Una personalità complessa, gigantesca

Una personalità complessa, gigantesca

di Francesco Bellanti

PATRIOTTISMO PROLETARIO, NAZIONALISMO COLONIALISTICO, SOCIALISMO UMANITARIO E CRISTIANESIMO EVANGELICO IN GIOVANNI PASCOLI. LE AFFINITÀ DEL SUO PENSIERO CON IL CATTOLICESIMO DI DANTE E MANZONI

Uno dei più poderosi intellettuali europei, il più grande poeta italiano del Decadentismo, l’autore del Fanciullino e di Myricae, dei Canti di Castelvecchio e dei Poemetti, il poeta del Gelsomino notturno e de Il bolide, autore di versi vertiginosi sul cosmo e sul mistero della vita e della morte, dell’amore, che rivoluzionò il linguaggio poetico italiano, momento sempre esaltante della mia attività di docente, Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912), fu in Sicilia, a Messina, dove insegnò Lingua e letteratura latina per ben cinque anni all’Università, dal 1898 al 1903, e trascorse il periodo più bello della sua vita. Furono anni, per stessa ammissione del poeta romagnolo, tra i più felici e fecondi, anni in cui perfezionò la sua poetica e la sua visione del mondo. È una cosa che penso sempre quando parlo di Pascoli, da docente siciliano che lo ha amato e insegnato per più di quarant’anni. Ma non è solo questo che mi stimola a scrivere questo articolo su Pascoli, non solo la qualità straordinaria della sua poesia, ma – in questo articolo – il suo pensiero ancora attuale e stimolante.

In questo articolo analizzeremo, infatti, uno degli aspetti più importanti, e forse meno conosciuti, di una personalità gigantesca come quella di Giovanni Pascoli, il suo rapporto con la politica e la religione. E cominciamo a dare alcune definizioni che cercheremo di capire e di spiegare, anche perché – come dicevamo – forse alla maggior parte dei lettori pascoliani potrebbero essere sfuggiti. Mettiamo subito le mani avanti, e diciamo che Pascoli fu anche massone, ma la massoneria incise quasi niente nella formazione del suo pensiero, anche se qualcuno ha detto che i suoi studi su Dante, come vedremo, rispecchiano la sua esperienza massonica. In un periodo in cui tutta la cultura italiana ufficiale era in mano alla massoneria, vedi Carducci, che ve lo introdusse (ma la situazione oggi non ci sembra molto diversa da allora), Pascoli è una personalità così complessa, gigantesca, che non possiamo ricondurre la sua altissima statura letteraria alle idee massoniche, così come le sue idee politiche e religiose, dall’anarchismo giovanile (che lo porta in carcere per tre mesi), al socialismo, al nazionalismo, all’internazionalismo, al patriottismo proletario, alla sua originale religiosità, o, meglio, al suo senso religioso.  

Le sue idee politiche. La visione del mondo socialista.

Pascoli fu uno strano socialista anarcoide utopista nazionalista patriottico pervaso da sentimento religioso cristiano, azzardiamo una definizione coraggiosa ma molto vicina al vero. Vediamo di spiegarlo. La formazione di Pascoli all’inizio fu positivistica, e questo fu una cosa naturale, poiché il  positivismo era allora la cultura dominante, e il positivismo lo troviamo in Pascoli nella nomenclatura ornitologica e botanica, nelle osservazioni sulla vita degli uccelli, nei temi cosmici e nel linguaggio astrale che scaturiscono da letture di testi di astronomia ispirati alle cognizioni scientifiche del tempo e che pervadono i suoi versi. Questo linguaggio rimase nella poesia del poeta anche quando egli, in seguito alla sfiducia nella scienza, che non è più strumento di conoscenza e di ordinamento del mondo, e all’affermarsi di tendenze spiritualistiche e idealistiche, si apre all’ignoto, al mistero, all’inconoscibile, verso cui l’anima si protende ansiosa, tesa a captare i messaggi enigmatici che provengono dalla natura. Tutto questo, però, non si traduce in una fede religiosa positiva, di Dio vi è in lui nostalgia ma mai possesso. Il Cristianesimo lo affascina ma non attinge mai la sfera teologica, la verità rivelata, il Cristianesimo rimane nei limiti del messaggio morale di solidarietà, di fraternità e mansuetudine evangelica, e non riesce a dare senso compiuto alla visione pascoliana di un mondo frantumato, disgregato, atomizzato, dove non c’è un ordine, e l’infinitamente piccolo si mescola con l’infinitamente grande, e si può giungere alla verità attraverso i simboli che manda la natura, secondo la famosa poetica del Fanciullino.

