il filosofo eleate intense la via per cogliere la verità dell’Essere, che a sua volta lo abita, muovendolo. Questa circolarità è forse l’aspetto più importante della dottrina parmenidea, ma al contempo il più equivocabile, poiché nel corso della storia della filosofia verrà interpretata in modo errato, come farà per esempio l’idealismo assoluto: il pensiero umano genererebbe l’Essere, piuttosto che partecipare, nello Spirito Santo, all’Atto Eterno di Dio Padre generante il Figlio, come suggerisce il Beato Antonio Rosmini nei suoi scritti di confutazione dell’hegelismo.

Il gesuitismo non è riuscito a risolvere il proprio dualismo tra la fede, studiata per l’apostolato, e le opere, soprattutto dei mistici, giudicate secondo erudizione teologica. Ecco perché, per la filosofia e teologia gesuitica, dall’intransigentismo formalistico al modernismo il passo è stato breve. L’uomo, preso in sé stesso, non riesce a sintetizzare due visioni del mondo, seppur convergenti o proseguenti. Due pretese di verità, che pur si danno la mano o si aiutano nella tensione verso il Fine.

Pensiamo al magistero petrino attuale di Francesco, al di là delle pur importantissime disquisizioni e dei dibattiti sulla Magna Quaestio. Come venire fuori da evidentissimi abusi del principio di non contraddizione sia nella dottrina catechetica che nella prassi pastorale?

“Noli foras ire”, dice Sant’Agostino: non uscire dalla verità di te stesso. In Gesù e Maria, hai la Grazia di essere il figlio dilettissimo, amato come unico, del Padre. Un’esperienza di Grazia, quella appena riportata, che infiammò lo stesso San Tommaso d’Aquino, al punto da considerare “palea” (nota a margine) tutti i suoi scritti dopo essersi consegnato a Gesù Cristo in un’estasi. San Tommaso, di fronte a Dio in Persona, percepisce interiormente come ogni parola umana sia piccola e marginale, ma comunque amata a dismisura dal Dio Infinito, dall’Ente Supremo.

Che aiuto può dare l’Ontologia all’ uomo degli anni ’30 del terzo millennio? L’Ontologia ci aiuta a studiare Dio, la Sua Logica, a conoscerLo, per possederLo già su questa Terra e poi, per l’Eternità in Cielo: come Gesù rivelò a Santa Caterina da Siena, Egli è l’Essere e noi siamo non-Essere, ovvero chiamati a permanere nella Tensione Ludica e d’Amore verso di Lui per ottenerLo abitualmente come Vita. Nessun gnostico ed impersonale “pleroma divino” può surrogare la l’unione e la fusione, pur nella distinzione essenziale, tra Dio e l’uomo.

Infatti, se l’Essere coincide con il Pensiero, che è il Padre, noi possiamo entrare in questo mistero solo per mezzo dell’iniziazione che Gesù Cristo, Sommo Esegeta del Padre, ci fa compiere. La testimonianza della mistica cattolica, nei suoi vertici, ci ha sempre consegnato, accanto alla teoria della partecipazione degli esseri finiti all’Essere infinito, l’immagine del rapporto creatura-Dio nell’ottica dell’infinità non tanto come distanza quantitativa, quanto come differenza qualitativa. Rispetto al discorso heideggeriano della differenza ontologica, è bene operare un’inversione, cioè predicare tutte le perfezioni possibili all’Essere, ma nessuna all’uomo preso in se stesso, il ni-ente per eccellenza quando non pensa con cognizione la partecipazione all’Atto Creatore di Dio.

Questa è la verità dell’uomo e solo in questo riconoscersi totalmente incapace di dare senso anche al più piccolo suo atto senza Dio, consente a Cristo, usando termini aristotelici, di prendere forma nella propria persona umana, la materia, affinché il Padre possa vedere il Suo Figlio in lui e compiere dunque, per Grazia, Atti Divini, eterni, sostanziali.

È Dio stesso che afferma che Egli è necessario che Sia e che l’uomo, per vivere nell’Essere, necessariamente non può “essere” (il vivere per mezzo nella dimensione della mera “doxa”, opinione): “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo” (Mc 10,18). L’atto di fede più puro riconosce l’esistenza di un Dio personale: “Mio Dio, Tu Sei!” quello più umile prosegue affermando: “Tu Sei Tutto ed io sono niente”. Il passo successivo e decisivo è chiamare “Colui che È” a fiatarci lo Spirito in ogni cosa che vogliamo operare ed a vivere in noi.

Concludendo, Parmenide aveva colto il fatto che l’Essere è altro dall’opinione, Egli necessariamente È, ma non aveva esplicitato la verità del pensiero dell’uomo, sempre bisognoso di appoggiarsi ad un pensiero divino. Il pensare dell’uomo non può cogliere autonomamente il pensare di Dio: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,8-9). C’è bisogno che Dio venga a pensare in noi, ma anche a parlare ed agire per mezzo della nostra umanità: allora il più essenziale compito dell’uomo consisterà nell’alimentare il desiderio di una continua comunione con Lui, con l’Onnipotente.

Buona Quaresima, Filoteo

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