Diffidate dai messaggi omologanti e superficiali: ecco l’identità culturale siciliana
di Francesco Bellanti
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UN CONTRIBUTO PER LA CONOSCENZA DELLA SICILIA
La Sicilia ha un eccesso di identità, per dirla con lo scrittore Gesualdo Bufalino, è un’isola “plurale”. Una Sicilia plurale dove tutto è cangiante, contraddittorio. E allora abbiamo la Sicilia babba e la Sicilia sperta, dice Bufalino, o la Sicilia pigra e quella frenetica. Questo eccesso di identità deriva dal fatto che la Sicilia ha fatto da cerniera tra l’Oriente e l’Occidente, tra l’Africa e l’Europa. Ecco quindi l’ambiguità psicologica e morale del siciliano, il silenzio e il rumore, il lutto e la luce, la dimensione teatrale del vivere, l’esuberante ospitalità, il pessimismo, il fasto funebre dei riti e delle parole, la poesia e la filosofia, il mito e il sofisma, e tutta questa confusione si trasforma nella percezione deviata della famiglia, in una devastante solitudine.
Tante, dunque, sono le Sicilie che dobbiamo definire, prima di proiettarne una (o tutte?), vera, e soprattutto utile, in questo millennio.
Quale Sicilia? Quella di Francesco Crispi o quella di Giovanni Gentile? Certamente non quella mafiosa ma quella di Mattarella, Rizzotto, La Torre.
Quale Sicilia? Quella povera e miserabile, arretrata, della visione conservatrice (anche reazionaria) di Giovanni Verga, o quella decadente, intimistica, del disfacimento di una classe sociale che decade verso il nulla, insomma, quella gattopardesca del sonno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa? La Sicilia del pessimismo storico di Federico De Roberto? La Sicilia pigra e indolente, sprofondata nel silenzio dei millenni, o quella di una società corrotta e mafiosa, omertosa, di Leonardo Sciascia? Quella poliziesco-metafisica di Andrea Camilleri, la Sicilia mitica di Giuseppe Bonaviri, la Sicilia del rancore proletario di Ignazio Buttitta, la Sicilia sensuale e lussuriosa di Vitaliano Brancati, la Sicilia del viaggio e del ritorno in un tempo arcaico di Elio Vittorini, sì, una Sicilia mitica, fiabesca e simbolica, il viaggio della presa di coscienza? Oppure la Sicilia impregnata di sofferenza e di morte, della scoperta lancinante e violenta del passato cantata in moduli poetici da Vincenzo Consolo? No, forse la vera Sicilia è quella universale e senza tempo della dissoluzione dell’io e della solitudine dell’uomo moderno di Luigi Pirandello, del genio immenso di Pirandello. Forse.
Quante Sicilie! Certo non le Sicilie imperfette o ordinarie, parziali, caotiche, a mio modo di vedere, di scrittori ancora viventi che non lasciano trasparire un’idea precisa della Sicilia, e che io considero al momento epigoni, imitatori, indecifrabili, quasi tutti sopravvalutati, sfruttati dalle case editrici, preda – queste – di mode passeggere e del consumismo editoriale superficiale. Meglio allora la Sicilia esuberante ed effervescente, stravagante e metafisica, pazzesca, inverosimile e al contempo geniale (e proprio per questo, probabilmente, spesso incompresa dalla critica o rifiutata dalla editoria cosiddetta ufficiale), di scrittori come Ottavio Cappellani, anche Pietrangelo Buttafuoco.
Qual è, allora, la vera Sicilia? Quella del paesaggio infernale descritta nel Gattopardo, del voluttuoso vaneggiare, o il paradiso sognato dai Greci, dai Romani, dai Germani, dagli Arabi, da tutti i popoli del mondo, il giardino d’Europa? È il profumo delle arance, il profumo di tutti i profumi, del sole, del mare, della terra e del fuoco, il profumo delle viti in fiore, degli ulivi contorti maestosi, dei cedri e dei limoni, il profumo delle albicocche e delle pesche mature, della zàgara, delle palme e dei fichidindia, delle rose e dei giardini? O è, la Sicilia, la stordente bellezza di un paesaggio, di uno spazio e di un tempo in cui tutto può accadere?