È nota la poetica de Il fanciullino come conoscenza alogica, aurorale, prerazionale, immaginosa, alogica, solo il poeta-fanciullo può penetrare nei misteri della natura, il poeta-veggente, che ha l’arcano privilegio di attingere all’ignoto, entrare dentro il mistero oltre le apparenze sensibili. È, insomma, la poesia pura, il poeta che canta e basta, senza fini morali e utilitaristici, la poesia che, proprio per questo, perché assolutamente spontanea e disinteressata, può avere effetti di suprema utilità morale e sociale. Questa poetica esprime la visione socialista di Pascoli, perché ripudia il principio aristocratico del classicismo che vuole la separazione tra ciò che è alto da ciò che è basso. Pascoli, invece, è il cantore delle realtà umili, semplici, dimesse, del mondo contadino, dei suoi valori, della sua dignità.

Ma che tipo di socialismo è quello pascoliano? Dalla sua stessa visione della letteratura affiora un socialismo umanitario e utopico lontano però dalle teorie marxiste, lontano dalla lotta di classe, e la poesia e la letteratura diventano allora strumenti per diffondere amore e fratellanza. Come tutti i piccoli borghesi, Pascoli subì da giovane l’influenza delle ideologie anarco-socialiste che in quel tempo in Emilia-Romagna era propugnato da Andrea Costa, agitatore e tribuno dal grande fascino. Era il suo un socialismo di tipo romantico, insofferente nei confronti delle ingiustizie e le convenzioni che però andavano rivestendosi di concrete motivazioni sociali, ed erano il disagio e le inquietudini di chi si sentiva minacciato dall’avanzata della civiltà industriale moderna. Erano sentimenti che percorrevano tutta la società europea, che alla tradizionale cultura umanistica sostituiva i nuovi saperi tecnologici, scientifici, erano il risentimento e la frustrazione per la declassazione del ceto medio tradizionale, e in tale contesto rientrava la figura del giovane studente Pascoli, che proveniva dalla piccola borghesia rurale, declassato e impoverito.  A questa rabbia, e a questi impulsi ribelli contro la società per l’emarginazione procurata, si unirono l’ingiustizia che sarà la tragedia della sua vita, l’uccisione del padre, omicidio di cui mai nessuno fu condannato, e la povertà, e lo smembramento della famiglia, i lutti familiari, e da qui nacque uno degli aspetti caratteristici della poetica pascoliana, il concetto di “nido familiare”. E da qui anche l’adesione all’Internazionale nel 1876 (a cui si aggiunsero la morte del fratello Giacomo e il processo celebrato a Bologna contro Andrea Costa e gli internazionalisti). Benché il suo socialismo fosse sentimentale e umanitario, Pascoli, durante una manifestazione antigovernativa, fu arrestato e condannato a tre mesi di carcere, e questa fu un’esperienza terribile. Si è detto che dopo questa esperienza Pascoli passò dal pensiero utopico di Bakunin al socialismo scientifico di Karl Marx, ma in realtà Pascoli rimase sempre legato al suo socialismo di cuore, più che di mente, gli ripugnavano il concetto marxista di lotta di classe, lo scontro violento e l’inconciliabilità tra capitale e lavoro, la vittoria del proletariato. Il giovane Pascoli, dunque, fu protagonista, prima in Romagna poi in Emilia, della diffusione delle prime idee anarchiche e socialiste apparse sul territorio nazionale. Quando abbandonò la politica attiva per darsi totalmente agli studi e all’insegnamento, trasformò gli ideali del socialismo rivoluzionario in un’esigenza di giustizia dell’uomo naturale, che deve anzitutto sviluppare i propri sentimenti originari, rinvenibili più facilmente nella coscienza di un bambino, che ancora nulla sa della proprietà privata e della lotta di classe, un fanciullo che ha più possibilità di restare se stesso, puro, innocente, quanto meno si allontana dalla natura.

