Gli italiani dimenticati di Odessa e Crimea
di Pietro Licciardi
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LA STORIA POCO CONOSCIUTA DEI NOSTRI CONNAZIONALI EMIGRATI SULLE SPONDE DEL MAR NERO FIN DAL XVIII SECOLO
Un filo unisce l’Italia alla Crimea e alla città di Odessa. In pochi infatti sanno che sulle sponde del Mar Nero dalla fine del XVIII secolo vive una comunità di connazionali, pressoché dimenticati dall’Italia. La storia inizia nel XIII secolo, quando i genovesi crearono delle piccole colonie oltre il Bosforo che prosperarono fino al 1475, quando gli ottomani strapparono Costantinopoli all’impero di Bisanzio interrompendo le rotte verso Genova e Venezia.
Quando i russi nel 1792 ripresero la costa agli ottomani, là dove sarebbe sorta la città e il porto di Odessa non c’era nulla, solo un vecchio forte. Tuttavia avendo finalmente trovato finalmente uno sbocco sul Mar Nero i russi decisero di trasformare il forte in una base commerciale e fu un certo Giuseppe Deribas (1749-1800), nato a Napoli e da lì partito alla volta delle steppe dell’Est in cerca di fortuna, a convincere l’imperatrice Caterina a fondare una città proprio in quel punto. Deribas suggerì anche il nome: Odisseo, il nome greco di Ulisse che avrebbe navigato per lungo tempo proprio in Mar Nero; ma la sovrana preferiva un nome femminile, da qui la scelta di chiamare Odessa la nuova città portuale, la quale doveva ovviamente anche essere popolata. Per farlo non si ricorse a persone qualsiasi, bensì ad architetti, ingegneri, maestri, ovvero gente istruita e capace di far prosperare il futuro insediamento e Deribas pensò di andarle a cercare nel luogo che conosceva meglio: l’Italia. Iniziò così una forte immigrazione italiana.
Nel 1870 i connazionali erano arrivati ad essere ottomila e per molto tempo le insegne, i cartelli e le indicazioni in città vennero scritte in italiano e russo. La comunità italiana prosperò anche grazie ai commerci con l’Italia ripresi dopo la lunga pausa ottomana e con le merci arrivò la cultura; la musica in particolare. Il Teatro dell’Opera fu finanziato proprio dai commercianti italiani e ancora oggi per tradizione in cartellone vi sono molte opere italiane
Nel 1800 Deribas morì ma l’influenza italiana non cessò. Il suo successore, duca di Richelieu, lontano discendente del famoso cardinale, volle ampliare e abbellire Odessa e come fece Pietro il Grande quando volle costruire San Pietroburgo, si rivolse ai migliori architetti dell’epoca che ovviamente erano italiani i quali riempirono la città portuale di piccoli a grandi capolavori ispirati alle bellezze d’Italia, tra cui la scalinata diventata famosa nel film di Sergei Michajlovic Eisenstein La corazzata Potëmkin.
Col susseguirsi delle generazioni la comunità italiana iniziò a perdere la propria identità integrandosi sempre di più con la popolazione russa e le altre etnie presenti nella città, crocevia di commerci e culture, imparentandosi anche con ebrei, qui giunti numerosi per sfuggire ai pogrom. Il legame tra Odessa e l’Italia rimase comunque sempre molto forte. Garibaldi ad esempio da giovane la visitò più volte quando era imbarcato come marinaio All’inizio del XX secolo fu ancora un imprenditore siciliano che si era trasferito a Odessa, Arturo Anatra, a portare in Russia i disegni dei primi aerei e a creare il primo aeroclub russo. Purtroppo allo scoppio della Rivoluzione bolscevica Anatra, come molti altri italiani di Odessa fu costretto a fuggire, anche perché in parecchi scelsero di schierarsi con i controrivoluzionari. I contatti però non si interruppero del tutto. Italo Balbo, in una delle sue prime crociere aeree decise nel 1928 di portare i suoi idrovolanti proprio a Odessa.
