Giustizia, non per la casta ma per il bene comune

Giustizia, non per la casta ma per il bene comune

UNA RIFLESSIONE SUL POTERE GIUDIZIARIO A PARTIRE DAL LIBRO DI STEFANO LIVADIOTTI (1958- 2018) “MAGISTRATI L’ULTRA CASTA

Di Mauro Rotellini

Stefano Livadiotti, giornalista nato il 26 dicembre 1958 a Roma e morto a neanche sessant’anni dopo una lunga malattia sul finire del 2018, si è sempre occupato sul settimanale L’Espresso di poteri economici e finanziari, grandi aziende pubbliche e private, sindacati e Confindustria. Schierato genericamente a sinistra ma senza tessere di partito né preclusioni ideologiche, era considerato un cronista graffiante e spesso sgradito ai potenti di cui scriveva. Nel 2008 ha vinto il Premio Nazionale di Giornalismo Cinque Terre. È stato autore di alcuni libri-inchiesta di successo sulle incrostazioni dei sindacati e sulla categoria dei magistrati.

«Dove non c’è giustizia non ci può esser pace, perché l’ingiustizia è già un disordine e sempre vera resta la parola del Profeta: “Opus iustitiae pax”». Queste parole di san Giovanni Paolo II trovano particolare eco nel libro di Livadiotti Magistrati l’ultracasta, edito da Bompiani nel 2009 e forse passato inosservato. Ingiusto ed ingiustizia sono i concetti che più di tutti vengono a mente quando si legge questo libro che, purtroppo, racconta le azioni (per lo più secretate) di chi in Italia è chiamato ad assicurare la giustizia. Paradossale, vero?

Sono 246 pagine di dati e notizie che lasciano in effetti colpiti. C’è anche la storia del magistrato sospeso nel 1973 dal servizio e poi riammesso con scuse e poi assolto, riabilitato e riassunto in servizio con scatti di anzianità e di stipendio nel 1981. Direte voi, è giusto; è normale. Il fatto è che era stato arrestato in flagranza di pedofilia. È ingiusto. Non è normale. Ma vero. Quell’aumento di stipendio lì, ha consentito un aumento di stipendio anche a molti altri magistrati; o Stato ha speso 70 miliardi di lire per quell’aumento.

«Il 1° settembre del 2008, il giudice […] ha battuto sui tasti del suo computer la sentenza che dà ragione al piccolo comune agrigentino […] restituendogli i trecentomila ettari che aveva venduto al prestanome di una potente famiglia della zona per 2030 once». Once? Si, once… Il processo era stato infatti impiantato nel 1816.

Il problema dei tempi di funzionamento della giustizia italiana è annoso. È così grave che molti osservatori individuano in questo aspetto uno dei motivi per cui gli investitori stranieri si guardano bene dall’investire in Italia. E, si noti, il malfunzionamento sta nel lavoro dei giudici. Senza alcuna possibilità di scontare le proprie inefficienze. Infatti, con la complicità del legislatore, hanno disegnato un meccanismo di carriera per cui «la meritocrazia non ha alcun diritto di cittadinanza […] vengono promossi, e guadagnano di più, […] solo in base alla anzianità professionale». E non pagano nulla nemmeno quando mettono in galera – e ce li tengono – cittadini che non solo il dibattimento, ma anche il semplice buon senso ne urlerebbe l’innocenza.

Ma cosa dicono i magistrati di questa situazione? Lamentano una cronica scarsezza di fondi. Ma Livadiotti è implacabile: «Se […] negli ultimi tempi sono calati gli stanziamenti per qualche voce di bilancio, il motivo è molto semplice: anno dopo anno continua a crescere il budget del ministero della giustizia che se ne va nel pagamento dei loro stipendi».

Ma, almeno, tutta questa inefficienza così lautamente pagata, verrà punita qualche volta? Ebbene, la legge c’è. Si chiama Legge Pinto. Prevede e disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo. Uno dei suoi articoli prevede la obbligatorietà dell’azione di recupero nei confronti dei magistrati autori del ritardo. Solo che non viene applicato. Mai.

