L’etica della parola
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VIVIAMO IN UNA DIMENSIONE DI VERO E PROPRIO INQUINAMENTO COMUNICATIVO
“E gli uomini cambiarono il significato abituale delle parole in rapporto ai fatti secondo il modo in cui ritenevano d’interpretarle. L’audacia irragionevole fu ritenuta coraggio pieno di fedeltà verso i compagni politici, l’esitazione prudente divenne viltà con una bella apparenza, la moderazione, il manto che copriva la codardia, e l’intelligenza in ogni cosa, ignavia sistematica, l’ardore folle fu aggiunto alle caratteristiche virili, e il riflettere attentamente ai fini della sicurezza fu considerato un pretesto ragionevole per rifiutarsi di agire”: è quanto scrive Tucidide (III,82,4) per spiegare come dal cambiamento delle parole aveva compreso lo scoppio della Guerra del Peloponneso. In seguito, Aristotele (Politica 1252a) con le sue definizioni di ‘uomo’ quale ‘zoòn politikòn’, uomo politico, e ‘zoòn lògon echòn’, uomo dotato di parola: l’uomo è parola perché essa è elemento essenziale alla creazione di uno spazio di intelligenza collettivo, senza il quale la comunità vivrebbe in modo gregario e non avrebbe il senso del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Poi, per venire a tempi più recenti, pensiamo a Jacques Lacan, che creò la forma linguistica ‘parlètre’ a voler significare che “l’uomo è la parola e che la parola è l’uomo” e a don Milani che chiama uomo chi è padrone della parola (Lettera a Bernabei, 1956) per cui il rovello della sua vita fu la passione per il diritto alla parola, quale strumento irrinunciabile e indispensabile di riscatto e di liberazione, giacché è grazie alla parola che si può diventare cittadini compiutamente liberi.
E allora in un tempo invaso da info e fake news che generano informazioni confuse e mistificatorie, possiamo parlare di etica della parola? Frequentemente, nella lettura o nell’ascolto, l’uso della parola è banalizzata, manipolata, strumentalizzata, violentata, usata come “l’olio di ricino del duemila”. Cosa sono le false notizie, contro le quali la “scuola deve fornire non una cassetta, ma un’intera officina di attrezzi”, se non la traduzione in termini digitali dell’uso cinico e strumentale della parola?
Proprio vero, viviamo in una dimensione di vero e proprio inquinamento comunicativo con la conseguente tentazione di ritirarsi come monadi dove si ascoltano solo quelli che la pensano allo stesso modo, di contro a quanti si lasciano stregare da slogan che hanno un grande potere semplificatorio e mistificatorio. E il rischio reale è che in questo flusso continuo di parole il primo bene comune che viene perduto è la stessa idea di sfera pubblica. Basti pensare alla nostra politica che è sempre più parolaia ma incide poco.
A piena ragione Ivano Dionigi, professore emerito di Lingua e Letteratura Latina presso l’Università di Bologna, nel suo bel saggio ‘Benedetta parola. La rivincita del tempo’ evidenzia il rischio di capirci sempre meno a causa dell’impoverimento del lessico a fronte del dilagare dei media e, dunque, “le parole oggi seguono una sorta di sciagurata autonomia rispetto alle cose… La parola è salvifica, redentrice, ma anche dannatrice, simbolica in quanto unisce, diabolica in quanto divide”, per cui si avverte il bisogno di una vera e propria ecologia linguistica.
“Oggi abbiamo bisogno di riscoprire la parola, che deve rivelare la cosa, mentre sta avvenendo il contrario, cioè noi oggi trucchiamo la realtà con parole finte. Il mercato nero è una realtà brutta e allora la chiamiamo economia sommersa, la disoccupazione cerchiamo di abbellirla chiamandola flessibilità. Questo stupro della parola ha invaso anche il livello istituzionale: le parole dignità, pace e politica sono le parole più belle, ma la politica è stata ridotta a contratto, la pace a condono fiscale, la dignità ad un decreto”.
