La guerra a pezzi rischia di saldarsi in un conflitto più ampio?
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UNO SGUARDO AI TRE PRINCIPALI SCENARI DI CRISI CON L’ANALISTA MIRKO CAMPOCHIARI
Quella che papa Francesco ha definito una guerra a pezzi rischia di saldarsi in un conflitto di ben più vaste proporzioni? Con la guerra in Ucraina che sembra non avere una soluzione, con l’aggravarsi della tensione in Medio Oriente e la Cina che scalpita per annettersi Taiwan ce lo stiamo chiedendo un po’ tutti. Con lo storico Marco Cimmino InFormazione cattolica ha analizzato alcune apparenti analogie con quanto avvenuto nel 1914 e nel 1939, quando le potenze dell’epoca pensavano di risolvere certe reciproche “divergenze” senza far deflagrare un conflitto generalizzato. I calcoli si dimostrarono sbagliati e l’Europa precipitò nel caos.
A Mirko Campochiari, analista storico militare che col suo canale Youtube Parabellum sta seguendo in maniera puntuale e molto approfondita la guerra russo-ucraina con interessanti focus sulle altre aree di crisi, chiediamo una valutazione più “tecnica” sui reali rischi di una escalation sul piano militare. Ci riferiamo ovviamente agli scenari in questo momento più caldi, ovvero quello russo-ucraino e quello mediorientale ma con uno sguardo pure alla Cina, anche se al momento sembra essersi un po’ defilata.
Allora Campochiari, quali sono i rischi di un allargamento del conflitto? Cominciamo da quello che sta accadendo in Ucraina.
«Come abbiamo visto Biden è molto restio a dare il consenso agli ucraini di utilizzare le armi per colpire in profondità la Russia, anche perché la maggior parte degli analisti ritengono che ormai ci sarebbero più rischi di una ulteriore escalation che vantaggi. Una campagna missilistica o con altre armi a lungo raggio per scardinare le infrastrutture militari, logistiche o petrolifere russe sortirebbe i suoi effetti fra sei mesi o un anno nel migliore dei casi, sempre che Kiev riesca a condurre un’azione di una certa portata. Ma gli ucraini non hanno tutto questo tempo a disposizione. Il loro problema adesso è cercare di coinvolgere altri paesi, visto che non stanno reggendo, soprattutto in Donetsk dove la situazione si sta deteriorando, e che la mossa su Kursk – il cui fine era far spostare truppe russe dall’est dell’Ucraina per alleggerire la pressione sui reparti ucraini – non sta ottenendo i risultati sperati. L’operazione su Kursk ha ottenuto soltanto i vantaggi politici: aver dimostrato all’Occidente che Kiev è in grado di fare operazioni in mobilità e in segretezza, quindi di avere ancora l’elemento sorpresa. Inoltre gli ucraini hanno dimostrato che probabilmente molte delle linee rosse tracciate da Putin sono un bluff. Forse era un modo per ottenere l’autorizzazione a colpire in profondità, oltre che portare la guerra sul suolo russo. Il problema è che questa azione a livello politico si è già consumata mentre a livello strategico piano piano si sta trasformando in un problema».
Perché sta diventando un problema? In fondo gli ucraini come diceva prima stanno dimostrando di non essere ancora militarmente spacciati.
«Sta diventando un problema perché gli ucraini hanno impiegato le loro migliori truppe: una decina di efficienti brigate che ora invece si trovano impantanate in uno scontro con il peggio dell’esercito russo, anche se quantitativamente più numeroso, che però le tiene inchiodate in una operazione che non porta più alcun frutto, se non quello di tentare di mantenere un territorio da usare come moneta di scambio in una futura trattativa. Anche se è molto difficile che i russi accettino uno scambio, dato che sanno che gli Ucraini non potranno mantenere quelle posizioni ancora a lungo».
Passando al Medio Oriente, non sembrano esserci forze in campo capaci di opporsi ad Israele in una guerra convenzionale. Lì il pericolo è semmai rappresentato dal terrorismo. Ci sono rischi plausibili di un coinvolgimento di altri attori oltre a Israele e Iran? Ricordiamo che l’Egitto è ormai in pace con Israele, la Siria è semidistrutta dalla guerra che è stata scatenata in casa sua e anche l’Iraq non se la passa tanto bene. La Russia, che ha interessi nell’area e che in passato ha sposato la causa araba in funzione antiamericana ha al momento altro a cui pensare.
