Lo sterminio della nostra umanità
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NOI, DEI NELLA MACCHINA
Se l’uomo della prima modernità canta inni gioiosi ad un mondo libero in divenire, l’uomo della tarda o post-modernità si rende conto che il trionfo della nostra libertà – del secolare libero arbitrio di individui autonomi “illuminati” – richiede lo sterminio della nostra umanità e quindi il consolidamento di una macchina di disumanizzazione.
Il primo coronamento in tale direzione fu ottenuto nella Germania nazista; il secondo, quello terminale, è oggi in fase di realizzazione su scala planetaria. Per stabilire un Regno dei Fini (si pensi al Reich der Zwecke di Kant), dobbiamo essere tutti disposti a “risolvere” il problema umano di cui il problema ebraico funge da paradigma tradizionale.
La soluzione coincide con l’eliminazione sovraumana, anzi transumana, di tutto ciò che ostacola il Trionfo della Volontà (Triumph des Willens, secondo Leni Reifenstahl), cioè della “volontà di potenza” (der Wille zur Macht, secondo Nietzsche, sconcio profeta del volto dionisiaco dell’Illuminismo moderno). L’obiettivo equivale all’affermazione universale della nostra autonomia aldilà di ogni autorità che non creiamo per noi stessi. Ciò include sia la Natura che Dio, sia Platone che la Bibbia. Cosa resta alla fine? Affermazione per amore di affermazione: un “Yes Man” che non può dire di no, perché dire di no equivarrebbe a tradire il proprio destino. Qual è il nostro destino, il nostro destino moderno? È amor fati, ossia accettazione della nostra esistenza orientata verso il futuro, con tutto il cuore, con tutta la nostra anima e con tutta la nostra mente (rifacendoci a Matteo 22:37). Non può esserci futuro in cui sperare aldilà del nostro divenire il nostro futuro. In effetti, dobbiamo essere il nostro futuro (nel 1985 eravamo ancora solo “il mondo”, secondo Michael Jackson e Lionel Richie).
Quando il futuro è presente, ogni discorso si trasforma in uno slogan twittante. Ora è il momento di “cancellare” tutto ciò che non è ora, tutto ciò che si allontana o va oltre la nostra autoaffermazione; tutto ciò che mette in discussione il trionfo del presente sulla morte stessa; tutto ciò che saprebbe discreditare la macchina che rende un tale trionfo non solo possibile, ma assolutamente necessario. Quivi il meccanismo della ragione moderna – la Logica stessa del nostro illuminismo “scientifico” – che trasforma l’adesso nel nostro imperativo tecnologico collettivo.
È tutto o niente, ed il niente non è più un’opzione. Dobbiamo quindi sopportare il presente, le sue esigenze, per quanto offensive possano sembrarci. Le esigenze della libertà. Ma cosa esige da noi la libertà, il suo trionfo? Che abbracciamo il nostro destino collettivo, che si rimanga “aperti a tutto,” che si elevi la nostra diversità ad altezze celestiali. L’apoteosi della diversità: ciò che è inferiore deve essere stabilito come sommamente superiore. Il fallimento fin troppo umano dev’essere convertito in successo divino. Il vizio deve tramutarsi in sublime virtù. Solo così potremmo essere il nostro “vero Sé”, il Sé in cui ogni legge è completamente interiorizzata – grazie alla macchina.
Siamo divinità nella macchina (dei in machinam): dei che alimentano la macchina, lo stesso apparato meccanico che ci divinizza. La macchina che ci incorona, che alimenta la nostra fiducia in noi stessi, dicendoci che “tutto ruota intorno a noi” (egocentrismo metodologico), non è un deus ex machina come altri: è la macchina stessa, il grembo di tutti gli dei, che ci dice che noi siamo quegli dei innanzi ai quali generazioni passate si sono ossequiosamente prostrate. Una macchina di empowerment che ci chiama ad amare la libertà nella macchina, rifiutando tutto ciò che è al di fuori della macchina come male radicale (das radikal Böse, secondo Immanuel Kant).
