Dell’attualità di Dante e del concetto di Patria
–
NON DONNA DI PROVINCE, MA BORDELLO!
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
(Dante, Divina Commedia, Purgatorio vv. 76-87)
Nella Divina Commedia niente avviene per caso, ecco perché in ogni cantica Dante dedica il sesto canto sempre a un tema politico. Il Sommo ordina con un climax ascendente le sue invettive, prima contro Firenze nell’Inferno, poi contro l’Italia nel Purgatorio, e conclude con la storia dell’Impero nel sesto canto del Paradiso, seguendo uno dei punti fermi del poema – in senso religioso, politico, storico – la verticalità dello spazio. I protagonisti sono il fiorentino Ciacco, colpevole di golosità, nell’Inferno, il trovatore Sordello nel Purgatorio, l’imperatore Giustiniano nel Paradiso. Nel VI canto del Purgatorio siamo nell’Antipurgatorio, dove ci sono le anime distratte da cure terrene, cioè coloro che trascurarono i propri doveri spirituali, e qui attendono di poter cominciare la loro espiazione; siamo, secondo alcuni commentatori, nel pomeriggio del 10 aprile 1300 (Pasqua), o, secondo altri, del 27 marzo 1300.
Mentre nel VI canto dell’Inferno, il goloso Ciacco parla dell’invidia, della superbia e dell’avarizia che sono all’origine delle sanguinose lotte politiche che sconvolgevano Firenze, e profetizza la cacciata dei Guelfi Neri da parte dei Bianchi e dunque l’esilio di Dante, e nel VI canto del Paradiso l’imperatore Giustiniano parla di sé e della storia dell’aquila imperiale, cioè dell’Impero, nel VI canto del Purgatorio – dove, lo ricordiamo, siamo in realtà nel secondo balzo dell’Antipurgatorio, dove restano tanto tempo quanto vissero i negligenti morti di morte violenta che si pentirono in fin di vita – protagonista di uno dei canti più belli e più densi di significato politico è il trovatore Sordello da Goito, il cui caloroso abbraccio con un conterraneo, il mantovano Virgilio, offre al poeta fiorentino, in un processo di autoidentificazione con il personaggio, l’occasione poetica e politica per una dolorosa apostrofe all’Italia.
A sentire Virgilio, che comincia con Mantua, il disdegnoso e austero Sordello si scioglie, e abbraccia l’uomo di cui ancora non conosce il nome, il suo concittadino, per amore della sua terra natale. Sordello diventa così simbolo dell’amor di patria, e il poeta esplode allora nella più memorabile, famosa e violenta invettiva contro l’Italia dilaniata guerre civili, di cui è esempio Firenze lacerata dai conflitti interni.
Il poeta denuncia la misera condizione dell’Italia, dominata da altre nazioni e luogo di corruzione e di guerre civili, e critica aspramente anche la Chiesa, “che dovrebbe esser devota, e lasciar seder Cesare in la sella”, che cioè dovrebbe limitarsi al potere religioso senza ambizioni di potere temporale. Che dovrebbe essere esercitato da Alberto I, imperatore del Sacro Romano Impero, colpevole di essersi completamente disinteressato dell’Italia e, per questo, chiamato “tedesco”, e per il quale viene anche invocata la punizione divina per questa sua colpa. E qui Dante ritorna – è un pensiero ricorrente – alla sua Firenze, questa volta con sarcasmo, per ripresentarla come una città sconvolta dal peccato, dove i suoi cittadini sono sempre in guerra, una città tormentata come un malato che cerca inutilmente di attenuare il suo dolore cambiando posizione.
Il VI sesto canto del Purgatorio è uno dei canti più belli e intensi della Divina Commedia anche perché ci rivela la visione politica di Dante e il suo pensiero sulla società italiana, o, per meglio dire, sugli Stati italiani. Se Dante riconosce la grandezza culturale e storica dell’Italia, e il posto privilegiato che essa ha nel contesto delle nazioni, sul piano politico l’Italia per Dante ha senso solo nel contesto dell’Impero, anche se rimane il “giardin de lo ‘mperio”, così la chiama nel canto VI del Purgatorio. Se non si capisce questo, non si capisce né la sua visione politica, né tutta l’opera di Dante. La sua visione politica, d’altra parte, è espressa chiaramente nel “De Monàrchia”. Ed è pure vero che è una visione politica arretrata, Dante non era andato in giro per l’Europa, perciò non poteva capire che stavano nascendo le grandi monarchie nazionali, la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, e pertanto per lui l’Europa era ancora l’Impero, l’unico organismo sovrannazionale che riconosceva.
