Una curiosa similitudine biografica fra l’Angelico Dottore e il fondatore dell’Umanesimo
TOMMASO D’AQUINO E PETRARCA: ENTRAMBI FIGLI DI EPOCHE DOMINATE DALLO SCONTRO FRA RAZIONALISMO ED ELOQUENZA CLASSICA
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Di Andrea Meneghel
Mi sia permesso far notare una curiosa similitudine biografica fra l’Angelico Dottore San Tommaso d’Aquino e il fondatore dell’Umanesimo Francesco Petrarca.
Entrambi figli di epoche dominate dall’agone fra razionalismo ed eloquenza classica; entrambi avversati dalle famiglie, nelle rispettive ambizioni, dopo un promettente inizio degli studi.
Tommaso (Roccasecca 1225 – Fossanova 1274), ottavo o forse nono figlio dei conti d’Aquino, sarebbe stato destinato, secondo l’usanza dell’epoca, alla carriera ecclesiastica. Il padre poteva sperare, per una favorevole combinazione politica, di inserirlo con profitto nell’abbazia di Montecassino, dove sarebbe divenuto in poco tempo abate. Ivi compì i suoi primi studi letterari, propedeutici alla carriera, ma a causa della situazione incerta del luogo, ancora soggetto a disordini dopo la contesa fra Papa Gregorio IX e Federico II, i genitori ritennero conveniente trasferirlo a Napoli per continuare gli studi. Fra i suoi maestri partenopei si sono tramandati i nomi di Martinus (forse Martino di Dacia) in grammaticalibus e Petrus de Hibernia (Pietro d’Irlanda) in naturalibus. Pare certo che in questo soggiorno il giovane entrò a contatto con la traduzione latina del Commento di Averroè, portata a termine pochi anni prima da Michele Scotto. Quattordicenne, nel 1239, conobbe l’Ordine dei Frati Predicatori, fondato appena ventitre anni prima da San Domenico di Guzman, che esercitò su di lui una profonda attrazione, contraria agli interessi della famiglia sopra accennati. I fratelli tentarono di impedire manu armata la fatale vocazione del novizio, sequestrandolo e chiudendolo per mesi, pur senza altre forme violente di costrizione, nel castello di Roccasecca. Alla fine, dopo aver cercato con ogni mezzo di muoverlo a una diversa scelta di vita, furono costretti a riconoscere la sua di giorno in giorno viepiù crescente convinzione e lo lasciarono libero, povero di materia e ricco di spirito, a seguito del priore dell’Ordine, Giovanni Teutonico, che si dirigeva allora verso Parigi. Tommaso prenderà poi le mosse per Colonia, luogo dell’incontro epochemachend con il maestro S. Alberto. Alcuni agiografi hanno ipotizzato perfino il ricorso dei fratelli a una prostituta per corrompere l’animo del Santo, il quale rispose – sempre secondo la suddetta narrazione – cacciandola con un tizzone ardente. Ci si può interrogare sulla veridicità storica di siffatti particolari, che tuttavia restano nel loro valore di verità umane a testimoniare, quasi come calore in clarità di fuoco, la fortezza del Dottore Angelico, la costanza negli studi, la fermezza compassionevole che non mancherà alla sua penna nel condannare il peccato e nel compatire il vizio. Qualità che ritroviamo, un secolo dopo, nell’Iniziatore dell’Umanesimo.
