È tornato di moda il mito del “buon selvaggio”

È tornato di moda il mito del “buon selvaggio”

di Matteo Castagna

VI SONO INDIVIDUI CHE RITENGONO D’ESSERE PERFETTAMENTE CATTOLICI ADERENDO AL “MITO DEL BUON SELVAGGIO”

Ciclicamente torna di moda il cosiddetto “mito del buon selvaggio”. Il libro del Dalai Lama, scritto con Greta Thunberg, pare avere come retroterra ideologico, più spinto rispetto al semplice panteismo pagano, questa concezione dell’uomo che viene codificata nell’Illuminismo, ma è propria di ogni moderna concezione dell’uguaglianza.

Anche in ambiente cristiano, in epoca di secolarizzazione, l’influsso di determinati principi ha creato non poca confusione tra i credenti. Alcuni, dopo aver apostatato da Cristo e dalla Sua unica Chiesa, Cattolica e Apostolica, si sono rifugiati in religioni e filosofie che fanno propria questa subdola amenità. Ancor peggio, vi sono individui che ritengono d’essere perfettamente cattolici aderendo al “mito del buon selvaggio”, soprattutto se invogliati da azioni ambigue, a tratti, sconcertanti.

Secondo gli illuministi alla Rousseau, l’uomo, liberato dalle incrostazioni del potere, userà correttamente e spontaneamente, la sua ragione per procedere alla costruzione di uno Stato in cui le leggi siano basate sul rispetto dei diritti naturali, laddove lo spontaneismo animalesco, determinato dall’ erronea concezione per cui l’uomo nascerebbe buono, spinge perfino a giustificare l’impurità contro-natura come istinto naturale.

Il mito del “buon selvaggio”, basato sulla convinzione che l’uomo in origine fosse un “animale” buono e pacifico, sarebbe stato corrotto successivamente, dalla società e dal progresso.

Nella cultura del Primitivismo del XVIII secolo, il “buon selvaggio” era considerato più autenticamente nobile dell’uomo, che era il risultato dell’educazione civilizzata. La bontà sarebbe insita negli esseri umani – come affermato nel Settecento da Anthony Shaftesbury – che incitava «a cercare quella semplicità dei modi, e quel comportamento innocente, che era spesso noto ai meri selvaggi; prima che essi fossero corrotti dai nostri commerci».

Il mito del buon selvaggio fu alimentato dall’azione missionaria di una parte dei Gesuiti, iniziata nel XVII secolo con l’ evangelizzazione delle popolazioni indigene, allo scopo di creare una società con i benefici e le caratteristiche della cosiddetta società cristiana europea, però priva dei vizi e degli aspetti negativi. Gli indios apparivano adatti per questo progetto.

Tra i nemici dichiarati di questi gesuiti, secondo Wright (2004, p.18-20), c’erano i “protestanti della Riforma, i filosofi del XVIII secolo e i liberali del XIX secolo” nonché Napoleone Bonaparte e Thomas Jefferson, tra gli altri.

La Società di Gesù non fu creata come reazione cattolica alla Riforma, ma sarebbe presto diventata il suo braccio destro nella lotta per la Controriforma nelle “Americhe (dal Canada al Brasile), in Africa e in Asia (dal Congo alle Filippine)”. Dal XVIII secolo, sulla base delle teorie illuministiche, sarebbe culminato in divieti nazionali in molti paesi e repressioni diffuse in tutto il mondo. Infine, nell’era contemporanea, “la Compagnia avrebbe affrontato gli avvenimenti e le eredità di Marx, Darwin e Freud e avrebbe cercato di ridefinire la Chiesa cattolica”.

Nella sostanza, fatte salve alcune esagerazioni e alcuni abusi, la demonizzazione della Chiesa Cattolica come “mater et magistra”, che esegue il mandato di Gesù d’ “evangelizzare tutte le genti” era ed è figlia dell’anticlericalismo illuminista e della propaganda protestante.

Wright, nel suo lavoro “I gesuiti – missioni, miti e storie” (2004) conclude affermando che sia l’agiografia – che cataloga la vita dei martiri considerati santi – sia le leggende nere sui gesuiti sono, in un certo senso, esagerate, perché c’erano religiosi buoni e cattivi, e alcuni sono entrati nell’ordine di servire effettivamente Cristo, altri per servire se stessi e promuovere la loro carriera”.

Joseph de Maistre (1753-1821) così scrisse tra il 1794 e il 1796 in un testo, rimasto incompiuto, dal titolo “De l’état de nature”, che possiamo leggere grazie alla traduzione di Francesco Boccolari (1984): de Maistre demolisce in modo implacabile (definisce lo scritto di Rousseau un’idiozia), ma anche con molta ironia, il pensiero del ginevrino Rousseau, dimostrando la naturale socialità dell’uomo e l’inesistenza del buon selvaggio.

Anzi “più si consulteranno la storia e le tradizioni antiche, più ci si convince che la condizione dei selvaggi costituisce una vera e propria anomalia, un’eccezione” (…) (pag.53), “Se i popoli antichi fossero vissuti per secoli in uno stato di abbrutimento, non avrebbero mai potuto immaginare il regno degli dei e le comunicazioni divine. (…) Avrebbero esaltato questo stato primitivo” (pag.52).

L’uomo è intelligenza, ragione, volontà, tutte potenze indebolite, e specialmente quest’ultima – conclude de Maistre – è particolarmente “storpia” ma riesce sempre a trovare le leggi “della giustizia e del bene morale (…) iscritte nel nostro cuore a caratteri indelebili”. Se non si crede al peccato originale, è facile cadere nell’ “idiozia” (cit. De Maistre) del “buon selvaggio. Il buon cattolico, altresì, deve oggi lavorare per il trionfo della legge naturale, mondata dalle deformazioni partitiche o di lobby, che è la grande assente nel terzo millennio.

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