Il diritto ebraico come diritto positivo ancora vigente

Il diritto ebraico come diritto positivo ancora vigente

di Pietro Madeo

NEL PANORAMA DEI DIRITTI ANTICHI, IL DIRITTO EBRAICO OCCUPA UNA POSIZIONE DECISAMENTE PECULIARE

Nel panorama dei diritti antichi, il diritto ebraico occupa una posizione decisamente peculiare. Esso, innanzitutto, può ormai dirsi definitivamente affrancato dalla presupposta appartenenza alla cosiddetta famiglia dei “diritti orientali” (per non dire della leggendaria comunità dei diritti “semiti”), fra i cui componenti, come è ormai evidente, corre un grado di affinità quanto mai vago e opinabile.

Demolita la credenza in suggestive e fantasiose parentele e radici comuni, e al di là della valutazione del patrimonio di fonti documentali disponibili – che vede il materiale giudaico, prodotto nell’arco di millenni, in quantità largamente superiore rispetto a quello degli antichi documenti assiri, sumeri, ittiti o babilonesi a nostra disposizione – è evidente che il diritto ebraico appare un unicum, tra tutti i diritti antichi (e moderni), per il semplice, sorprendente dato di fatto di essere, in assoluto, l’unico diritto dell’antichità a potersi dire ancora, a tutti gli effetti, un diritto vigente, positivo: studiato e applicato in quanto tale nelle yeshivòt e nei batèdin, nelle Accademie e nei tribunali rabbinici di Tel Aviv come di Mosca, di Brooklyn come di Buenos Aires o di Roma, rispettato come “ortoprassia” cogente, condotta di vita quotidiana, da centinaia di migliaia di ebrei osservanti, in Terra di Israele e in tutte le nazioni della diaspora.

La Torah non comprende solo la halachah, ma anche – e in misura quantitativamente prevalente – la haggadah, ossia quella multiforme parte di scrittura che non si presenta come normativa. Ma la Torah si considera un testo unitario, che va interpretato nel suo insieme, e nel quale scorre un senso circolare, continuo e ininterrotto, senza che alcuna cesura separi e distingua le parti narrative da quelle normative; e, ai fini dell’applicazione pratica del diritto – e della concreta realizzazione degli ideali di giustizia (tzèdek) a cui il diritto deve essere funzionale – i riferimenti alla haggadah, come criterio di ispirazione per un retto giudizio, sono continui ed essenziali, a ogni livello, dal Talmud ai commenti medioevali di Rashi e Maimonide, dai responsi dei “decisori” fino alle sentenze contemporanee dei Tribunali rabbinici.

Ci si potrebbe quindi porre la domanda se la halachah possa essere intesa come una forma di “limite” nella interpretazione della haggadah, nel senso che impedirebbe che dalla lettura del racconto biblico possa essere distillato un significato che contraddica il dettato della Legge. Se, per esempio, dal racconto della creazione si ricava una pari dignità di uomo e donna, tale insegnamento si arresterebbe di fronte al precetto divino che impone di escludere le figlie femmine dalla successione ereditaria. Ma, in realtà non può dirsi che ci sia, tra halachah e haggadah, un rapporto di tipo gerarchico, risultando entrambe essenziali ai fini della determinazione della condotta umana.

E’ vero che il senso della haggadah trova il suo limite nell’osservanza della halachah, ma anche quest’ultima trova il proprio limite nel rispetto dell’intera Torah, il cui testo – articolato nelle varie parashòt, lette e commentate settimanalmente, ed al quale non può essere sottratto un solo carattere – rappresenta un tutt’uno, nel quale, come “non c’è un prima e un dopo” non c’è neanche una parte sovraordinata all’altra.

 

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