E se i tempi fossero maturi?
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PER UN’ECCLESIODICEA COERENTE CON LE ESIGENZE DEL PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE
Nel tentativo di fare ordine interiore in merito alla vexata quaestio liturgica, ho deciso di prendere sul serio la bolla “Quo primum tempore”, decreto per la costituzione permanente del messale per il rito liturgico romano emanato nel 1570 Papa San Pio V.
Mi sono chiesto: cosa vieterebbe ad un legittimo Papa successivo di modificare o abrogare tale costituzione? Ho pensato: certo, il fatto che egli, il Papa, sia anche al contempo Vescovo di una ben specifica diocesi, Roma. E vincolando il decreto, come esplicitamente affermato in esso, anche i “Patriarchi e gli Amministratori delle suddette Chiese”, dobbiamo dunque ritenere vincolato pure il Papa, Vescovo di Roma.
In effetti, in un’ottica di coerenza ecclesiologica non c’è molta via di scampo. Chiaro dunque come nel dibattito in merito all’ermeneutica ecclesiale da tenere dopo il Concilio Vaticano Secondo, risulti evidente l’inconsistenza assiomatica delle argomentazioni della prospettiva “continuistica” (sebbene non escludo che una futuro riformulazione possa riuscire a “quadrare il cerchio”), rispetto alla maggior onestà di chi, almeno su questo specifico punto del rispetto delle norme inderogabili sulla liturgia romana, si esprime affermando una delle seguenti due ermeneutiche della discontinuità: quella rivoluzionario-progressista o quella reazionario-tradizionalista.
Analizziamo ora queste due prospettive contrapposte in merito alla questione della messa. Il progressismo tende abbastanza candidamente a sostenere una prospettiva debole di verità, in particolar modo sorvolando il problema del ruolo e dell’ossequio alla Legge e finendo per proporsi, seppur involontariamente, come una via ockhamistica, volontaristica e pragmatistica di interpretazione ed annuncio della Volontà di Dio.
La verità (ultima) non avrebbe, in tale prospettiva, contenuti particolari che normano e che vincolano: essa va risultando sempre più progressivamente come la relazione stessa con Dio, nel superamento dialettico di tutte le modalità normative tese a garantire la coerenza interna della proposta magisteriale.
La verità è relazione, Gesù è verità che annuncia se stessa a tutti gli uomini. Gesù vuole relazionarsi con l’umanità e fare in modo che essa sia compenetrata sempre più di Lui. In questo modo la ricerca di verità trova già la sua quiete nella consapevolezza che già Cristo-Verità ha incontrato chi è in ricerca per il fatto stesso di aver Egli dato inizio alla ricerca medesima, come già ben intuì il cardinale e filosofo Niccolò Cusano nel XIV secolo.
Dunque ogni tentativo di trovare coerenza logica all’interno di un sistema di verità religiose viene facilmente tacciato di pretendere di incatenere l’azione libera dello Spirito Santo, libera persino da un’eventuale condizionamento logico del PDNC (principio di non contraddizione).
Tale approdo ockhamista di buona parte del progressismo viene a rivelare la propria incoerenza interna (infatti, pur cercando di schivare le esigenze del PDNC, deve pur cercare di dare ragione di sé per imporsi come interpretazione religiosa corretta della realtà) proprio grazie al fatto che almeno un paio di cose risultino – oggi – piuttosto fondamentali nella costituzione del senso comune dell’umanità: l’intellegibilità del reale nell’attimo presente e nella memoria storica (l’ecceità o principio di individuazione all’interno della Storia della Salvezza), il che invece dimostra che il PDNC è molto importante ed anzi fondamentalissimo, altrimenti si negherebbe l’esistenza storica di Gesù, la fedeltà della storia e la stabilità del reale, come tendono a fare alcune forme odierne di gnosticismo estremo, che aspirano alla negazione di ogni incontraddittorietà (comprese materia, spazio, tempo, morale, logica…) e che ad un certo punto si ritrovano a fare i conti con dilemmi infiniti (vedi la pur affascinante teoria del multiverso) che una qualsiasi verità ben sostenuta dalla metafisica tomista può e riesce a mettere a tacere, sicuramente con la logica, ma anche, a Dio piacendo a tempo opportuno, con la prassi.
