La contraddittorietà delle varie letture della Torah è uno dei tratti distintivi del diritto ebraico
di Pietro Madeo
–
LA TRADIZIONE COME LIMITE DI INTERPRETAZIONE
L’interpretazione della Legge è sempre libera, e la molteplicità e contraddittorietà delle varie letture della Torah è uno dei tratti distintivi del diritto ebraico, caratterizzato da grande e continua vivacità e dialettica interna.
Tale libertà interpretativa è emblematicamente espressa dal racconto della rivelazione sinaitica, dove si narra che il Signore, dopo avere consegnato a Mosè, una prima volta, le Tavole della Legge direttamente incise dalla mano divina, e dopo che esse furono spezzate da Mosè, adirato per la condotta idolatra del popolo (Es 32,19), le consegna, la seconda volta, senza scrittura, chiedendo che a scriverne il contenuto sia la mano del profeta (Es 34,27). O, ancora, da un famoso passo talmudico (T.B., Babà Mezià 59a-59b) che racconta che, in una disputa dottrinale tra Rabbi Eliezer e Rabbi Jehoshua, il primo chiamò le stesse forze del cielo a testimoniare che era lui a essere nel giusto; una voce celeste gli diede effettivamente ragione, ma ciò non bastò a far desistere Rabbi Jehoshua, il quale ricordò il verso del Deuteronomio (30,12) che recita lo bahamaim hi, “(la Torah) non è (piú) in cielo”, nel senso che, ormai, la Torah è stata data agli uomini, e spetta a loro, e solo a loro, intenderne il senso.
Se l’interpretazione è libera, i rabbini si sono a lungo impegnati a studiare i diversi principi secondo i quali essa dovrebbe svilupparsi, indicando, in particolare, quattro distinti livelli ermeneutici: peshat (senso letterale), rèmez (senso allegorico), midràsh (senso nascosto, da cercare), sod (senso segreto).
L’accumulazione, nei secoli, di un articolato patrimonio sapienziale sul senso dei vari precetti impone, però, che si tenga conto di esso ai fini di una corretta osservanza della norma. Non è considerato lecito, a un lettore contemporaneo, interpretare il senso di un precetto prescindendo da una consolidata tradizione rabbinica. Si può dire, pertanto, che la liberta interpretativa è tanto maggiore quanto piú ci sia silenzio o molteplicità di opinioni da parte della letteratura rabbinica, mentre, in caso contrario, la tradizione funge da obiettivo limite e orientamento. Si tratta, perciò, di un limite imposto dalla tradizione e non dalla Legge.
Da quanto detto però, va evidenziate che se da un lato il senso della scrittura è molteplice (quantunque condizionato dalla tradizione), dall’altro l’immutabilità del carattere è diventato – soprattutto dopo la caduta del Secondo Tempio e la chiusura del Canone – definitivo. La libera interpretazione trova quindi il proprio limite nell’osservanza della lettera, che non può essere violata.
Per fare un esempio, uno dei versetti più importanti, ai fini della kasherút, ossia le regole di purità alimentare, è quello (ripetuto per ben tre volte: Es 23,19; 34,26; Dt 14,21) che proibisce di mangiare il capretto “cotto nel latte di sua madre”. Tale divieto è stato fatto oggetto di un’interpretazione fortemente estensiva, che ha portato ad allargarne la portata fino a una assoluta incompatibilità tra l’ingestione di prodotti derivati dalla carne e dal latte, regola ancora oggi largamente seguita, in tutto il mondo, dagli ebrei osservanti, ma con significative varianti: alcuni, per esempio, ritengono che il divieto sia da applicarsi esclusivamente nell’ambito dello stesso pasto, altri fintanto che non ci si sia lavati la bocca, o fino a un’ora dall’ingestione, o tre ore ecc.
La Torah non lo specifica, e le differenti usanze tra le diverse Comunità dipendono esclusivamente dalla tradizione. Tra l’altro, la lettera del precetto non pare imporre direttamente tale incompatibilità, in quanto parla esclusivamente del capretto “cotto nel latte di sua madre”, per cui potrebbe anche proporsi una lettura restrittiva, volta ad ammettere di mangiare insieme carne e derivati (di capretto o di altre specie animali) e latte e derivati, purché non si tratti di carne di capretto e questa carne non sia stata cotta nel latte della stessa capra che l’ha generato. Solo quest’ultima scelta sarebbe inammissibile, in quanto contro la lettera della Torah, mentre le altre sarebbero unicamente contro un’umana tradizione, e quindi lecite, ancorché minoritarie o isolate.
Ai tempi del giudaismo-cristianesimo, quindi, la legge mosaica rappresentava la fons fontis cui i fedeli e i pagani convertiti improntavano non solo il loro credo religioso ma anche la Legge, individuata nella Torah, da ossequiare.