Qual è la vera Sicilia, insomma? È, la vera Sicilia, la terra dei grandi imperatori e delle civiltà superbe, terra di santi e di poeti, di scienziati eccelsi e di filosofi, terra di scrittori e di legislatori, di Archimede, Empedocle, Gorgia, Majorana, Antonello da Messina, Scarlatti, Bellini, Ruggero II, Federico II, della Scuola poetica siciliana? Chissà, questa è forse la vera Sicilia, incrocio di popoli fecondi, di culture profonde, terra di tolleranza. La Sicilia amata da Dante (E la bella Trinacria, che caliga/tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo/che riceve da Euro maggior briga,/non per Tifeo ma per nascente solfo,/attesi avrebbe li suoi regi ancora,/nati per me di Carlo e di Ridolfo,/se mala segnoria, che sempre accora/li popoli suggetti, non avesse/mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”. Divina Commedia, Paradiso, Canto VIII, vv.67-75), Pascoli, Carducci, la Sicilia misteriosa e arcana, dai mille volti senza tempo.
La Sicilia degli stranieri. Sì, la Sicilia di Idrisi, Stendhal, Tucidide, Plutarco. Forse è questa la vera Sicilia. La Sicilia di Guy de Maupassant (La Sicilia è il paese delle arance, del suolo fiorito la cui aria, in primavera, è tutto un profumo… Ma quel che ne fa una terra necessaria a vedersi e unica al mondo è il fatto che da un’estremità all’altra, essa si può definire uno strano e divino museo di architettura, Viaggio in Sicilia, 1885); la Sicilia di un altro grande, il più grande dei tedeschi, Wolfgang Goethe (L’Italia senza la Sicilia non lascia immaginazione alcuna nello spirito: soltanto qui è la chiave di tutto. La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra… chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita, Viaggio in Italia, 1817). Ecco, quale Sicilia dobbiamo consegnare alla posterità? Quella che Bufalino definisce “ambiguità psicologica e morale” del siciliano, la luce e il buio, o quell’altra fantastica di Sciascia (L’intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione?), come a dire che egli ne aveva tante di Sicilie.
Il posto più stupendo del mondo, come lo definì ancora Goethe, con il promontorio più bello del mondo, il paradiso sulla terra di Federico II, che proprio per questo non invidiava a Dio il suo paradiso, la terra di bellezze superba di Lucrezio, la Sicilia antica madre di Giosuè Carducci, il massimo e splendido soggiorno di Idrisi, la terra amata da Cicerone, il museo del Mediterraneo, il capolavoro della natura, centro d’un mondo, terra illustre, del diplomatico francese Hanotoux, la nuvola rosa sorta dal mare, il luogo dove giunge chi sogna di Pascoli, la verde isola Trinacria, dove pasce il gregge del sole di Omero, la più bella tra le città dei mortali di Pindaro, la terra con la poesia più alta e il volgare superiore a tutti gli altri di Dante, la terra degli dèi e degli eroi di Tocqueville, la divina Sicilia di De Amicis, il più fulgido esempio del mondo mediterraneo di Peyrefitte, ecco, questa terra straordinaria, con una capitale greca per le sue origini, romana per le guerre contro Cartagine, araba per le sue cupole, francese per la dinastia degli Altavilla, tedesca per le tombe degli Hohenstaufen, spagnola per Carlo V, inglese per Nelson e Lady Hamilton – è sempre Peyrefitte che parla – vive ancora nella mente dei suoi abitanti in condizioni di subalternità psicologica e culturale.
La Sicilia del cielo azzurro solcato da nubi passeggere come se fossero squadre di cavalli ardimentosi e docili del capitano Alexander Hardcastle, archeologo mecenate che giunse a Girgenti dopo la Prima guerra mondiale ed ebbe il merito di avere fatto diventare la Valle dei Templi uno dei più grandi complessi archeologici del mondo e di averla inserita nel circuito del turismo internazionale, lui, uno straniero, promotore di una rinascita culturale che deve trovare ancora il suo compimento. La Sicilia di Friedrich Nietzsche, per il quale il viaggio in Sicilia fu il viaggio della follia all’origine del mondo, il viaggio che – congiungendo sogno, follia e vita – gli ispirò Così parlò Zarathustra. La Sicilia di Wagner – qui esistono solo estate e primavera, disse – che tanto fu affascinato dalla sua bellezza, dal suo clima e dalla quiete che vi si respirava che legò per sempre il suo destino ad essa, concedendo l’amata figlia Blandine alla mano del conte Biagio Gravina di Ramacca, figlio del principe Gravina di Ramacca.