Riguardo, invece, all’ecclesiologia reazionaria e conservatrice, l’arroccamento nel depositum fidei, se correttamente inteso, non è negazione dell’incessante movimento di novità dello Spirito, ma anzi tutela e garanzia. Infatti per non incorrere nell’arido rigorismo farisaico, si tratta di intendere il carattere reazionario come un atteggiamento di valutazione storica della pietà ecclesiale, quasi vichiana, che tende a ponderare quanto gli ultimi secoli e decenni siano stati maggiormente nefasti in termini di santità popolare trasmessaci dall’agiografia e dalla storiografia non anticlericale rispetto a “carotaggi” di tanti momenti del passato.
All’aumento esponenziale del benessere non è corrisposto un non dico identico, ma almeno simile progresso della pietà, carità e gratitudine cristiana. Per esempio, ufficialmente dopo il caso Galilei, la scienza moderna ha progressivamente abbandonato l’autorità istituzionale della Chiesa, alleandosi nel tardo Ottocento con il modernismo filosofico e teologico, con rare eccezioni come nel caso dei modelli standard della fisica.
Oggi le grandi istituzioni scientifiche sono corrotte dagli stessi vizi che affliggevano il clero tardomedievale: simonia e nicolaismo. Nonostante il riferimento sullo sfondo sia spesso la fedeltà alla deontologia moderna e non a quella ippocratica-bioetica, nel senso che magari alcuni di essi potrebbero tristemente essere favorevoli all’aborto volontario ma non a direttive sanitarie neomalthusiane di avvelenamento sistematico, è invero reazionario l’atteggiamento che hanno i medici radiati contro il vaccino covid-19 oppure le proteste dei danneggiati da tale vaccino, come pure i tanti trattori presenti davanti al Parlamento Europeo a Bruxelles per protestare contro la celata pretesa neo-collettivistica delle direttive UE sull’agricoltura, ma che già pesa sulle libertà fondamentali dei lavoratori del settore.
È conservatore, invece, l’atteggiamento di chi percepisce di essere chiamato a custodire un dono, un’eredità o una tradizionale trasmessagli dai propri predecessori. E qui entriamo nel vivo della questione sulla messa romana antica.
San Pio V fa chiarissimamente intendere il suo desiderio, in comunione con il collegio dei vescovi: che tale messale e breviario, così come promulgati, debbano essere mantenuti tali e quali “in avvenire e senza limiti di tempo”, specificando la possibilità di celebrare in altri riti a patto che siano più antichi di 200 anni dalla data di emanazione del decreto, col consenso della Sede Apostolica.
Ora, sappiamo dal dogma dell’infallibilità papale, sancito con la Pastor Aeternus durante il Concilio Vaticano I, che tali tipi di decreti esplicitamente vincolanti sono dogmatici. In questo caso, il nostro riguarda verità non semplicemente ipostatiche o storiche o fattuali, ma norme liturgiche, che esprimono indicazioni morali coinvolgenti tutto il clero, come pure il popolo fedele che è chiamato a comprendere quale sia la tipologia della messa valida e lecita fino alla consumazione dei secoli.
Dunque, in sintesi, santi e leciti sono gli atteggiamenti reazionari e conservatori, i primi per la loro capacità di analisi e giudizio storici (di fronte alla storia della Chiesa e la storia in generale), mentre i secondi per la comprensione dell’importanza della fedeltà e dell’osservanza ai decreti (sia in materia dogmatica che liturgica che morale e pastorale).
Ciò che il liberalismo e il progressismo non comprendono e testimoniano, è la qualità della libertà e la natura del vero progresso. Perciò, una proposta da ritenersi tale in materia di pastorale o insegnamento ecclesiale non può non fare i conti con la necessità di andare a fondo rispetto alla crisi liturgica.
La messa romana antica è l’unica messa ufficiale della Chiesa Cattolica, mentre le altre liturgie antecedenti al 1370 sono valide con il placet della Santa Sede, comprese quelle delle chiese apostoliche separate qualora esse rientrassero dallo scisma.
