Vele di Scampia e altri ecomostri
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IL MENEFREGHISMO DELLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI E L’ARROGANZA DEGLI ARCHITETTI IDEOLOGI
La tragedia di Scampia, dove ci sono stati tre morti e dodici feriti a causa di un crollo nel fatiscente complesso-ghetto di edilizia popolare de Le Vele, indigna e invita a riflettere.
Innanzitutto indigna per l’evidente menefreghismo e l’abbandono in cui certe amministrazioni pubbliche – guarda caso di sinistra -, che in campagna elettorale si spacciano per paladine dei diritti dei più deboli e delle cause sociali, lasciano le fasce più povere della popolazione. Certi Comuni – ancora una volta, guarda caso, di sinistra – stanziano cifre importanti per sovvenzionare i gay pride e le più squinternate iniziative “culturali”, o si fanno in quattro per accogliere gli immigrati clandestini elargendo loro ogni aiuto possibile, ma poi si dimenticano dei propri cittadini, lasciati a vivere nel degrado di complessi residenziali che cadono a pezzi a causa di una burocrazia elefantiaca, che le suddette amministrazioni non si danno pena di snellire, e della cronica mancanza di fondi, che però magicamente saltano fuori quando c’è da compiacere le proprie clientele.
In secondo luogo invita a riflettere sul fallimento delle ideologie che si sono fatte strada tra certi architetti e scuole di progettazione. Come il modernismo, che ha portato alla nascita di autentici eco-mostri, come appunto le Vele di Scampia a Napoli, il Serpentone del Corviale a Roma, il quartiere Zen a Palermo; autentici sistemi concentrazionari per i poveri.
Come ha spiegato in un suo saggio del 2006 l’architetto Sergio Porta intorno a simili orrori architettonici non si gioca soltanto la difesa ideologica del modernismo, ma la partita di un corporativismo intellettuale che non può ammettere autocritica e che si arroga il diritto di applicare le proprie “idee geniali” sul corpo dei cittadini-cavie. E quando le idee falliscono la colpa è della cattiva realizzazione, o agli abusivi, o della criminalità, come se non esistesse alcuna relazione fra il progetto e quel che lo ha seguito.
E non si pensi che certi nefasti esercizi di arroganza progettuale appartengono al passato, a quegli anni Sessanta e Settanta che hanno visto l’Italia trasformarsi in un Paese similsovietico, con squallide periferie di enormi e anonimi palazzi, perchè ancora oggi nei nostri borghi e città imperversano ville, villone e villette, ma anche condomini, a forma di cubo o varie combinazioni di cubi, dal tetto piatto, con finestroni orizzontali, le pareti lisce, senza un solo ornamento, senza una sola decorazione, rigorosamente di un biancore abbagliante e allucinante. Sembra che gli architetti si siano messi tutti d’accordo e, colpiti da un’amnesia collettiva, abbiano dimenticato migliaia di anni di un’architettura fatta da una incredibile ricchezza di stili, di forme tradizionali e innovative.
Un architetto paesaggista e storico dalla formazione accademica e professionale internazionale, Gilberto Oneto, così scriveva: «le case sono diventate scatole (“macchine per abitare”, le ha chiamate Le Corbusier), sono spariti i tetti a falde, le persiane sono state sostituite dalle tapparelle, le finestre che erano diritte (diceva Guareschi: “Le finestre hanno la loro brava simmetria e sono messe tutte per il verso dei cristiani, col lato più corto in basso perché i cristiani sono tutti col lato più corto in giù e il lato più lungo in piedi”) sono state messe per il lungo, i mobili, come le case, sono diventati bianchi…».
In queste costruzioni sopravvive l’ideologia costruttiva che ha portato agli ecomostri summenzionati; quel movimento moderno e dell’architettura funzionalista secondo cui «Il bello non esiste. È bello ciò che è funzionale». Narra Witold Rybczynski, storico dell’architettura che uno dei padri del funzionalismo, l’architetto viennese Adolf Loos, sosteneva che «l’ornamento è un delitto»; e che in un saggio del 1908 rivendicò l’abolizione di ogni orpello dalla vita quotidiana, da quelli architettonici a quelli degli interni delle abitazioni. Il “delitto” dell’ornamento consisteva nello sprecare le risorse della società, sia in termini di denaro sia di tempo, in qualcosa che Loos riteneva superfluo e arcaico.
Insomma assistiamo ovunque oggi all’irrompere del brutto e dell’informe, che è l’esaltazione dell’inumano, il rifiuto della realtà, della natura e soprattutto dell’identità.
È più che giustificato sospettare che l’architettura contemporanea persegua l’eversivo scopo di privarci dell’identità, attraverso la distruzione sistematica dei luoghi, delle costruzioni, dei paesaggi che ci indicano da dove veniamo, chi siamo e dove dovremmo andare rispettando la nostra storia. I luoghi non solo hanno un’identità, ma danno anche un’identità, una continuità, una tradizione, una vista familiare; nel duplice senso di qualcosa di noto e conosciuto e che appartiene alla famiglia, alla nostra gente. L’architettura moderna vuole privarci questa identità. Vuole renderci apolidi, abitanti spaesati di un “non luogo” che ci priva di radici, di fondamenta, di storia.
Quando hanno costruito le Vele di Scampia, e gli altri ghetti “popolari” si voleva sradicare il proletariato dai propri contesti urbani e solidali per concentrarli in complessi-prigione in cui trasformarlo in “massa”, da politicizzare. Oggi vogliono farci diventare facile preda di mondialismi e globalismi in cui non possiederemo nulla, neppure la memoria, ma c’illuderemo consumisticamente di essere felici.