Il nemico invisibile e una grande visione del mondo
di Francesco Bellanti
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LA CADUTA DEL TEMPO
In tutta la storia umana, ma soprattutto nei tempi moderni, l’uomo ha sempre vissuto alla ricerca del nemico. Questo nemico negli ultimi centoventi anni di volta in volta è stato l’ebreo, il bolscevico, il comunista, il fascista, il nazista, l’omosessuale, il musulmano, il negro, lo zingaro, l’emarginato, l’apolide senza patria, il mongolo, il barbaro, il cinese, il capitalista, il massone, l’iniziato di società segrete e così via. E il nemico è totale, è il male della storia, il fantasma malefico che va di mondo in mondo. L’ebreo o il musulmano, l’immigrato clandestino, diventano veramente la sozzura, la ripugnanza, il verme, il parassita, il tumore.
In realtà, il nemico è spesso invisibile, sfuggente, indeterminato, e siamo noi che cerchiamo di dargli un volto. Grandissimi scrittori nel Novecento hanno affrontato questo problema, pensiamo a Pirandello e all’uomo senza identità sperduto nella società di massa, all’inetto e all’uomo senza qualità di Svevo e Musil, pensiamo a Kafka, che forse meglio di tutti ha descritto nelle sue opere la tragedia dell’uomo travolto da meccanismi sociali assurdi e incomprensibili (Il processo), trasformato in modo inspiegabile in realtà “altre” (La metamorfosi), condannato a rifugiarsi in una tana (dal racconto omonimo La tana) per ripararsi da un nemico sconosciuto e invisibile, forse inesistente. La tana – che ha come protagonista un uomo, o forse un animale – è un racconto terribile, angosciante, di questo scrittore geniale, è allegoria dell’angoscia umana di chi ha paura di un nemico invisibile e appunto per questo terrificante.
Angoscia dell’uomo che, terrorizzato da un nemico oscuro ed esterno di cui non conosce né armi né la natura, costruisce instancabilmente corridoi, gallerie e labirinti,
vicoli ciechi e camminamenti che portano nel nulla, e trincee e altre gallerie sconsiderate, per disorientare l’eventuale attacco del nemico arcano. E tutto questo gli procura più angoscia, perché ogni innocuo sibilo diventa un pericolo, e alla fine la stessa solitudine diventa una tragedia. Perché questa è la tragedia, la paura della propria solitudine, nell’attesa – come nel Deserto dei Tartari di Dino Buzzati – del nemico che non c’è, che può venire da un momento all’altro, o forse mai.
Il messaggio è che noi viviamo oggi nella solitudine del nostro mondo che non riesce a vedere l’altro mondo, in un silenzio e in una solitudine che fanno più paura del fantomatico nemico.
In fondo, la tana non è il rifugio dal mondo ma la trappola della famiglia pirandelliana, dell’oppressione, dell’incomunicabilità con l’altro. La tana è l’illusione di avere una libertà che non c’è, di possedere sé stessi, è lo straniamento. La tana è l’allegoria di una condizione umana attanagliata dalla paura dell’altro, una paura che si trasforma in angoscia, e che può avere una sola soluzione, quella di scavare dentro di noi per trovare la risposta alla minaccia terribile che noi crediamo venga da fuori ed è invece dentro di noi. Non fare i conti con la nostra angoscia ci conduce solo alla deriva di una solitudine che mai ci darà pace.
L’uomo oggi vive nell’angoscia, che è il terrore della catastrofe, la minaccia senza nome, la sensazione dell’accerchiamento, il futuro che non può essere governato. L’angoscia è una tragedia perché mette in discussione il significato stesso dell’uomo, la sua presenza nella storia. L’angoscia è la disposizione fondamentale che ci mette di fronte al nulla, e l’uomo ha paura dell’essere nel nulla, di cadere o di tornare nel nulla. L’angoscia è una conseguenza dell’affermazione della tecnica, della industrializzazione e della burocrazia, della società di massa, che riduce l’uomo a un anonimo elemento di un meccanismo infernale. Abbiamo detto paura, ma l’angoscia non è la paura, l’angoscia è il sentimento della caduta nel nulla, della lotta finale, dell’apocalisse del tempo. L’angoscia è il virus sconosciuto, l’attacco alieno, il cataclisma cosmico che può giungere dal vuoto, dal nulla, da tempi e territori inesplorati. L’angoscia, sostiene il grande filosofo tedesco Martin Heidegger, è fondamentalmente diversa dalla paura. Nell’angoscia l’uomo è disorientato, perché essa rivela il niente. E che l’angoscia riveli il niente, l’uomo stesso lo attesta non appena l’angoscia se n’è andata. La paura è invece diretta verso qualcosa di determinato, di riconoscibile, di materiale. L’uomo – per la sua fragilità, per i suoi fallimenti, per trovare un capro espiatorio – ha bisogno di trasformare l’angoscia in paura, e la paura si materializza nel nemico. Perché l’angoscia paralizza, fa perdere la testa, è l’emozione primordiale devastante che deve trovare uno sfogo, una via d’uscita, ecco perché si deve inventare un nemico.
