Il moderno feticismo per il cibo “naturale”

Il moderno feticismo per il cibo “naturale”

di Pietro Licciardi

BIO E NATURALE E’ BELLO MA SONO GLI ALIMENTI INDUSTRIALI AD AVERCI ALLUNGATO LA VITA

In questo nostro opulento Occidente, popolato da fighetti viziati, rimbambiti da ideologie e propaganda, tra le tante, talvolta assurde, mode c’è quella del “mangiar sano” che nella versione soft si limita ad aborrire il cibo confezionato e consumato in fretta, mentre quella più hard è rappresentata dal vegetariano e dal vegano, unito ad una feticistica idolatria per tutto ciò che è “bio” o a “chilometro zero”. 

Quello del “mangiar sano” è un messaggio che tramettono programmi televisivi di cucina, libri di ricette, giornali e prendersela con gli agronomi che creano cereali ad alto rendimento, più resistenti ai parassiti, che hanno bisogno di meno acqua per crescere o con le aziende che allevano mucche e galline in batteria è segno di raffinatezza. Si cerca il pane cotto a legna sognando il grano macinato a pietra, le mele e le zucchine di un tempo, disprezzando i moderni pomodori coltivati in serra e si aborriscono gli ibridi mentre gongoliamo quando il cameriere ci dice che il ristorante offre solo i prodotti locali più freschi. Evitiamo il pane in cassetta e le bevande gassate e soprattutto disprezziamo il massimo simbolo del modernismo culinario, la catena McDonald’s: veloce, internazionale e uguale dappertutto.

Come tutte le cose anche questo movimento di reazione al progresso alimentare ha assunto un carattere politico. Il movimento Slow food, nato nel 1986 per protesta contro l’apertura di un McDonald’s a Roma, si definisce ad esempio il Greenpeace dell’alimentazione. Come ha dichiarato un portavoce del movimento al New York Times, qualche anno fa «il nostro vero nemico è il consumatore ottuso».

Peccato che i suddetti fighetti, feticisti del genuino e del chilometro zero, abituati a trovare tutto bello e pronto nel negozio vegano sotto casa o nel supermercato “bio”, conoscano poco la storia perché altrimenti si renderebbero conto dell’enorme progresso che rappresenta oggi il moderno supermercato, in cui si trovano a buon prezzo prodotti industrialmente trattati e conservati e di quanto sia illusoria e manichea la visione passatista che contrappone un luminoso passato rurale a un grigio presente industriale.

A questo proposito proponiamo la sintesi di un articolo della storica britannica dell’alimentazione, Rachel Laudan, autrice tra l’altro di Cuisine and empire: cooking in world history (University of California Press 2013).

Che il cibo debba essere fresco e naturale è diventato un articolo di fede ma in passato non tutto quello che era naturale era buono. Come scrive Laudan La carne fresca era dura e maleodorante; il latte era tiepido ed era chiaramente un’escrezione corporea; la frutta era così aspra da essere immangiabile, e le verdure fresche erano amare e anche oggi, quando lo troviamo sul serio, il cibo naturale a volte ci sorprende, come i polli, che quanto sono ruspanti hanno la carne dura e il sapore forte.

Il cibo naturale era anche inaffidabile. Il pesce cominciava subito a puzzare. Il latte diventava acido, le uova marcivano. In tutto il mondo alle stagioni dell’abbondanza seguivano quelle della fame. Faceva troppo freddo o non pioveva abbastanza. Le galline smettevano di deporre uova, le mucche perdevano il latte, frutta e verdura scarseggiavano e nei mari non era possibile pescare. Spesso il cibo naturale era anche indigeribile. I cereali per essere mangiabili dovevano essere trebbiati, macinati e cotti. Altre piante, comprese le radici e le fibre da cui dipendeva la sopravvivenza delle popolazioni che non mangiavano cereali, sono spesso velenose. 

I nostri antenati hanno cominciato fin da subito a trattare gli alimenti per abbassarne il livello delle tossine o per conservarli, e hanno anche iniziato a manipolare i prodotti della terra. Il mais è stato modificato al punto che non è più in grado di riprodursi senza l’aiuto umano. Al posto di frutti e cereali più naturali ma meno gradevoli, sono stati creati legumi non amari, arance dolci, mele succose. I nostri antenati hanno costruito granai, cominciato a seccare la carne e la frutta, a salare e affumicare il pesce, a far cagliare e fermentare il latte, e a usare tutti gli additivi e i conservanti che avevano a disposizione – zucchero, sale, olio, aceto, liscivia – per rendere il cibo più mangiabile. 

Gli alimenti trattati e conservati duravano più a lungo, erano più facili da digerire e più buoni: il pane bianco lievitato al posto dell’insipida farinata, la birra al posto dei grani di orzo, l’olio d’oliva al posto di un piccolo frutto amarognolo, il latte di soia, la salsa e il tofu al posto dei tristi semi di soia che provocavano flatulenza, per non parlare del vino, del formaggio fermentato, del prosciutto, del salmone affumicato, dello yogurt, dello zucchero, del cioccolato e della salsa di pesce.

