Sui migranti anche i cattolici si rinfreschino la memoria

di Pietro Licciardi

CONTROLLO DEI FLUSSI, RISPETTO DELLE LEGGI E REPRESSIONE DEGLI ABUSI: IL MAGISTERO DIMENTICATO 

Dopo il nostro articolo Migranti, rinfreschiamo la memoria torniamo sul tema, sollecitati anche dalla cronaca: la morte del bracciante indiano a causa di un incidente in una serra a Latina. 

Come già scritto chi si imbarca clandestinamente alla volta dell’Italia non è affatto un miserabile. Lo scrisse già cinque anni fa il Corriere della Sera che fin dal titolo mise le cose in una prospettiva ben diversa da quella propagandata dai fans delle frontiere aperte: “Sui barconi sale la classe media, i più poveri non si spostano”. Anche se è passato del tempo le cose non sono cambiate perché il contrabbando di esseri umani sostiene ancora gli stessi costi di allora. 

Secondo il Corriere «negli ultimi sei anni su 1 milione 85 mila migranti africani sbarcati in Europa, il 60 per cento proviene da paesi con reddito pro capite tra i 1.000 e i 4.000 dollari l’anno, considerato medio-basso dalla Banca mondiale per il continente africano. Il 29 per cento tra i 4 e i 12 mila dollari, ossia medio-alto; il 7 per cento da paesi dove c’è un reddito alto (sopra i 12.000 dollari) e solo il 5 per cento da paesi poverissimi (sotto i mille dollari). In Italia questa percentuale scende addirittura all’1 per cento. Infatti nello stesso periodo, su 311.000 arrivi di immigrati africani il 65 per cento proviene da paesi con un reddito medio-basso, il 33 per cento medio-alto». 

Sono così smentite certe rappresentazioni strappalacrime del fenomeno migratorio, alimentate dall’infondato senso di colpa occidentale, ed europeo in particolare, per via del colonialismo.

Inoltre, come si legge nell’articolo citato di InFormazione cattolica a fuggire dai rispettivi Paesi sono anche i giovani più istruiti e intraprendenti, il che rappresenta un danno incalcolabile per le società di partenza, tanto da spingere in più occasioni le conferenze episcopali, soprattutto africane, a pregare i propri giovani di rinunciare ai loro pericolosi viaggi verso un destino incerto per dare il loro contributo alla vita sociale dei loro Paesi, altrimenti condannati a restare nel sottosviluppo o in mano ai clan tribali corrotti e inetti al potere nella maggior parte del continente africano. Lo stesso potremmo dire per ciascuno degli altri luoghi da cui proviene la massa dei migranti.

Ma qual è la molla che spinge ad alimentare un fenomeno che ha assunto le dimensioni di un esodo globale? La vulgata di sinistra e di certo cattolicesimo della domenica attribuisce la responsabilità alla globalizzazione, che avrebbe accentuato la disparità tra zone ricche e zone povere del pianeta. Ma secondo il center for Global Development di Washington, che ha analizzato migliaia di censimenti nazionali nel corso di 50 anni, la grande migrazione è sì un effetto collaterale della globalizzazione, che però ha determinato il crollo della povertà assoluta. Sembra assurdo, ma uno dei più grandi successi della nostra epoca ha indirettamente messo in moto i barconi, consentendo a molte più persone di pagare il viaggio.

Di fronte al fenomeno migratorio, che ormai ha mostrato anche ai più ottusi il pericolo che comporta per la tenuta economica e sociale delle nazioni europee e per l’Italia, che praticamente confina con un intero continente in procinto di attraversare il Mediterraneo, ricordiamo come il magistero della Chiesa abbia indicato dei punti fermi. A partire dal principio, affermato da Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2013, che «nel contesto socio-politico attuale, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra». Un concetto che riecheggia quanto l’allora pontefice Karol Wojtyla sottolineò nel discorso al IV Congresso mondiale delle migrazioni del 1998: «Diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione». 

Apertura si all’accoglienza ma evitando, come diceva Benedetto XVI nello stesso messaggio, «il rischio del mero assistenzialismo per favorire l’autentica integrazione, in una società dove tutti siano membri attivi e responsabili ciascuno del benessere dell’altro».

Ma per poter fare questo occorre che lo Stato, come ricordò san Giovanni Paolo II il 28 giugno 2003 nell’esortazione apostolica post sinodale Ecclesia in Europa – e come dice lo stesso Catechismo della Chiesa – possa esercitare il proprio controllo sui flussi migratori in considerazione delle esigenze del bene comune. L’accoglienza deve sempre realizzarsi nel rispetto delle leggi e quindi coniugarsi, quando necessario, con la ferma repressione degli abusi. 

Questo anche se termini come “controllo” (dei flussi), “rispetto” (delle leggi) e “repressione” (degli abusi) non sono più parte della sensibilità ecclesiale. Ma lo sono del magistero perenne.

Altro aspetto importante riguarda l’integrazione, che nell’ottica giovanpaolina fa tutt’uno con il rifiuto dell’indifferentismo: «Essa esige che non si abbia a cedere all’indifferentismo circa i valori umani universali e che si abbia a salvaguardare il patrimonio culturale proprio di ogni nazione. Una convivenza pacifica e uno scambio delle reciproche ricchezze interiori renderà possibile l’edificazione di un’Europa che sappia essere casa comune, nella quale ciascuno possa essere accolto, nessuno venga discriminato, tutti siano trattati e vivano responsabilmente come membri di una sola grande famiglia». 

Ma è evidente che tutto questo è ignoto a chi col pretesto del multiculturalismo sta consegnando l’Europa all’Islam e l’Italia alla malavita straniera. Per non parlare delle lacrime di coccodrillo di Elly Schlein, dei sindacalisti e di quei preti che dopo aver reso ingovernabili i migranti e le migrazioni si indignano per lo sfruttamento di persone fatte entrare senza permesso e abbandonate a loro stesse nelle mani degli sfruttatori e della malavita organizzata.

 

Foto di lamuk_lamuk da Pixabay

 

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