Il superamento dell’uomo, in coincidenza con l’ascesa del superuomo – dell’Übermensch – colui che ha valicato i suoi limiti, il trans-uomo, è ciò che ha sempre rappresentato la modernità. Una transizione nella macchina dalla quale Giacomo Leopardi poteva ancora metterci in guardia nelle sue Operette satiriche, ma che oggi non possiamo più permetterci di contestare. Quando sei a Roma comportati da romano; quando sei a Babele comportati da zombie.
Tutto è permesso, tutto va, una volta che Dio è morto, o una volta che ci troviamo tutti nella macchina che alimenta ed è alimentata dall’apoteosi del nostro senso di certezza, del nostro essere trans. Il vecchio Adamo è finito; alla Fine della Storia, il superuomo, l’oltre-uomo, il trans-uomo incarna la lettura gnostica del Vangelo cristiano. Siamo entrati nella parusia, complimenti della macchina, verità di tutti gli dei. Ci stiamo inoltrando in un paradiso per il fatto stesso di essere entrati nella macchina, rendendoci conto che è ognuno di noi a decidere se ci si trovi in paradiso o all’inferno: è il nostro atteggiamento che conta, per quanto strettamente entro i parametri della macchina; la macchina che ci ha risvegliati a questa verità eterna, che la vita son sia altro che un videogioco in cui possiamo scegliere chi o cosa siamo, la nostra identità, a patto ovviamente di seguire le regole della macchina; a condizione che si ami la macchina, con tutto il cuore, con tutta la nostra anima e con tutta la nostra la mente.
La macchina ci ha insegnato che tutti i “valori” sono virtuali; che il male è semplicemente una mancata integrazione nella macchina; che l’importante nella vita non è se si creda in Dio o nel diavolo; cio che conta è credere in qualcosa, qualunque cosa, purché la credenza sia costituita nell’ambito della macchina. Perché la macchina è la grande produttrice dei sogni e tutti debbono imparare ad amare i sogni come verità del reale, di ciò che un tempo si cercava come eminentemente reale. Risvegliarsi significa accogliere i sogni come realtà ultima. Tale il nostro “Final Fantasy”, in cui il virtuale è il reale smascherato. La vita come videogioco.
Cosa è accaduto all’autonomia del “sé individuale” della prima modernità? È ancora lì, anche se ora sappiamo che è virtuale, vale a dire che è il prodotto della macchina. Tutto è reale virtualmente. Ma la macchina in quanto tale? La macchina è il destino stesso, l’imperativo di sognare. Nulla in sé (nulla di “sintetico” per rifarci ad una nozione kantiana), aldilà di una logica, un Verbo nuovo, quello digitale che ci dice di amare i nostri sogni, non discriminando tra sogni buoni e sogni cattivi, ma amando il sogno stesso; perché sognare in quanto tale è bene. L’unico incubo sarebbe la cessazione dei sogni: la vita fuori della macchina.
Il discorso delle epoche precedenti non può essere altro che un’eco dei nostri stessi tweet. Una versione in definitiva noiosamente prosaica rispetto alla poesia propria della nostra epoca. Abbiamo imparato a semplificare la prolissità del passato convertendola in una particella sonora, un’interiezione primaria, un lampo che ci dice che siamo qui adesso e che questo è tutto ciò che conta. Tweeto ergo sum.
Se in epoche pre-cartesiane, il sé (l’ego o “io”) rimase maschera di problemi fondamentali, oggi gli unici problemi pubblicamente riconosciuti sono quelli superficiali o tecnici. Il soggiacente (si pensi all’hypokeimenon di Aristotele) è stato o perlomeno è in procinto di essere digitalizzato completamente nella macchina. La macchina che sta riducendoci a entità digitali; la macchina che ci sta trasformando in numeri. Non semplicemente attribuendoci dei numeri (come se noi ne fossimo meri portatori), ma identificandoci con i numeri stessi, come preciserebbe prontamente il dottor Joseph Mengele.
L’over/über o trans-umano non si impose come mera maschera di un volto vero, ma come il vero volto stesso, premesso che rimanga nella macchina. L’uomo-trans dovrà essere la verità ultima sia del Primo che del Secondo Adamo biblico; portatore polifemico di pronomi, o meglio rivelazione di un pronome vivente, dietro il quale non si cela nessuno. Il pronome autoreferenziale e stand-up (si pensi al commediante angloamericano) sostituisce la classica res ipsa, “la cosa stessa”. Abbiamo “demitizzato” o “de-essenzializzato” il pronome, liberandolo dal mito di qualsiasi alterità sostanziale. Emerge così un pronome “gender-fluid” che, come il proverbiale fiume di Eraclito, ritroviamo in un flusso continuo, come sempre, grazie alla macchina.
