Perché leggere ancora il Catechismo del Concilio di Trento?
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LA FEDE E’ UNA COSA SERIA!
C’è chi, quando ha voglia di un tuffo nel passato, sfoglia vecchie foto di famiglia o rilegge lettere ingiallite dal tempo. Io, invece, quando voglio ricordarmi cosa significhi pensare davvero in grande, apro il Catechismo del Concilio di Trento. E lo faccio non per nostalgia – che è una malattia dei deboli – ma per la necessità di confrontarmi con qualcosa di solido, qualcosa che non si piega alle mode del momento o alle spinte di questo o quel movimento.
Il Catechismo del Concilio di Trento è l’ultima roccaforte di un pensiero che non conosce compromessi. E forse, proprio per questo, mi ci rifugio quando vedo la fede ridotta a slogan, le omelie trasformate in chiacchiere da salotto e le processioni a sfilate da red carpet. In quei tempi lontani, la Chiesa non aveva paura di parlare con voce ferma, senza preoccuparsi di essere “inclusiva” o “al passo coi tempi”. Allora, le parole avevano ancora un peso specifico e la verità non era un’opinione.
Leggo il Catechismo di Trento per ricordarmi che esiste una differenza tra la verità e la convenienza. Oggi, tutto sembra negoziabile, persino la fede. Ci sono preti che parlano di “aggiornamento” come se il Vangelo fosse un software da tenere costantemente alla versione più recente. Ma cosa succede quando si dimentica che la fede, come l’arte, è fatta per durare, non per adattarsi ai gusti effimeri della folla? Il Catechismo di Trento non chiede scusa, non cerca di blandire. Parla direttamente alla coscienza, con quella durezza che solo chi conosce la verità può permettersi.
E qui arriviamo al punto: la durezza. Oggi la si teme, si preferisce parlare di misericordia, di accoglienza, di dialogo. Tutte cose buone e giuste, certo, ma cosa succede quando, in nome di queste virtù, si smette di dire le cose come stanno? Cosa resta della fede quando la si svuota di ogni disciplina, di ogni severità? Il Catechismo di Trento è un monolite che non cede, un promemoria del fatto che la vera misericordia non consiste nel dire sempre sì, ma nel ricordare che esistono anche dei no che salvano.
Non è che io disprezzi la Chiesa di oggi, sia chiaro. Ma talvolta ho la sensazione che, nel suo tentativo di restare rilevante, stia perdendo di vista ciò che l’ha resa grande: la capacità di parlare al cuore degli uomini, non blandendo, ma sfidando. Il Catechismo di Trento, con la sua chiarezza quasi brutale, mi ricorda che la fede non è un gioco, ma una cosa terribilmente seria. Che credere significa accettare delle verità, anche quando fanno male.
Qualcuno potrebbe dirmi che il mondo è cambiato, che non si può più parlare alle persone come si faceva nel Cinquecento. Forse è vero. Ma è altrettanto vero che ci sono cose che non cambiano mai: il bisogno di senso, la sete di verità, la ricerca di qualcosa che vada oltre il quotidiano. E queste cose non si trovano nei sermoni che si preoccupano di non offendere nessuno, ma nei testi che hanno il coraggio di dire che esiste un bene e un male, una via stretta e una larga, una porta che si chiude e una che si apre.
Leggo ancora il Catechismo del Concilio di Trento perché mi ricorda che la fede non è un passeggio nel parco, ma una battaglia. E che, in questa battaglia, non c’è spazio per le mezze misure. I preti di un tempo lo sapevano, e non avevano paura di chiamare le cose con il loro nome. Forse, se oggi tornassimo a sfogliare quelle pagine ingiallite, ci accorgeremmo che non abbiamo bisogno di una fede più “moderna”, ma di una fede più vera. E, in fondo, forse è proprio questo che mi spinge a riaprire quel vecchio Catechismo: la speranza di ritrovare una Chiesa che, pur essendo umana, non dimentica mai di essere anche, e soprattutto, divina.