Tutte le altre liturgie sorte dopo il 1370 sono invalide e dunque ovviamente, come nel caso della messa di Bugnini – parlando di validità e non di liceità, essendo stata voluta da Papa Paolo VI – non si può che applicare il “supplet ecclesiae”, dal momento che se oggi formalmente la Santa Sede stessa avvalla acriticamente lo stesso “spirito del Concilio”, è anche vero che per il fedele che partecipa al nuovo rito, non vi è nessun decreto vincolante che dichiari, oltre l’illiceità, l’invalidità del nuovo messale ai fini della transustanziazione.
Ciò lo si può ben comprendere prendendo a mo’ di esempio i cristiani ortodossi non in comunione con Roma: sebbene siano tradizionalmente considerati eretici e scismatici, nonostante ciò i loro sacramenti e la loro apostolicità non sono messi in discussione.
Inoltre, non ritengo che le intenzioni dei papi postconciliari fossero così malvage come spesso vengono dipinte dal mondo tradizionalista (sedevacantisti, sedeplenisti o lefebvriani), in quanto, a parte Giovanni XXIII e Paolo VI (segretario vaticano sotto Pio XII), la loro formazione giovanile era spesso intrisa della c.d. nouvelle téologie e dunque il loro tardo approdo ad un “tradizionalismo di desiderio” dovrebbe essere giudicato con molto minor rigore rispetto a chi è stato formato con la precedente sensibilità ecclesiale ed anzi sarebbe dovuto essere incoraggiato ed accompagnato con maggiore carità, soprattutto dai dotti teologi formatisi al seminario di Econe o aggregatisi successivamente ai gruppi tradizionalisti.
Se è vero che dimostrare che l’opzione sedevacantista sia vincolante per i fedeli cattolici risulti attualmente contraddetta dalla mancanza di un decreto episcopale da considerarsi ufficiale che dichiari la sede vacante (in quanto nessun vescovo sedevacantista è titolare di una diocesi), e se è vero che pure l’ambivalenza del sedeplenismo in merito alla Magna Quaestio (la questione dell’autorità papale) nei fatti si risolva in una forma aggiornata di sedevacantismo (soprattutto in seguito alla recente scomunica di Mons. Viganò), forse per differenziarsi dal sedevacantismo classico o da quello “tesista” (cfr. Tesi di Cassiciacum), ecco che la Fraternità San Pio X – dal punto di vista dell’impianto ecclesiologico, del setaccio magisteriale postconciliare – successivamente agli accordi con la Santa Sede dopo l’annullamento della scomunica a Mons. Lefebvre ed agli altri vescovi ad opera di Papa Benedetto XVI, risulterebbe quella più atta a creare le premesse per un ripristino della coerenza preconciliare, tenendo conto di tutte le risoluzioni accettabili dal pontificato di Giovanni XXIII a Benedetto XVI.
Uso il condizionale, poiché la Fraternità, ad oggi, non è (più, dopo le vicende passate) sotto la diretta giurisdizione della Chiesa Cattolica. Dunque per necessario si rivela l’appoggio “ad intra” dei gruppi legati ai motu propri Ecclesia Dei e Summorum Pontificum, capaci, al momento opportuno, di porsi quali forze centripete per l’accoglienza papale delle istanze della FSSPX (e dunque anche dei “donatismi ecclesiologici” dei vari rami staccatisi da essa), compresa l’ermeneutica della discontinuità in merito alla questione conciliare, dirimendo per mezzo di un nuovo concilio ecumenico i problemi che impediscono di ripristinare l’unità ecclesiale nella fedele osservanza dei vincoli tradizionali, dogmatici o normativi che siano.
E se ciò fosse l’occasione per sanare antichi scismi, ben venga: venga posto loro di fronte ciò che per la Chiesa Cattolica è veramente irrinunciabile ed intangibile, ovvero la Sua ossatura, e si chieda loro se siano interessati ad incominciare un cammino di accoglienza, mentre in merito all’ancora opinabile si dimostri liberalità.
Interroghiamoci: e se i tempi fossero maturi?