Il socialismo di Pascoli rimase utopico, idealistico, intriso di pietà evangelica, di fede umanitaria, nutrita da elementi provenienti dal francescanesimo, dal Cristianesimo primitivo, dall’evangelismo pacifista e non violento di Tolstoj. Era un socialismo che possiamo definire leopardiano, fatto di solidarietà, bontà, amore, fraternità. Vicinanza alle miserie dei poveri, alle sofferenze degli infelici, alla diffusione della pace. Contribuiva alla formazione di queste idee il suo ideale di società. Per Pascoli non ci dovevano essere odi sociali tra le classi, tra borghesi, operai, contadini, che dovevano conservare la loro distinta fisionomia, e dovevano invece collaborare tra di loro, non ci doveva essere bramosia di ascesa sociale, che generava lotta, frustrazione, infelicità. Il suo ideale era la piccola proprietà contadina, il piccolo proprietario rurale, che coltiva direttamente la sua terra, il piccolo podere, non il grande, che procura saggezza, amore per la famiglia. È il mito pascoliano del mondo sereno e saggio dei piccoli proprietari, baluardo che difende i valori fondamentali della famiglia, del lavoro, della solidarietà, della laboriosità. Era un mondo che purtroppo stava scomparendo travolto dalla concentrazione capitalistica, che assorbiva e schiacciava la piccola proprietà. 

Ma è da questo mito che nasce il fondamento dell’ideologia pascoliana, la celebrazione del “nido familiare”, che è fatto da legami di sangue, dagli affetti, dai dolori, ed è probabilmente la ragione principale per cui il Pascoli non si sposò. Da questo nido chiuso, da questa zona privata, intima, nasce anche il nazionalismo pascoliano, che ha radici anche politiche, sociali. Gli italiani che sono costretti a emigrare e a lasciare la patria sono strappati proprio da questo nido, dove sono i loro affetti, le tradizioni, le radici del loro essere più profondo, i loro valori. È una tragedia, l’emigrazione, che lo induce – anche in contrasto con le idee socialiste – a far proprio uno dei concetti-cardine del nazionalismo del primo Novecento, e cioè che ci sono le nazioni capitaliste, ricche, potenti, e le nazioni povere, proletarie, oppresse, come l’Italia, che non riesce a sfamare i suoi figli e deve fare sfruttare i suoi figli dai Paesi stranieri, che sono così disprezzati, vilipesi, trattati con violenza. Allora è giusto che le nazioni povere come l’Italia, con l’uso della forza, assicurino, attraverso il colonialismo e con guerre considerate legittime, la soddisfazione dei bisogni del loro popolo. Le conquiste coloniali, perciò, sono per Pascoli guerre di difesa, non di offesa, di riscatto della nazione italiana, come la guerra di Libia, che lui celebrò perché dava coscienza nazionale al suo popolo, completava il processo risorgimentale, e dava coesione spirituale. Così, con arditi sincretismi concettuali, Pascoli fondeva insieme coesione spirituale, socialismo umanitario e nazionalismo colonialistico. Queste idee sono contenute nel famoso discorso La grande proletaria si è mossa che il poeta pronunciò al Teatro dei Differenti di Barga il pomeriggio del 26 novembre 1911, in occasione di una manifestazione a favore dei feriti della guerra italo-turca. L’Italia, la “grande Proletaria”, i cui figli poveri sono trattati all’estero “un po’ come i negri”, costretti a rinnegare le proprie origini gloriose, considerati analfabeti o camorristi, ha finalmente trovato per loro una terra già romana, resa ricca e fertile dai “nostri progenitori” ma diventata un deserto per l’inerzia di popolazioni negligenti, che l’Italia ha la missione di civilizzare. Ne consegue che la lotta sociale non ha più motivo di essere, perché il concetto stesso di classe, in cui si può entrare e uscire liberamente, è diventato evanescente. Il nazionalismo di Pascoli, più affine ad uno stato d’animo del cuore che ad un vero proposito imperialista, susciterà particolare interesse in Antonio Gramsci, secondo il quale Pascoli era stato “il creatore del concetto di nazione proletaria e di altri concetti svolti poi da Enrico Corradini e dai nazionalisti di origine sindacalista”.