Siamo liberi come pronomi fluidi: liberi da ogni paura, da ogni senso di vergogna, dal pensiero stesso. A meno che per pensiero non si intenda un ripensamento (un over-thought), un trans-pensiero o un’eco meccanica del pensiero. Forse una pretesa di pensiero? Qualora fosse tale, rimarrebbe comunque buona, dacché nel nostro mondo virtuale la pretesa dell’essere è l’essere stesso. “Essere o non essere”, non è più un problema. “Non essere” ossia sembrare è tutto ciò che conta, ora. Fintantoché tutti crederemo, o che perlomeno fingeremo con successo di credere, tutto andrà per il meglio. Non chiederci in cosa crediamo; la domanda sarebbe inappropriata, come il politically incorrect. Non dovresti chiederti in cosa crediamo più di quanto dovresti chiederti quale sia il senso ultimo della libertà che invochiamo. Perché il significato è determinato dalla macchina ed è finalmente la macchina stessa che ci permette di recitare, certo, non più vere e proprie odi alla Beethoven, ma tutto ciò che in definitiva conta o dovrebbe contare oggi, cioè segni effimeri di approvazione o disapprovazione, come pollici digitali all’insù o all’ingiù, in entrambi i casi indici di attenzione: perché dobbiamo essere tutti attenti alla causa che è la macchina stessa, colossale anfiteatro apocalittico.
A conti fatti, la libertà che invochiamo in quanto transumani appartiene alla macchina, alla nostra macchina. Tutto il resto è mera licenza, revocabile ad ogni istante data la logica meccanica (espressione tecnologica di volontà di potenza) che vorrebbe sostituirsi alla classica provvidenza divina. Siamo stati indotti a concepirci in termini di io puri, “fantasmi nella macchina” (per riprendere l’espressione, ghost in the machine, introdotta nel 1949 da Gilbert Ryle), senza notare che è stata la macchina stessa a guidarci sin dall’inizio: una logica moderna di cui le nostre macchine tangibili non sono altro che un’ombra “oggettiva”. Cartesio non ci ha forse insegnato che “penso dunque sono”? Affermiamo il nostro essere come “coloro che pensano”, ma lo facciamo in virtù di una logica meccanicista. “Mi si dice meccanicisticamente che io sia ciò che pensa, ergo in machinam sum: quindi il mio essere è in definitiva determinato dalla macchina”. Se la mente è propriamente nella macchina, allora perché mai chiedersi – come mai poterlo fare sensatamente, daltronde – cosa vi sia al di fuori della macchina o della sua logica?
È stata la logica della macchina o una logica meccanicista a confinare il pensiero entro i limiti di un ego moderno o autonomo, concedendogli una libertà illimitata, senza mettere in evidenza una clausola scritta in piccolo nel nostro contratto: che la libertà illimitata sarebbe possibile solo entro i confini della macchina. Extra machinam nulla salus. Come un serpente nell’Eden, la macchina si è celata nell’oscurità, nell’ombra dell’intelletto, per proiettare una conoscenza nettamente separata dalla sua fonte vivente; così che una nuova vita potesse fondarsi su basi del tutto artificiali: una vita basata sulla propria ombra; quale divinità babelica costruita sulla morte, ossia assenza di Dio.
Qui ci troviamo, oggi, in una Torre che rappresenta l’assenza di Dio, la Torre che si nutre di quell’assenza per mascherare la propria irrealtà. Il pensiero stesso ha firmato un “contratto sociale” per certificarsi come Sé illuminato, o più recentemente “woke”. Il prezzo faustiano da pagare per la certezza conquistata? La reclusione del pensiero sotto l’impero della macchina, ossia dell’ombra del pensiero stesso. Cercando la salvezza nella propria assenza, il pensiero si svuotò inavvertitamente nel progetto di costruire la propria trappola sepolcrale, nella quale attualmente si lusinga sprofondando in un totale ed irrevocabile oblio.