Chi mangiava cibo fresco e naturale veniva guardato con sospetto, se non addirittura con orrore. Era una cosa che facevano solo i poveri, gli incivili e i morti di fame. I prodotti locali suscitavano più o meno lo stesso entusiasmo di quelli freschi e naturali, essendo destinati ai poveri che non potevano sfuggire alla tirannia del clima e del terreno e alla monotona, spesso precaria, alimentazione che offrivano. I ricchi, invece, variavano la loro dieta comprando, importando e sperimentando piante, animali e tecniche di cottura diverse.

Se nel Seicento gli europei avessero avuto la fissa del chilometro zero oggi non berremmo caffè, tè e cacao zuccherati e neppure mangeremo i kiwi. Quanto al concetto di slow food dimentichiamo che, lungi dall’essere un’invenzione della fine del novecento, il fast food è sempre esistito in tutte le società. I cacciatori che inseguivano le loro prede, i pescatori in mare, i pastori a guardia del loro gregge, i soldati durante le campagne militari e i contadini che dovevano mietere il grano, avevano tutti bisogno di qualcosa da mangiare velocemente e lontano da casa. 

Prima della nascita di Cristo, i romani potevano acquistare focacce al miele e salsicce già pronte al mercato. I fritti, in particolare, costosi e pericolosi da fare in casa, sono sempre stati venduti in strada: le ciambelle in Europa, i churros in Messico, gli andagi in Giappone e i sev in India. A questa nobile tradizione del fast food, gli americani hanno aggiunto semplicemente la friggitrice elettrica, la griglia di ferro importata dei Paesi Bassi e il franchising. Il McDonald’s di Roma, in realtà, era figlio di una tradizione nata al tempo dei Cesari.

I piatti di un tempo erano più sani dei nostri? Questa credenza si basa su presupposti diversi, tra cui l’idea che in passato il cibo fosse meno tossico e le diete più bilanciate. Ma mentre ci preoccupiamo dei pesticidi sulle mele, del mercurio nel tonno e del morbo della mucca pazza, dimentichiamo che ingerire cose da mangiare è, ed è sempre stato, pericoloso. Molte piante contengono tossine e sostanze cancerogene, spesso in concentrazioni più alte che in qualsiasi antiparassitario. E altre se ne aggiungono quando cuociamo alla griglia o friggiamo. Perfino i libri di cucina più famosi consigliavano di usare acido solforico concentrato per rendere più intenso il colore delle marmellate mentre il latte, sospettato di diffondere la scarlattina, il tifo e la difterite, oltre che la tubercolosi, è stato saggiamente evitato fino al novecento avanzato, quando negli Stati Uniti e in Europa furono introdotte rigorose norme igieniche. 

Sotto il profilo nutrizionale e sanitario, quando i mulini erano bianchi la situazione era molto peggiore della nostra. I problemi dipendevano soprattutto dalla dieta ed erano aggravati dalle condizioni di vita e dalle infezioni che impedivano al corpo di assimilare il cibo. Nessuna nostalgia per i pasti bucolici del lontano passato può cancellare il fatto che fino a 150 anni fa in certe regioni d’Italia  si viveva male e poco, costantemente afflitti da malattie spesso legate a quello che si mangiava.

Certi miti possono essere fuorviami sia per quello che dicono sia per quello che non dicono. Gli indietristi culinari di solito sorvolano sui problemi etici legati al faticoso lavoro di produrre e preparare da mangiare. Nel 1800 la maggior parte degli italiani viveva in campagna e le donne passavano le giornate a macinare, trinciare, cucinare, fare il burro e spennare polli, senza l’alternativa di poter prendere il telefono e ordinare una pizza se qualcosa andava storto. 

Possiamo fantasticare che i pasti della classe media europea di oggi siano gli stessi dei contadini o dei nostri antenati. Possiamo pensare che i popoli del Mediterraneo siano pedine nelle mani delle multinazionali che li riempiono di prodotti moderni scadenti, ma questo significa non tener conto del fatto che oggi possiamo scegliere tra quello che offre il mercato, mangiare in ristoranti stranieri e provare nuove ricette. Non dimentichiamo che l’attuale popolarità dei piatti italiani deve molto alla disponibilità e alla conservazione di due prodotti che anche i puristi adorano: la pasta industriale di alta qualità e i pomodori in scatola. Invece di disprezzarli, dovremmo chiedere più alimenti industriali di qualità.

Se idealizziamo il passato, dimentichiamo anche che è la moderna economia industriale globale a permetterci di assaporare cibi tradizionali, freschi e naturali. Attribuiamo tanta importanza a tutto quello che è fresco e naturale perché diamo per scontati alimenti base come il sale, la farina, lo zucchero, il cacao, il caffè, il tè prodotti dalle multinazionali dell’industria agroalimentare, e dimentichiamo che d’inverno gli asparagi e le fragole ci arrivano per nave o sugli aerei.

Quello che ci serve non è la nostalgia, ma un’etica che accetti gli alimenti industriali invece di disprezzarli, che consenta a tutti di scegliere, non che impedisca a molti di farlo perché pochi possano sfruttare il loro lavoro. Un’etica che non abbia pregiudizi, ma decida caso per caso quando è meglio preferire il naturale al trattato, il fresco al conservato, il vecchio al nuovo, il lento al veloce, l’artigianale all’industriale. Sarà questo tipo di etica, e non il rifiuto di ogni innovazione, a permetterci di creare una varietà di cucine moderne e adatte ai nostri tempi. 

 

Foto di copertina di Sean Hayes da Pixabay

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