Cristianesimo in Pascoli

La sua posizione nei confronti del Cristianesimo la possiamo vedere attraverso i suoi studi su Dante e su Manzoni, e non fu certamente un caso che il poeta da critico privilegiò soprattutto questi due autori. In quanto a Dante, smontando la macchina allegorica del poema, il poeta del Fanciullino dedica ben tre volumi, e furono “derisi e depressi, oltraggiati e calunniati” dai lettori e non furono apprezzati da taluni critici. Tuttavia, aggiunse ancora Pascoli nella Prefazione ai Poemi conviviali (1904), “essi (…) vivranno. Io morrò, quelli no. Così credo, così so; la mia tomba non sarà silenziosa. Il Genio di nostra gente, Dante, la additerà ai suoi figli”. Fu soprattutto Benedetto Croce a stroncare i volumi pascoliani, perché non condivise il modo in cui Pascoli leggeva la storia della letteratura e i suoi testi. Croce, che stroncò anche gran parte dell’opera pascoliana, non accettava l’interpretazione pascoliana del Dante che “volontariamente eclissa” e nasconde la propria dottrina “sotto il velame dei versi”: Pascoli, dal punto di vista simbolista, smontava l’enorme edificio dantesco attraverso la decifrazione dei suoi simboli e delle sue allegorie per scoprire le corrispondenze segrete che regolano l’impianto gigantesco della Divina Commedia e ne garantiscono l’unità strutturale. Perciò nella sua interpretazione simbolista, Pascoli riporta a simmetria l’apparente divario tra Inferno e Purgatorio sulla base della partizione delle colpe, equivalente e speculare nelle due cantiche: “il Purgatorio riproduca, come monte può riprodurre baratro, l’Inferno. Abbia sette scaglioni per i sette peccati nello stesso ordine dell’Inferno”. L’originalità del lavoro, l’impostazione positivistica (l’analisi) con l’”evanescente misticismo decadentistico” che permea altre pagine pascoliane, fu una geniale intuizione di Giovanni Getto che scrisse un famoso saggio sull’argomento. Insomma, il suo lavoro su Dante gli costò l’ostilità della critica, ma l’interpretazione della cultura decadente contribuì a fare di Dante un nume tutelare. Secondo Pascoli, per farla breve, il senso profondo della Commedia consisterebbe nel passaggio dalla vita attiva alla vita contemplativa. Così Dante, che nell’Inferno ha conosciuto i sette peccati e nel Purgatorio ha udito le sette beatitudini, “si è venuto disponendo alla vita contemplativa”, che nel poema è rappresentata da Beatrice (l’ipotesi fa tra l’altro da garanzia all’idea che l’intera costruzione del poema sia imperniata sul numero sette). Il legame con Dante non si esaurì mai, nonostante la profonda distanza culturale che li separa, testimoniata innanzitutto dalla divergenza abissale fra l’universo dantesco, finito e teocentrico, e l’”immenso baratro”, il “cupo vortice di mondi” della Vertigine di Pascoli (e questo moderno, invalicabile horror vacui deve più di qualcosa all’altro suo modello per eccellenza: Leopardi). 