Ma non finisce qui. Livadiotti si lancia poi nell’esame di altri gravi mali della magistratura italiana. L’ANM, «il potentissimo sindacato delle toghe italiane» con un tasso di sindacalizzazione di oltre il 93% e le sue correnti, che fanno e disfano le maggioranze nel CSM e decidono chi deve essere nominato a questo o quell’ufficio. Si certo, per quelle nomine si fanno dei concorsi. Ma sono concorsi per titoli, ed a volte capita che – per accontentare le correnti – si ritardi l’espletamento di procedure fino a quando non vi siano un numero di posti disponibili sufficienti a consentire la spartizione fra le correnti. Ognuno qui può vedere come in realtà l’intera l’organizzazione giudiziaria sia piegata a vantaggio degli operatori principali. La nomina di magistrati è differita per consentire ad una o più “correnti”, cioè associazioni il cui interesse è la tutela degli iscritti, di poter garantire il proprio potere.

La sezione disciplinare del CSM, ossia quella sezione che giudica dell’operato dei magistrati, è sbrigativamente definita «il buco nero […] dell’intero Palazzo dei Marescialli». Nel 2007, narra Livadiotti, a fronte di 1479 pratiche di reclamo contro le attività dei magistrati, solo 103 sono state ritenute degne di arrivare alla sezione disciplinare; di queste, più dell’80% si concludono con la assoluzione, solo il 18% con una sanzione lieve… È una festa. Nessuno paga nella magistratura italiana, chi riesce ad entrarci è ragionevolmente sicuro che non sarà punito per quante nefandezze possa fare. Ci sono ritardi nella redazione delle sentenze, persone dimenticate in carcere, errori giudiziari, fascicoli dimenticati e nessuno è mai chiamato a rispondere. A completamento del paradosso: chi non paga mai, chiama gli altri a pagare.

E infine la progressione di carriera. Una carriera in cui «bandita di fatto ogni forma di controllo e abolita qualunque meritocrazia, si sale gradino dopo gradino la scala gerarchica grazie al mero scorrere del tempo». Tutto qua. Alla fine, il fortunato avrà lo stipendio di un magistrato di cassazione. Esiste una valutazione periodica fatta dal CSM, che costituisce condizione indispensabile alla promozione. Ebbene queste valutazioni presentano il 99,6% del totale di promossi. Cosa dire? Non v’è dubbio che la progressione di carriera costituisce uno stimolo importante e valutazioni lasciate ad organi espressione delle volubili maggioranze parlamentari, potrebbero effettivamente lasciare spazio ad avanzamenti collegati a rapporti più o meno evidenti con il potere politico. Ciò posto, e posto soprattutto il fatto che il potere politico comunque influenza e non poco nomine ed avanzamenti (ricordate il caso Palamara – CSM – Lotti?); è opportuno chiedersi se un sistema con valutazioni pressoché assenti sia funzionale al funzionamento generale dello Stato.

Ci si domanda, con san Giovanni Paolo II, se davvero in Italia si può davvero affermare che il sistema giudiziario produce la “pax” o, piuttosto, se non ci troviamo in una situazione come quella denunciata da Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755): «Non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e sotto il calore della giustizia». Varrebbe anche la pena di aggiungere con Otto von Bismarck (1815-1898) la massima sempre veritiera: «Con cattive leggi e buoni funzionari si può pur sempre governare. Ma con cattivi funzionari le buone leggi non servono a niente». Ed ecco il ruolo del libro di Livadiotti richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su un settore dell’organizzazione statuale che funziona male e non raggiunge i suoi obiettivi, ma che gode di una reputazione a tutta prova di essere scalfita. Un mondo che presenta alcuni eroi uccisi nello svolgimento della loro missione, alcuni professionisti che si impegnano a fare il loro lavoro, e una serie di personaggi che, in nome della autonomia e della indipendenza, contribuiscono a tenere in vita un sistema che presenta tutte le falle esposte da Livadiotti. Un mondo – e questo ne costituisce ritengo l’aspetto più deteriore – che ha innegabilmente contribuito a creare il circo mediatico giudiziario che caratterizza gli ultimi decenni della vita politica italiana e l’ha indirizzata pesantemente.

In Il Corriere del Sud

n. 10, anno XXVIII/19, p. 3

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