La vera libertà, anche nell’emergenza sanitaria, è la legge della Carità

La vera libertà, anche nell’emergenza sanitaria, è la legge della Carità

OCCORRE VIVERE QUESTA CRISI GLOBALE SANTIFICANDO IL MOMENTO PRESENTE

Editoriale di Matteo Castagna

Nel cercare di evitare due opposti fanatismi, quello vaccinista e quello antivaccinista, l’equilibrio sta nel saper utilizzare intelletto e volontà in ottica critica, così da poter fare una libera scelta.

Sarebbe davvero grave che questo semplice, quanto logico principio naturale, fosse violato da altri tipi di logiche (o, meglio, interessi) che non hanno nulla a che vedere con la ragione, con la scienza e con la verità.

Consigliando di vivere questa crisi globale santificando il momento presente, così come mirabilmente indicato dal canonico Pierre Feige (1857-1947), ispirato a San Francesco di Sales: “pensiamo solamente a far bene oggi; quando l’indomani sarà arrivato si chiamerà oggi ed allora ci penseremo”, vogliamo proprio guardare ai fatti in tale ottica, continuando a rigettare ogni ossessione compulsiva (che è un male in ogni ambito) per continuare a guardare al fine ultimo dell’uomo.

E’ Sant’Ignazio di Loyola che ci viene in aiuto, in “Principio e fondamento” della prima settimana degli Esercizi Spirituali più raccomandati dalla Chiesa: “L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; (…) perciò è necessario renderci indifferenti verso tutte le realtà create (in tutto quello che è lasciato alla scelta del nostro libero arbitrio e non gli è proibito), in modo che non desideriamo da parte nostra la salute piuttosto che la malattia, la ricchezza piuttosto che la povertà, l’onore piuttosto che il disonore, una vita lunga piuttosto che una vita breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo soltanto quello che ci può condurre meglio al fine per cui siamo creati”.

Osservare i 10 Comandamenti è un compito non facile, ma è il modus vivendi attraverso il quale ciascuno di noi attende il Giudizio particolare, sperando in un’ Eternità nella visione beatifica di Dio.

Nel corso del suo ultimo anno di vita, San Tommaso d’Aquino volle tenere delle omelie ai suoi studenti ed al popolo napoletano dal pulpito di San Domenico Maggiore. Si tratta di 58 prediche, tra cui troviamo un tesoro spirituale quale un Commento al Decalogo, che è stato pronunciato perché mantenga la sua validità ed autorevolezza lungo tutti i secoli, quindi sempre attuale:
“Per conseguire la salvezza, l’uomo deve conoscere alcune nozioni di base: cosa credere, cosa desiderare e infine che cosa fare. Alla prima esigenza ha risposto il Simbolo, che raccoglie gli articoli della rivelazione; alla seconda, la preghiera del «Padre nostro»; e alla terza, la legge (di Dio). Partendo da questa indagine circa le cose che bisogna praticare (in ordine alla salvezza), ci troviamo di fronte a diversi tipi di legge.

Innanzitutto c’è la legge naturale, che altro non è se non il lume della ragione di cui ci ha dotato il Creatore, e in base al quale possiamo conoscere ciò che va fatto e ciò che invece dobbiamo evitare. Questa luce orientativa fu inserita nella natura umana all’atto della creazione; e tuttavia molti credono d’essere scusati circa l’inosservanza della legge appellandosi all’ignoranza della medesima. Il profeta (Davide), dopo aver riportato ciò che essi dicono a propria discolpa («Chi ci mostrerà il bene che dobbiamo fare?» (Sal 4, 6), risponde loro dicendo: «Su di noi è impressa, o Signore, la luce della tua bontà» (Sal 4, 7): il lume cioè della retta ragione. Nessuno infatti ignora che non è bene fare ad altri quanto noi stessi non vorremmo subire, e norme fondamentali del genere.

Ricorderemo in proposito che egli (l’uomo) può essere distolto dal malaffare, e indotto al bene, attraverso due metodi: o quello del timore, o quello dell’amore.

