Nella Divina Commedia Dante si ispirò a una vera visione?
di Andrea Sarra
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IPOTESI SULLA DIVINA COMMEDIA
Molti santi – e anche alcune persone che condussero una vita ascetica – hanno avuto il permesso da Dio di visitare l’Inferno e il Paradiso, quei luoghi dell’Aldilà dove – per i cristiani – si può andare solo dopo la morte corporale.
La descrizione che è stata fatta di questi luoghi, spesso sembra essere quasi una fotocopia. Secondo alcuni, infatti, ciò dipenderebbe dal fatto che Dante Alighieri, con la sua “Divina Commedia“, avrebbe influenzato l’idea di ognuno sull’Inferno, sul Purgatorio e sul Paradiso.
Indubbiamente, non si può negare che quest’opera abbia inciso profondamente sul pensiero e sulla visione del mondo nel corso dei secoli, come anche nel campo della cultura, della filosofia e dell’arte.
Viene allora da domandarsi se anche Dante Alighieri possa essere stato influenzato nel suo pensiero da qualche opera scritta da altri autori nei secoli precedenti – come sostengono alcuni – o invece se la sua opera possa essere stata frutto di un’ispirazione divina o magari una pura invenzione.
Secondo una teoria sostenuta dal gesuita Miguel Asín Palacios (1871 – 1944) – religioso storico ed arabista – la Divina Commedia di Dante Alighieri sarebbe frutto di un plagio del Corano.
Infatti nel Corano si parla del “Isrāʾ e Miʿrāj”, cioè del viaggio durante il quale Maometto sorvola l’Inferno con un angelo e vede le torture inflitte ai dannati. Qualcosa simile, dunque, a quello che Dante racconta nella Divina Commedia.
Secondo altri invece, Dante Alighieri avrebbe copiato il testo dal titolo del “Libro delle Tre Scritture” di Bonvesin de la Riva, scritto circa 50 anni prima della Divina Commedia. I motivi addotti a sostegno di tale tesi sono alcune caratteristiche comuni ai due scritti.
Entrambi i libri narrano della vita oltre la morte: dove finirà l’anima una volta morto il corpo? Indagano sulle miserie umane, sul peccato, la dannazione e la redenzione.
I due poemi sono suddivisi in tre parti: Inferno, Purgatorio, Paradiso.
Sia Dante Alighieri che Bonvesin de la Riva sono influenzati dalla spiritualità francescana ed entrambi gli autori castigano le anime seguendo la legge del contrappasso.
Infine, Bonvesin de la Riva utilizza un dialetto lombardo mentre Dante Alighieri usa il fiorentino: nella loro epoca, invece, era usato prevalentemente il latino.
Vi è infine una ulteriore ipotesi, forse la più attendibile.
Dante Alighieri, tra il 1290 e 1297, si recò a Napoli ben tre volte. A quell’epoca, per andare da Firenze a Napoli, la via più veloce era la via Latina che passava per Cassino.
Sicuramente, in una delle sei volte che transitò per Cassino, Dante avrà visitato l’Abbazia di Montecassino. In quel luogo suggestivo, forse, sarà venuto a conoscenza della storia di Alberigo da Settefrati, un monaco cristiano nato intorno al 1100 nel castello di Settefrati, nella Valle di Comino. Pur di origini nobili, egli rinunciò agli agi della sua vita per divenire monaco e visse in modo umile ed austero all’insegna della penitenza, camminando sempre a piedi nudi.
Nel “Chronicon Casinense” Pietro Diacono, monaco capo dell’archivio e della biblioteca dell’Abbazia, racconta la storia di tale Alberigo da Settefrati il quale, all’età di 10 anni, era rimasto in coma per una malattia. Fu portato all’Abbazia di Montecassino e, seppur dato ormai per morto, misteriosamente dopo aver trascorso nove giorni e nove notti in stato comatoso, si riprese e raccontò in maniera molto dettagliata ciò che aveva visto.
Egli raccontò di essere stato sollevato da una colomba e poi fu portato alla presenza di S. Pietro il quale lo accompagnò – insieme a due angeli – dapprima all’Inferno, dove ebbe modo di vedere come i dannati fossero condannati in base alla gravità del peccato commesso e alla loro età, poi al Purgatorio e infine al Paradiso.
Svegliatosi dal coma, Alberigo intraprese poi la vita religiosa per diventare monaco.
Si può dunque pensare, a questo punto, che la descrizione dell’Aldilà che si legge nel poema “La Divina Commedia” non sia frutto dell’immaginazione di Dante Alighieri, e quindi falsa (come sosterrebbe qualcuno), bensì la fedele descrizione di una visione di uno stato di estasi di Alberigo da Settefrati.