È anche ben vero che anche qui Dante afferma la centralità dell’Italia in un’Europa che non esisteva neppure di nome, ed è per questo che, prendendo spunto dal caloroso abbraccio tra la sua guida, il grande poeta mantovano Virgilio, e il famoso trovatore medievale Sordello (le cui opere Dante conosceva bene), che, pur ignorando che si trattasse del poeta latino, appena questi aveva pronunciato il dolce nome di Mantova (Mantua, in latino), aveva mostrato uno straordinario amor di patria, espone il suo pensiero sul concetto di patria.
Da questa situazione emotiva (ovviamente costruita da Dante), il Sommo prorompe in un’invettiva contro l’Italia del tempo, dilaniata da lotte intestine, da bande armate, da guerre tra guelfi e ghibellini, un Paese privo di guida e in balìa di tirannelli feudali. Un Paese senza vergogna, lo definisce il Fiorentino, senza la memoria storica della sua passata grandezza, non più padrona di province ma, appunto, bordello, caos.
Dante paragona l’Italia, con felice metafora, a un cavallo indomito e selvaggio privo di guida, e fra i responsabili di tanto male – come detto sopra – accusa il clero, che si interessa più delle cose della terra che del cielo, sostituendosi spesso all’Imperatore nel governo delle cose mondane, Imperatore che, invece di scendere in Italia per domare il cavallo, come definisce l’Italia con felice metafora il Sommo, cioè per portare la pace fra i litigiosi italiani, se ne sta tranquillo in Germania, e infatti lo chiama “tedesco” con ironia e disprezzo. Nella sua apostrofe Dante non risparmia nessuno, né le signorie locali né le città italiane, che, invece di pensare all’interesse comune, sono preda di egoistici interessi particolari. Naturalmente, come sempre, lo sdegno e l’indignazione di Dante sono riservati a Firenze, la città che lo ha esiliato, città volubile e insipiente, città malata che gira e si rigira nel letto senza pace.
Ecco, sette secoli dopo, l’Italia ha attraversato divisioni e dominazioni, ha ritrovato l’unità ma – forse scotto per una civiltà superba – è rimasta politicamente sempre la stessa: un bordello.
La grandezza di un poeta si misura con la sua attualità, ed è per questo che Dante è ancora attuale, perché è il classico per eccellenza, perché ci ha lasciato opere immortali, idee ancora attuali, un pensiero ancora pregno di vitalità. Ci ha dato anche la lingua, anche se solo nell’Ottocento si è riscoperto Dante, che prima veniva considerato “volgare” e gli si preferiva Petrarca per la poesia, per la prosa invece era modello Boccaccio.
Dante descrive l’Italia reale, quella che è sempre esistita nei secoli ed esiste ancora oggi. Il suo messaggio è quello di ricercare l’unità, superando le discordie con i valori della tradizione, al fine di realizzare il bene comune.
Il suo, l’amor di patria, è il messaggio che ci hanno tramandato gli scrittori e i poeti che gli sono succeduti, Boccaccio, Petrarca, Guicciardini, Machiavelli, Tasso, Ariosto, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni, Pascoli, Verga, Pirandello, D’Annunzio, anche se in forme e allegorie diverse.
Dante è attuale perché egli abbraccia tutto il reale, la politica, la filosofia, la religione, la teologia, l’astronomia, esoterismo, simbologia numerica, la poesia. Dante è poeta laico ed è poeta religioso, perché, se è vero che a governare deve essere il potere laico, cioè l’Imperatore, nella salvezza è determinante ancora la religione, certo non quella di alcuni papi ma quella di Cristo, di San Francesco, dei mistici. Dante alla fine conosce Dio attraverso la Teologia (Beatrice), il misticismo (San Bernardo), la Grazia, la madre di Dio, la donna per eccellenza.