«In Medio Oriente l’exploit del Mossad che ha fatto esplodere walkie talkie e cercapersone decapitando praticamente tutta la catena di comando di Hezbollah assieme al loro leader ha semplicemente concluso la fase preliminare per un attacco. Li hanno colpiti al loro interno prima di lanciare una grossa campagna aerea che ha ammorbidito la capacità di resistenza di Hezbollah, mentre l’attacco di terra in Libano è semplicemente l’ultimo passo di una di una strategia già decisa. Si vedono qui tutte le mosse suggerite dal sottosegretario di Stato americano Antony Blinken e Joe Biden che però non portano alcun frutto poiché Netanyahu aveva preventivamente deciso cosa fare. Biden infatti aveva annunciato che era necessario un cessate il fuoco di ventuno giorni ed è stato bellamente smentito dalle azioni di terra israeliane. Questo dimostra una debolezza ovvia: perché Netanyahu dovrebbe parlare con Biden che è uscente o con la Harris? Preferisce sfruttare questo vuoto di potere per fare quello che deve e trascinare in un certo senso gli americani verso qualcosa che non vorrebbero fare compreso difendere Israele. In un certo senso gli americani sono stati fortunati perché dopo l’attacco iraniano di questi giorni è più facile aiutare Israele anziché dargli aperto supporto per un attacco vero e proprio. Il rischio è enorme perché i paesi arabi non hanno il potere di contrastare il piano israeliano e il coinvolgimento dell’Iran insieme a Hezbollah rischia di far scoppiare un conflitto regionale di portata molto più ampia. Tra l’altro ultimamente il fatto che gli iraniani siano riusciti a colpire alcune basi israeliane, seppure i danni siano stati molto limitati, – non hanno distrutto venti F 35 come hanno detto – dimostra che le difese israeliane stanno cominciando ad avere dei problemi, sia a livello qualitativo che quantitativo. Non si sa per quanto tempo Israele possa mantenere due fronti; anche dal punto di vista economico. Times of Israel ed altri quotidiani hanno scritto che sono a rischio sessantamila aziende, perché mantenere tutti quegli uomini in armi mette a dura prova l’economia».
E la Russia, che ha interessi in quell’area?
«La Russia al momento è interessata a mantenere lo status quo, soprattutto per quanto riguarda la Siria, sebbene il suo impegno sia diminuito nell’area. Abbiamo visto anche un avvicinamento della Turchia di Erdogan verso Assad, perché in geopolitica quando c’è un vuoto viene subito colmato da qualcun altro, e l’impegno russo in Ucraina sta assorbendo moltissime risorse. Questo ha comportato uno sganciamento anche in Africa dove la Wagner [formazione paramilitare “privata” russa utilizzata dal Cremlino per presidiare i propri interessi in aree del mondo n.d.r.] sta collezionando una serie di sconfitte; per esempio in Mali e altrove».
Per quanto riguarda la Cina quali sono i rischi di un conflitto con gli Stati Uniti? Al momento i cinesi hanno appena tre portaerei e quasi nessuna esperienza su come usarle, poche navi per operazioni anfibie e mezzi logistici per supportarle tuttavia la loro potenza economica e tecnologica è in crescita. Questo non potrebbe spingere gli americani a colpire per primi, ad esempio col pretesto di difendere Taiwan, in modo da ridimensionare per il futuro le mire di Pechino?
«La Cina sta continuando a sviluppare una forza da sbarco per minacciare Taiwan anche se è molto difficile invaderla. Taiwan adotta la strategia del riccio e i cinesi, che non hanno una storia navale di alto livello, non sarebbero in grado di imbarcarsi in una missione di questo tipo. Molto probabilmente quello che possono fare, e ultimamente si sono viste uscire tutte e tre le loro portaerei, è un embargo che costringerebbe gli americani a intervenire. I cinesi si sgancerebbero creando una effetto ping pong, con gli americani che ogni volta dovrebbero intervenire per interrompere un nuovo embargo che minaccerebbe l’economia taiwanese e per Taiwan il problema è proprio questo: è essenziale dal punto di vista economico ma nel momento in cui lo diventa meno è anche più “sacrificabile”. Taiwan non vede bene per esempio il Chip Act cioè il fatto che gli americani vogliano cominciare a farsi i semiconduttori in casa per dipendere meno dal partner e alleato cinese».
Preoccupa un po’ che anche l’Italia sia stata coinvolta nel pattugliamento del mar Cinese…
«Per ridimensionare le mire di Pechino serve una coalizione. Non è un caso che l’Australia si sta riarmando mentre in Giappone il primo ministro Shinzō Abe a suo tempo ha tentato di cambiare la Costituzione giapponese per trasformare le forze di autodifesa in un vero e proprio esercito e procedere ad un riarmo. Un po’ come abbiamo fatto in Italia anche i giapponesi hanno varato delle navi portaelicotteri che in caso di guerra possono diventare tranquillamente portaerei imbarcando velivoli a decollo verticale».
La paura un po’ di tutti, anche perché i media tendono a drammatizzare, è che a qualcuno scappi il dito sul bottone di lancio di qualche missile nucleare, magari tattico. Quanto è reale secondo lei questa eventualità?
«Si, i media tendono a drammatizzare e ad esagerare tutto; però effettivamente ci sono una serie di situazioni in giro per il mondo che rischiano di innescare un effetto domino con conseguenze imprevedibili».