Sono i politici che profittano di questo bisogno elementare dell’uomo di dare un’essenza alla propria angoscia e di trasformarla nella paura di qualcosa di visibile, di materiale, essi si servono dell’angoscia e la trasformano in qualcosa di più barbarico, di rassicurante – il nemico, appunto, che deve avere un’identità.
In questo modo, le tensioni vengono scaricate all’esterno, e l’uomo non si misura coi suoi “simili”, proietta fuori dalla sua società la propria sconfitta, la annulla, la nasconde. Il nemico è ritenuto responsabile di tutto, della crisi economica, del regresso culturale, del caos della società, del proprio disordine interiore.
Avere un nemico viene incontro – anche questo sanno i politici – ad altre esigenze dell’uomo, che sono quelle di giustificare i propri fallimenti, nel lavoro, nella vita affettiva, negli studi, nei rapporti con gli altri.
Tra i politici più scaltri che – per conquistare e mantenere il potere – si sono serviti della paura del nemico furono Hitler, Mussolini e Stalin. Mussolini fece leva sul “pericolo rosso” che terrorizzava i proprietari terrieri e gli industriali, sulla “vittoria mutilata” e sul malcontento del ceto medio piccolo-borghese, Hitler portò il mondo alla catastrofe canalizzando l’angoscia del suo popolo verso la paura, e questa diventò via via paura dell’accerchiamento, paura dell’ebreo, del negro, del gangster americano, del francese imbastardito, del comunista, che volevano distruggere la Germania. Il bolscevismo era il male della storia e fu personificato in Stalin, che a sua volta orientò il suo popolo verso il ripudio di ciò che veniva dall’Occidente.
I politici di oggi si sono appropriati di questi meccanismi di propaganda, e l’esperienza della storia dovrebbe farci riflettere su di loro. Nessun partito fatto di uomini detiene la verità assoluta. Bisogna lottare sempre contro il potere, diceva Sciascia, perché dove c’è il potere c’è denaro, dunque probabile corruzione. Invece di guardare alla visione economica e sociale, all’identità culturale e al programma politico e amministrativo dei partiti, l’uomo che vive di pancia guarda solo all’esistenza del nemico, il nemico verso il quale canalizzare le pulsioni più nefaste e maleodoranti, più sordide e putrescenti, espressione dei fallimenti della propria esistenza. Purtroppo accade che, appena viene sconfitto il nemico, finché perdura l’angoscia, l’uomo cerca e chiede un nuovo nemico, perché deve trasformare l’angoscia in paura, e perciò non può stare senza un nemico. Ed è un circolo vizioso, angoscia-paura-nemico. E allora la politica che si trasforma in potere per avere il consenso costruisce intorno all’uomo un bunker per dargli l’illusione di potersi difendere dal nemico, una tana kafkiana in cui l’uomo crede di ripararsi dal nemico ma che in realtà non gli fa vedere altro, e lo lascia sempre nel buio.
Che fare? La prima cosa da fare è che oggi viviamo in un tempo apocalittico senza più valori, il tempo della fine delle grandi ideologie, il declino dell’Occidente. Viviamo in un tempo satanico, indefinibile, arcano, misterioso, oscuro, minaccioso, approdo anche delle nostre incertezze, del nostro smarrimento. Invece di dare la caccia al nemico invisibile, dobbiamo scacciare dentro di noi la paura e l’angoscia, creare un nostro sistema di valori, saldo, fermo, un territorio che ci ripari dalla sciagura, dal disastro, dal baratro, dalla catastrofe. Dalla caduta nel tempo. Dobbiamo affidarci a una Weltanschauung economica e sociale poderosa che viene dal passato e che propone uguaglianza, giustizia, libertà, che giunge dalle esperienze della storia universale, dai sentieri tracciati dai grandi, per evitare tutto ciò che conduce al male e alla rovina. Questi sentieri non conducono al nazismo, al fascismo, al comunismo, al capitalismo teso solo al profitto, allo sfruttamento, all’omologazione, alla creazione di comportamenti da manipolare per l’arricchimento di pochi. Neanche le categorie economiche e politiche di oggi – diciamo quelle dominanti nelle attuali democrazie liberali secondo il concetto di fine della storia di Francis Fukuyama – non sono più adeguate ai bisogni dell’umanità.
Dobbiamo affidarci, soprattutto per gli aspetti etici e civili, ai valori e alla dottrina sociale di una religione che ha creato e salvato più volte l’Occidente, il Cristianesimo, ultimo e definitivo baluardo di difesa dal disvalore che porta all’abisso. Diffondere il suo Verbo senza la necessità di crearsi un nemico da odiare, perché il nemico spesso è dentro di noi. Non guardiamo sempre nell’abisso. Per dirla con Nietzsche, “Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se tu scruterai a lungo dentro l’abisso, anche l’abisso vorrà scrutare dentro di te”. La salvezza non viene dalla ricchezza e dall’avere, dall’odio, ma dalla pace, dalla povertà, dall’amore, dalla compassione, nella fraternità, nella solidarietà. Viene dall’unica vera religione, da uomini che vissero e predicarono felici negli eremi solitari, nei deserti, nelle foreste. Da San Francesco, da Gesù Cristo. Chi può salvarci dalla caduta del tempo.
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