Quei bimbi educati al sacrificio della vita in nome di Allah…
IMPIEGO DI MINORI IN CONFLITTI ARMATI: UN FENOMENO DIMENTICATO DAI PIÙ! OGGI ALL’IDEOLOGIA SI È SOSTITUITA LA RELIGIONE, SOPRATTUTTO NEI PAESI DOVE L’ISLAM RADICALE HA AVUTO MAGGIORE PRESA, IN AFRICA E NEL MEDIO ORIENTE
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Di Andrea Rossi
La giornalista africana Alicia Lopez Araújo, in una riflessione pubblicata lo scorso 2 aprile su “L’Osservatore Romano”, ha esposto un dato impressionante: secondo l’ONU sono almeno 18 i Paesi nei quali, dal 2016 ad oggi, è stato documentato l’impiego di minori in conflitti armati. Fra questi, alcuni sono devastati da guerre civili ormai pluriennali e in apparenza interminabili: Afghanistan, Camerun, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Iraq, Mali, Myanmar, Nigeria, Libia, Filippine, India, Pakistan, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Siria e Yemen.
Dal 2012 al 2020 i dati sui “bambini soldati” sono in aumento costante e continuo, specie nelle nazioni più povere fra quelle sopra elencate, anche se la tradizione di arruolare adolescenti in formazioni militari o paramilitari è dura a morire in Paesi più sviluppati. Il fenomeno, oggi dimenticato, ha fatto parte durante il XX secolo anche delle nostre tradizioni militari.
In un volume del 2005 (Il popolo bambino, Einaudi, Torino) lo storico Antonio Gibelli metteva in luce come dalla retorica dei “ragazzi del ‘99”, la generazione dei diciottenni (e spesso anche di età inferiore) mandati a morire per difendere il Piave e poi protagonisti dell’offensiva di Vittorio Veneto, avesse offerto al regime fascista lo spunto per un modello educativo in cui fin dall’età più tenera, tutti i giovani dovevano avere un inquadramento militare e bellicistico.
Generazioni su generazioni furono educate al culto delle armi e della guerra e, in diversi, con il cieco e diffusissimo slogan “credere, obbedire, combattere” finirono nel tritacarne della guerra civile, come i “ragazzini di Salò”, i quali si macchiarono di atrocità terrificanti, non diverse da quelle dei loro poco più che coetanei partigiani, anch’essi provenienti dal quel brodo di coltura fatto di culto della violenza e della sopraffazione.
Per il nostro Paese, quella fu una dolorosa “vaccinazione”, tanto che la ripulsa per l’inquadramento militaresco dei giovani fu diffusa e crescente dagli anni 1960 in avanti, e finì per cambiare, specie dopo il Concilio Vaticano II, in modo decisivo l’approccio del nostro Paese (come quello delle altre nazioni europee) verso i miti deleteri del sangue e della “bella morte”.
Così purtroppo non è in molta parte del mondo, e i meccanismi tramite i quali un numero impressionante di “soldati ragazzini” finiscono con un fucile mitragliatore in mano, appaiono non diversi da quelli che abbiamo descritto poco sopra, con una sola, significativa variante: all’ideologia si è sostituita la religione, soprattutto nei paesi dove l’Islam radicale ha avuto maggiore presa, in Africa e nel Medio Oriente.
L’educazione al sacrificio-omicidio in nome di Allah, l’onore della morte in combattimento o in un consapevole suicidio con una cintura esplosiva o in un camion bomba, è parte integrante dell’abc con cui vengono indottrinati, fin dalla più tenera età, decine di migliaia di bambini. Sottrarre queste generazioni ad un destino atroce e sanguinoso è, anche secondo l’ONU, impresa improba. I pochi che tramite l’azione delle associazioni umanitarie riescono a essere sottratti a morte certa e violenta, faticano a ritrovare un rientro nella vita civile.
Come si legge nell’analisi di Alicia Lopez, «anche dopo aver deposto le armi molti sono attanagliati da incubi, attacchi di panico e insonnia. Riconquistare l’infanzia perduta e ritornare alla normalità è difficilissimo, soprattutto quando i conflitti durano a lungo».
Purtroppo, mentre nel nostro continente il “vaccino” è stato la fine del conflitto mondiale e successivamente la fine delle ideologie genocide, per tanti Paesi meno fortunati, questo tipo di orizzonte è di là da venire. E davvero non si capisce come sarà possibile fermare questa spirale, se perfino alcuni esponenti religiosi musulmani continuano a chiamare “martiri” i poveri ragazzi sacrificati in attentati suicidi tanto inutili quanto sanguinosi in tutto il Medio Oriente.