L’attività industriale deve perseguire anche l’equilibrio economico-sociale dei Popoli
PROTOCOLLO DI KYOTO? MA LE IMPLICAZIONI SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI NON DOVREBBERO ESSERE “IMPOSTE PER LEGGE”…
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Di Giuseppe Brienza*
In questa lettera dell’alfabeto della Dottrina sociale della Chiesa coniugato in politica, consideriamo “K” come Protocollo di Kyoto in chiave puramente esemplificativa. Il trattato internazionale sulla riduzione del riscaldamento globale adottato in Giappone nel 1997, infatti, è solo uno dei tanti elaborati negli ultimi anni sotto l’egida delle Nazioni Unite: da Montréal a Rio de Janeiro, da Lima a Durban, da Stoccolma a Parigi.
L’accordo di Kyoto obbliga circa 35 Paesi industrializzati a tagliare le emissioni di gas serra di una media di almeno il 5,2% rispetto ai livelli del 1990 (nel periodo dal 2008 al 2012). Da tale Protocollo in poii vari accordi internazionali sul clima e sullo sviluppo sostenibile sono stati continuativamente e acriticamente promossi dall’ONU senza che vi fossero unanimi o definitive garanzie scientifiche circa le reali conseguenze sull’ambiente delle emissioni di gas a effetto-serra. In particolare, il fatto sul quale si è maggiormente obiettato è che alla base di tutto l’impianto ambientalista-globalista-onusiano viene sopravvalutato l’effetto dell’inquinamento prodotto dall’uomo in termini d’influenza sul clima.
L’Accordo di Parigi che costituisce l’ultimo portato ideologico del “sistema di Kyoto”, siglato tra gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, è inoltre stato accusato da alcuni Governi di minare l’economia occidentale, di compromettere l’occupazione e d’indebolire la sovranità nazionale dei Paese più sviluppati.
Se è vero in effetti che l’attività industriale è chiamata a rispettare attentamente l’integrità e i ritmi della natura, è anche necessario che le esigenze della protezione ambientale, come afferma anche il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, siano conciliate con quelle dello sviluppo economico (n. 470).
L’inquinamento prodotto dall’uomo, come detto, è probabilmente sopravvalutato nella sua capacità d’influire sul clima, le cui variazioni sono epocali e avvengono per cause per lo più poco conosciute (macchie solari, andamenti ciclici, etc.). Per questo di ricerche che ridimensionano le reali conseguenze sull’ambiente delle emissioni di gas a effetto-serra, soprattutto negli anni più recenti, sono pieni i cataloghi scientifici. Solo per rimanere in ambito internazionale e citare uno studio disponibile in lingua italiana, basterà considerare quello dello scienziato brasiliano Luiz Carlos Molion che, per il XII Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân, ne ha pubblicato uno dal titolo davvero esplicito: Riscaldamento globale antropico: realtà o truffa? (cfr. Ambientalismo e globalismo: nuove ideologie politiche, a cura di Riccardo Cascioli, Giampaolo Crepaldi, Stefano Fontana, Edizioni Cantagalli, Siena 2021, pp. 47-62).
In pratica, per il climatologo dell’Universidade Federal de Alagoas (UFAL) non esisterebbe alcuna “emergenza climatica” globale, poiché la variabilità climatica cui stiamo assistendo negli ultimi anni sarebbe assolutamente naturale. «Il Covid-19 – assicura Molion – ne è un esempio. C’è stata una significativa riduzione delle attività industriali e di trasporto a causa della ridotta mobilità delle persone durante la pandemia, che ha comportato una riduzione delle emissioni, eppure ancora non si è verificato alcun impatto sulla concentrazione di CO2. Allo stesso tempo, i protocolli volti a ridurre le emissioni antropiche di CO2, come il protocollo di Kyoto e l’accordo sul clima di Parigi, non avranno alcun effetto, poiché la CO2 non determina il clima globale».
Eppure con l’Accordo siglato a Doha sull’estensione del protocollo di Kyoto fino al 2020 (detto Kyoto bis), circa 200 Paesi hanno acconsentito a estendere il periodo di impegno per rallentare con le modalità fallimentari di sempre la paventata apocalisse del Global Change.
L’estensione del Protocollo di altri 8 anni ha mantenuto in vita e giuridicamente vincolante un trattato fondato sulla corsa dietro utopistici obiettivi in un momento di crisi economica e sociale globale. Un “patto” che rivendica inoltre gravosi impegni degli Stati sulla crescita delle fonti energetiche rinnovabili e sulla limitazione dell’uso dei fossili. Un’agenda che sembra pensata per favorire la penetrazione asiatica nei mercati occidentali, che si devono confrontare con i prodotti che arrivano da Paesi dittatoriali o totalitari nei quali le “politiche ambientali” sono praticamente assenti e quindi molto meno onerose dal punto di vista produttivo ed industriale.
L’adozione di parametri come quelli imposti da Kyoto et similia richiederebbe l’imposizione di un sistema di commercio di permessi di emissioni di CO2 comportante un aumento dei costi per le aziende che consumano molta energia. Questo vorrebbe dire per l’utente medio occidentale prezzi dell’elettricità molto più alti di quelli dei Paesi dell’Asia, che già hanno il vantaggio di una manodopera quasi a costo zero.
Una (opinabile ma realista) applicazione politica di quanto finora esposto? La rinegoziazione del Pacchetto clima energia 2030, approvato dall’Ue nel 2014. Questa misura prevede, infatti, una riduzione delle emissioni del 40% al 2030 rispetto al 1990, ma la gran parte dei Paesi europei non può permetterselo. Pena? La loro mancata tenuta o “ripartenza” economico-sociale dopo 13 anni di crisi globale e il blocco Covid-19 dell’ultimo anno.
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Temi di Dottrina sociale della Chiesa.