In Crimea i primi italiani arrivarono tra il 1830 e il 1870. Si trattava in maggioranza di contadini pugliesi, poiché le terre di Crimea passavano per fertili ed erano quasi incolte ma arrivò anche gente di mare: pescatori, addetti ai cantieri navali, marinai, piloti, particolarmente abili a guidare le navi nello stretto tra Mar Morto e Mar d’Azov, dove sorge il porto di Kerc. Fu questa la città prediletta dagli italiani, che nel 1840 vi costruirono anche una chiesa. Nel 1855 per un periodo soggiornarono in Crimea 15 mila bersaglieri inviati nel 1855 da Cavour, strano corpo di spedizione mandato fino lì più che altro per acquistare benemerenze «risorgimentali» presso gli alleati inglesi e francesi.
Anche per gli Italiani di Crimea la Rivoluzione bolscevica ebbe risvolti drammatici. All’epoca i nostri connazionali costituivano circa il 2% della composita popolazione della penisola e a metà degli anni Venti ricevettero la visita di vari connazionali comunisti fuoriusciti, tra i quali l’ex deputato Anselmo Marabini, il cognato di Togliatti Paolo Robotti e Giuliano Pajetta, fratello del più noto Giancarlo. Costoro cominciano a far chiudere la chiesa di Kerc trasformandola in palestra e rispedendo in patria il parroco, poi fondarono una cellula del Pci e cercarono di convincere i piccoli proprietari a riunirsi in un kolkhoz «italiano» intitolato a Sacco e Vanzetti. L’idea della collettivizzazione ovviamente non piacque affatto perciò ebbe inizio la repressione, con arresti ed epurazioni, per convincere i più riottosi. Qualcuno fiutato il pericolo riuscì a tornare a casa mentre su tutti gli altri tra il 1933 e il 1937 si scatenano le purghe staliniane.
Tra gli italiani di Crimea vi furono molti arresti, fucilazioni, deportazioni nei gulag siberiani da cui solo pochissimi poterono tornare.
Un’altra ondata di persecuzioni iniziò nei primi mesi del 1942, poco dopo la fine dell’occupazione tedesca di Kerc. I sovietici cominciano le deportazioni degli italiani, usando gli elenchi etnici compilati dai nazisti che, pare, avevano scambiato i discendenti dei nostri connazionali per ebrei. I fermati furono inviati via nave e in treno in varie località del Kazakistan, un viaggio di quasi due mesi durante il quale in 500, la maggior parte bambini e vecchi, sono morti per la fame e il freddo. La loro odissea è raccontata da Giulia Giacchetti Boico e Giulio Vignoli ne La tragedia sconosciuta degli italiani di Crimea, un saggio stampato in Ucraina nel 2007.
Un reduce dalla colonia italiana in Crimea riuscì a fuggire fortunosamente da bambino con la madre, aggregandosi ai resti dell’Armir nel 1943 e l’Italia, che pure all’epoca passava i mesi più duri della sua guerra, gli sembrò un paradiso in confronto alla Crimea: non doveva mangiare solo grano bruciato e l’Opera Balilla gli diede persino un paio di scarpe, il primo della sua vita. Solo alla fine degli anni Cinquanta, dopo la morte di Stalin, alcuni italiani riuscirono a tornare a Kerc, un decimo dei deportati in tutto; nessuno riebbe le sue proprietà.
Oggi in Crimea ci sarebbero ancora i discendenti di italiani, circa 340 mentre altrettanti sono rimasti in Kazakistan. Nel 1992 hanno costituito un’associazione e stanno lentamente restaurando la chiesa, che è l’unica cattolica della città. Vivono molto poveramente e 47 di essi già negli anni Novanta hanno chiesto di riottenere la nostra cittadinanza, ma solo due ci sono riusciti perché i documenti che attestano le loro origini italiane sono andati distrutti o sono stati confiscati a suo tempo dalle autorità sovietiche come «prove» di spionaggio.
D’altra parte la nostra diplomazia ha sempre mostrato scarsa solerzia nei loro confronti. Si aprono le braccia e i cordoni della borsa ai “lontani” ma si ignorano i nostri fratelli. Emblematico il caso citato dagli autori del libro, di Eugenia Bassi: figlia di italiani di Kerc, che è tornata in Sardegna a fare la badante, ma come un’ucraina qualsiasi.
Per finire una curiosità: la celeberrima O sole mio, simbolo della canzone partenopea non fu scritta da Leonardo di Capua ai piedi del Vesuvio ma proprio a Odessa e, secondo molti, il tramonto descritto in maniera tanto struggente non sarebbe quello del Golfo di Napoli ma del mare della città ucraina.