Dunque, come riscoprire la bellezza di una narrazione che sappia, invece, rammendare in tempi così disorientati, i legami sfaldati a causa dell’azione corrosiva di un soggettivismo estremo che ci obbliga ad una revisione delle nostre ermeneutiche categorie interpretative?
È proprio attraverso la parola che è possibile generare un senso, stabilire e consolidare relazioni, intraprendere percorsi comuni superando dialetticamente possibili divergenze, costruire alleanze.
La parola è elemento costitutivo che fa di noi degli esseri umani. È ciò che ci permette di comunicare, di raccontare e di raccontarsi, di abitare insieme la civitas, di sperimentare relazioni cooperative e inclusive che generano valore sociale, dunque anche di attivare processi trasformativi della realtà. Dobbiamo riscoprire le parole con il “cum”, comunicare viene da cum-munus, è “mettere insieme i doni”, cum testari, contestare, è “testimoniare insieme”, cum-petere, competere, significa andare nella stessa direzione.
La parola, pronunciata responsabilmente, esprime tutte le abilità nel rispondere delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano. Essere responsabili significa essere nelle condizioni di rispondere, di legarsi all’altro con lealtà, di essere di parola, di rispondere di sì al bene; significa aver cura dell’altro in quanto, come dice Heidegger, “ognuno è quello che fa e di cui si cura”.
Allora, osiamo fraseggi dall’alto profilo etico, che ci raccontino dell’altro senza negare la dignità. Un proverbio africano così recita: “la ferita provocata da una parola non guarisce”.
Si sperimenti una nuova alleanza nell’ascolto e nella mediazione, modalità per evitare guerre di opinioni, da fedayyin divisi in contrapposte fazioni.
In questo momento storico-sociale di disincanto affettivo per il nostro Paese, ritengo sia eticamente responsabile un invito a narrazioni prudenti che sappiano farsi prossimo, che non alimentino odio. Un auspicio ragionevole a lavorare ad una pedagogia della comunicazione educativa che ci orienti a vivere ogni relazione responsabilmente.;
Per curare la complessità di questi giorni, abbiamo bisogno di un linguaggio rinnovato, che curi le nostre relazioni lacerate da continui ossimori. Un linguaggio capace di legare l’estetica all’etica delle parole.
Penso alle persone più vulnerabili, dagli anziani patrimonio di memoria e saggezza, ai tanti abusati nel corpo e nell’anima, a tutti coloro che sperimentano solitudine e smarrimento: non manchino parole spezzate insieme.
Così diceva Jack Gilbert: “Sogno vocabolari perduti che possano esprimere alcune cose che non possiamo più dire”.
Ecco voglio immaginare nuovi vocabolari nell’ hic et nunc del nostro tempo, responsabilmente e con ritrovata fiducia, superando sospetti, paure e chiusure per assumere il coraggio liberante dell’incontro.
C’è bisogno di pensare il linguaggio, ovvero di immaginare una nuova forma di vita: decidere di aprire all’altro e al diverso non solo le braccia ma anche il cuore e l’intelligenza, sentire l’accoglienza come ginnastica quotidiana che aiuta a trasformare la lontananza in prossimità, la mancanza in presenza, ritrovarsi in compagnia degli uomini animati da uno spirito di dialogo che apre alla cultura della reciprocità disponibili ad accogliere regioni di senso, di speranza, di futuro. In fondo, come conclude Ivano Dionigi, “la parola custodisce e rivela l’assoluto che siamo”. È la parola che ci offre la capacità di mostrarci e di interagire, ma anche di renderci strumento di apertura all’altro e, dunque, di dialogo con l’altro, un dialogo inteso come confronto in cui poter incrociare e attraversare (dia, attraverso) la parola (lògos) e la ragione dell’altro.