Dante è attuale perché è un poeta immenso, ed è un poeta immenso perché è un poeta folle. Come può definirsi uno che pensa di salvare l’umanità con la poesia? Che intraprende un viaggio nell’Aldilà per salvare col suo esempio l’umanità? Ma è proprio questo il suo fascino eterno. La parola che salva. Non occorre scrivere lunghe, pedantesche pagine sulla sua poesia e sul suo magistero culturale e spirituale. Migliaia di pagine sono state scritte dai più grandi critici. Ogni aggettivo per definire il più grande poeta di ogni tempo – il più grande, sì, per l’importanza che ha avuto e continua ad avere nella storia della civiltà del suo Paese e della cultura mondiale – è superfluo.
Egli è sempre moderno perché affascina sempre le generazioni, egli ha sempre qualcosa da dire. Egli ci parla del bene e del male, di odio e di rancore, di politica, arte, economia, di religione, e soprattutto di amore, del suo tormento d’amore, amore per la donna, amore per la pace, amore per la verità, amore per Dio, perché la Divina Commedia è, innanzitutto, uno straordinario poema d’amore.
Il suo genio immenso comprende tutto, lo spazio e il tempo. Ed è un miracolo per un uomo vissuto appena cinquantasei anni. La sua statura gigantesca intimorisce. Per talune difficoltà linguistiche e concettuali, Dante è un poeta che chiede intelligenza e impegno, soprattutto nel Paradiso, dove il suo genio dilaga oltre i limiti della letteratura di fantasia e d’immaginazione. Ma è soprattutto qui che il marchio indistinguibile del suo genio giunge alla sua più superba altezza e alla fine ripaga con una ricchezza straordinaria di cultura, di arte e di umanità. Essendo questo Paese diventato Stato e Nazione sui fondamenti di una comune consapevolezza storica, culturale, linguistica, religiosa – caso, forse, unico nella storia dei popoli – egli può essere considerato il padre fondatore della civiltà italiana.
La Divina Commedia è un’opera sterminata. Egli è tutto. Egli è il poeta, la guida, il saggio, il profeta, il mistico, l’eterno errante, il pellegrino sempre in cammino, egli è il riformatore religioso e civile, l’Angelo dell’Apocalisse. In Dante trovano pace il tempo e lo spazio, l’inferno e il paradiso, l’eterno e la storia, Lucifero e Dio. Nessun poeta, forse, ebbe mai la superbia e l’orgoglio di Dante, ma nessun poeta ebbe mai una così smisurata vastità e ricchezza di pensiero e di immaginazione. Forse, solo John Milton fu smisuratamente orgoglioso quanto lui; forse, solo Shakespeare ebbe maggiore ricchezza nell’espressione verbale. Ma l’inglese moderno avrebbe assomigliato molto alla lingua che oggi si parla a Oxford anche senza Shakespeare, mentre il dialetto toscano – anzi, fiorentino, come egli si sentì per tutta la vita, soprattutto in esilio – di Dante è diventato la lingua degli italiani e di una delle più grandi civiltà del pianeta. Dante è poeta nazionale, come Shakespeare, Cervantes, Tolstoj, Goethe, l’unico forse che gli fu superiore per vastità di cultura, ma nessuna personalità sovrasta come quella di Dante. Dante è figura centrale nella cultura non solo occidentale ma mondiale. Un uomo vissuto appena cinquantasei anni che avrebbe attraversato ancora la sua immortalità con altre opere sublimi e perfette perché egli aveva raggiunto – così diceva e così era – la verità.
Nessun poeta – antico o moderno – ha avuto una personalità così vasta e formidabile come quella di Dante: egli non lascia posto a nessun altro, egli occupa tutto lo spazio, egli occupa tutta la scena, tutto muta solo se lui muta. Dante è il poeta di ogni tempo. Dante è sempre un contemporaneo. Ecco perché il suo concetto di patria è ancora attuale. Perché egli è tutto, il mistico, la guida, il viaggiatore folle verso la purezza, il poeta e il profeta chiamato dall’alto per salvare l’umanità, lui, l’eterno viandante dell’Aldilà.