Difatti il deterrente più efficace per strappare un individuo dal peccato è la paura dell’inferno [che accoglierebbe il peccatore] dopo l’estremo giudizio. «Principio di saggezza è il timor di Dio» (Sir I, 16) giacché scaccia la tentazione del peccare (cf. Sir I, 27). Sebbene non possa considerarsi senz’altro un giusto colui che evita di incorrere in colpa per il solo timore dei castighi, tuttavia la sua riabilitazione prende di qui l’avvio. (…)

Vi è però un’altra possibilità d’intervento: quella da parte dell’amore. Tale è la legge di Cristo: la legge della carità evangelica.

Varie le differenze tra legge dell’amore e legge del timore. Questa rende servile l’animo di chi la osserva, mentre la prima crea degli uomini liberi (151). Chi si comporta bene soltanto per paura del castigo, si comporta da servo; chi si ispira all’amore fa invece come i figli, come l’uomo che sia padrone delle proprie azioni (152). «Dove è lo spirito del Signore, ivi c’è libertà» (2 Cor 3, 17).

(…) Le scelte umane, per esser chiamate davvero buone, devono concordare con la regola della carità.

(…) La carità costituisce un valido presidio di fronte alle avversità: chi la possiede non resterà danneggiato ma, all’opposto, trarrà profitto dalle stesse sventure. Ce lo ricorda san Paolo: «Ogni cosa concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8, 28); anzi – a chi ama davvero – perfino le cose avverse e difficili appaiono quasi soavi, ed è un’esperienza che ognuno può far da sé (159).

(La carità) conduce alla felicità, essendo l’eterna beatitudine una promessa serbata per chi avrà vissuto nella pratica della carità. Tutto il resto non conta, se manca l’amore soprannaturale (160). Ormai prossimo al martirio, l’apostolo Paolo confidava di poter ricevere la corona che il Signore, giudice giusto, darà nell’ultimo giorno «a tutti quelli che avranno vissuto con amore l’attesa della sua venuta» (2 Tm 4, 8).

La beatitudine sarà concessa in grado maggiore o minore, in rapporto al grado di carità e non alla perfezione con cui poté essere praticata un’altra virtù. Tanto è vero che si potrebbero citare non poche persone che condussero una vita di maggior astinenza rispetto agli apostoli, eppure questi sorpassano chiunque altro nel grado di beatitudine avendo superato ciascuno di noi per l’ardore della carità, essi che – come Paolo scrisse ai romani – godettero per primi dei doni dello Spirito (161).

(…) La carità comunica all’uomo una superiore dignità. Tutte le creature, certo, rendono testimonianza alla maestà del Creatore come le opere artificiali sono soggette al loro artefice. Con questa differenza però, che la carità rende l’uomo, da servo che era, libero e amico di Dio, sulla parola del Signore: «Non vi chiamo più servi ma amici» (Gv 15, 15). (…) Quantunque (la carità) sia un dono divino, per ottenere la carità occorrono da parte nostra le debite disposizioni. (…)

Infine, ad aumentare la carità contribuisce la fortezza di fronte alle avversità. È noto a chiunque infatti che, quando accettiamo di portare il peso della tribolazione per amore di qualcuno, quel sentimento che ci ha sostenuti viene a esserne rinforzato.

Le «grandi acque» di cui parla il Cantico dei Cantici – ossia le più varie tribolazioni – «non poterono spegnere l’amore, né i numi sommergerlo» (Ct 8, 7). Per questo, i santi che sopportano le prove della vita per amore di Dio, ne escono rinvigoriti, con una carità più accesa, un po’ come l’artista che predilige l’opera su cui maggiormente si è affaticato. In modo analogo, quanto più han da soffrire per mantenersi fedeli a Dio nelle angustie, di tanto i giusti si elevano nella scala della carità. Può applicarsi loro l’espressione biblica: «Le acque crebbero e sollevarono l’arca, la quale si alzò al di sopra della terra; ingrossarono e crebbero ancora… e l’arca galleggiava alla superficie. Andarono ancor più aumentando… di modo che tutte le montagne che sono sotto il cielo furono coperte… Non scampò che Noè con quelli che erano insieme a lui nell’arca» (Gn 7, 17). Ebbene, «l’arca» – si intenda la Chiesa o l’anima del giusto – rimarrà a galla sotto l’imperversare delle prove, grazie proprio alla carità”.

Subscribe
Notificami
0 Commenti
Oldest
Newest
Inline Feedbacks
View all comments