Francesco Petrarca (Arezzo 1304 – Arquà 1374), primo figlio di Pietro di ser Parenzo dell’Incisa (detto Petracco), guelfo dedito all’attività notarile, e di Eletta Canigiani, attraversò l’infanzia esule con la famiglia: prima a Pisa, dove era confluita la maggior parte dei guelfi espulsi da Firenze, poi, nel 1311, a Genova, dove avvenne l’incontro con Dante di cui ci parla nella Fam. XXI, 15. Interessano particolarmente i suoi studi, sui quali lui stesso dice che fu esortato dal padre, fin dalla pubertà, a dedicarsi a Cicerone e Virgilio. Completò la formazione grammaticale a Carpentras, piccola cittadina vicina ad Avignone, sotto la tutela del maestro Convenevole da Prato. La morte della madre nel 1318 fu occasione del primo componimento pervenutoci del Poeta, il Breve panegirycum defuncte matri (Epyst. I, 7). Non molto tempo dopo, il padre pensò di avviare Francesco alla carriera giuridica, esortandolo a studiare diritto a Montpellier e, in seguito, dal 1320, a Bologna. Ci si fermi un momento a riflettere: se Petracco, uomo di media borghesia e media cultura, ebbe comodamente a sua disposizione i volumi di Virgilio e Cicerone, cosa mancò alla sua epoca per attingere a piene mani dal patrimonio classico e gridare a piena voce il valore degli smarriti antichi? Certamente non la materia, salvaguardata coscientemente dalla Chiesa attraverso l’attività dei copisti; mancò l’attitudine, la formazione e, in ultima istanza, la volontà per ricostruire nella sua autonoma bellezza l’edificio della prima romanità. Le arti del trivio erano solo una tappa intermedia, in cui non ci si doveva attardare, del percorso di formazione che conduceva alle lucrative cattedre universitarie e giudiziarie, alla carriera medica o notarile, insomma tutte le attività a cui il pragmatico fiuto borghese poteva essere interessato. Dante mostra piena consapevolezza degli “impedimenti” dei destinatari del suo Convivio: Di fuori da l’uomo possono essere similemente due cagioni intese. […] La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sé tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono (Dante, Convivio, lib. I, § 3-4).
Una leggenda, di cui non possiamo avere più certa conferma, vuole che, per allontanare il figlio Francesco dalla tentazione avvertita fortissima in lui di consacrare la vita a quegli studi così salutari per l’anima, ma non altrettanto rimunerativi, il padre gettò fra le fiamme davanti agli occhi del figlio preziosi codici di Virgilio e Cicerone che gli aveva in precedenza regalato. Basti a noi sapere che il Poeta si accomodò mal volentieri nelle angustie degli studi bolognesi e li interruppe definitivamente solo alla morte del padre quando, trovatosi immediatamente in stato di necessità economica, accettò il titolo di cappellanus continuus commensalis offertogli dal cardinale Giovanni Colonna.
Mantenne così uno stile di vita sobrio, senza preoccupazioni e, quel che più conta, libero di spiccare il volo alle altezze dell’eloquenza classica. Fondamentali per la sua felicità furono anche le amicizie che riuscì a stringere in giovinezza con Guido Sette, futuro vescovo di Genova, Tommaso Caloiro, Mainardo Accursio, Giacomo Colonna, figlio di Stefano e fratello di Giovanni, Lello di Stefano Tosetti e Ludovico di Beringen, che chiamerà rispettivamente il suo Lelio e il suo Socrate; oltre alla stretta relazione con il fratello Gherardo, più giovane di lui di circa tre anni. Queste amicizie, alcune assai longeve, diedero occasione per la stesura di epistole e opere: nacque così quell’idea di una condivisione del patrimonio culturale dell’antichità che sta alla base dell’Umanesimo ovvero, nel suo senso più pieno, una Città dei Letterati. Si echeggia così, insieme alla sostanza classica del movimento, quell’altra componente che ne fu ispiratrice: la mediazione cristiana dei Padri della Chiesa, specialmente se si guarda alle Confessioni e al De Civitate Dei di Sant’Agostino, senza i quali forse non avremmo avuto una così feconda compenetrazione fra la bellezza della nuova cultura e la sensibilità dell’aristocrazia, a cui il Petrarca fu vicinissimo (si ricordi l’amicizia con i papi e la visita di re Roberto nella piccola casa di Valchiusa) e dei ceti popolari, dalle cui fila emergeranno gli amici del circolo fiorentino (Giovanni Boccaccio, Lapo da Castiglionchio, Francesco Nelli, Zanobi da Strada), continuatori dell’opera del Nostro.
Quella necessità socialmente avvertita e intellettualmente esigita di una sintesi feconda, in cui indagine dialettica e spiritualità dei Padri potessero pervenire a una nuova pace, ossia quiete delle cose nel loro dovuto ordine, risuonò così fieramente nelle loro coscienze mature, che gli ostacoli giovanili non poterono torcere l’indole naturalmente disposta ad alte mete, l’uno dal seguire la via u’ ben s’impingua se non si vaneggia, l’altro dal cercare l’ispirazione poetica (latina!) nella solitudo iocundissima del suo Elicona transalpino, e la cultura a venire fu tutta modulata dalle loro voci, così ben impresse dall’interna stampa.