Su Manzoni, anche se Pascoli certamente mai s’era entusiasmato della religione cattolica, preferendo di gran lunga la classicità latina, ha parole di particolare apprezzamento per il modo in cui il Manzoni parla della fede, e, anzi,  si meraviglia che questo “Virgilio cristiano” – come lui lo chiama – non avesse ottenuto sino a quel momento, da parte della critica, il riconoscimento che gli si doveva. Incredibilmente, infatti, il capolavoro di Manzoni non godeva allora di alcuna simpatia fra gli intellettuali, nonostante il grande successo editoriale, perché da parte degli ambienti clericali era giudicato troppo spregiudicato nel denigrare l’istituzione ecclesiastica (rappresentata da varie figure meschine e di dubbia moralità, come don Abbondio, il padre provinciale e la Monaca di Monza), da parte di quelli laici, liberali o repubblicani, era ritenuto troppo condiscendente nei confronti della cultura cattolica, coi suoi continui riferimenti alla provvidenza che tutto risolve, alla carità cristiana che tutto perdona, alla non-violenza ipostatizzata, allo spirito di sopportazione che i protagonisti più positivi dimostrano di possedere lungo tutto il romanzo. Solo le lezioni di Francesco De Sanctis nel 1877 gettarono finalmente luce sull’opera, e persino il Croce, poco prima di morire, dovette riconoscere di avere sbagliato. Il Pascoli cerca di assumere una via equilibrata: apprezza, da un lato, la posizione anticlericale del Manzoni, ma dall’altro valorizza la genuinità del suo sentire religioso e il suo cattolicesimo liberale e moderno che gli consente di accettare molto tranquillamente il regime di separazione tra Chiesa e Stato, secondo i principi, analoghi peraltro, su questo punto, a quelli dei maggiori protagonisti politici e intellettuali dell’unificazione nazionale.

Da buon socialista, un po’ libertario un po’ anarchico, Pascoli non aveva difficoltà a condividere una concezione – quale la manzoniana – che voleva riportare il cattolicesimo nel suo alveo più originale (in senso teologico e cronologico), privo di ambizioni temporali. La stessa spiritualità del cattolico Manzoni possiede in sé qualcosa di così umano – fa capire il poeta, qui critico letterario – che non avrebbe potuto lasciare indifferente neppure una coscienza atea. È questo il cattolicesimo che Pascoli ama di più. Pascoli, insomma, aveva capito, prima di molti altri, che il Manzoni non era semplicemente un grande scrittore, che aveva introdotto per primo in Italia il fascino del realismo, ma che lo era anche per il suo messaggio etico-religioso, al punto che poteva essere paragonato a Dante Alighieri. Era un messaggio paternalistico, come il socialismo pascoliano, e – diremmo oggi – “buonista”, e in tal senso le spinte colonialistiche della sua Grande Proletaria sembrano una prosecuzione ideale dei Promessi sposi, una sorta di grido di dolore per un Risorgimento incompiuto, tradito dalla stessa borghesia che l’aveva voluto. Pascoli apprezza il Manzoni delle Osservazioni sulla morale cattolica, laddove Manzoni obietta che non gli italiani sono corrotti e tanto meno la religione cristiana, quanto piuttosto chi se ne serve per scopi di privilegio, di conservazione di un mero potere politico autoritario. Il Cristianesimo è sempre “col popolo oppresso, e quindi coi ribelli, coi congiurati, coi carbonari, coi mazziniani; e non coi Papisti, cogli Austriacanti, con S. M. Apostolica”, così scrive il Pascoli, convinto di leggere fedelmente il pensiero del Manzoni, anche se crediamo che anche lui abbia capito che la carica rivoluzionaria del Cristianesimo è stata spesso usata dai potenti per altri fini.

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