Un gesuita nell’India delle caste
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L’EROICA VITA DEI GESUITI, SPESA PER LA SALVEZZA DEI SELVAGGI E DEGLI IDOLATRI
Informazione Cattolica ha già proposto all’attenzione dei lettori un libro sulla evangelizzazione degli indiani del Quebec. Questa volta offriamo alla lettura un altro volume, questa volta dedicato all’evangelizzazione dell’India. Da troppo tempo noi cattolici pendiamo dalle labbra di storici socialisti che ci insegnano «come le antiche crociate, così le moderne spedizioni coloniali delle nazioni cattoliche, sotto l’apparenza religiosa, non erano che avventure piratesche e mercantili».
Ebbene la vita dei missionari cattolici che hanno sofferto disagi e privazioni indicibili offrendo il più delle volte la propria vita smentisce il pregiudizio laicista, al quale purtroppo hanno finito per credere quegli stessi consacrati che appartengono ad ordini missionari una volta intrepidi e gloriosi e che oggi sono caduti nella trappola della dialoghite e di un malinteso ecumenismo che in un mondo che sta progressivamente tornando al paganesimo idolatra priva gli uomini dell’unico sommo bene: abbracciare Cristo, la via, la verità e la vita.
San Giovanni De Britto missionario portoghese ucciso per la fede di Cristo a Oriur, nel Marava, il 4 febbraio 1693, era di nobile famiglia e trascorse la sua giovinezza alla corte del Portogallo come paggio ma la sua solida educazione cristiana e il suo buon carattere lo portarono a vestire la “divisa” dei gesuiti e a desiderare di partire per la missione.
Dagli agi della nobiltà e vita di corte il giovane De Britto si ritrovo catapultato per sua scelta in un mondo allora ben lontano da quello romantico dei racconti di Emilio Salgari o Rudyard Kipling. Frequenti rivoluzioni, sedizioni, congiure di palazzo e conquiste straniere, trasformavano incessantemente il volto politico dell’India. Sulle rovine di grandi regni, rapidamente crollati, sorgevano cento staterelli che si dilaniavano tra loro in perpetua discordia, fino a che o l’uno di essi, o qualche invasore, finivano con assoggettarli tutti sotto un unico dominio. Una sommossa, la rivolta di qualche ambizioso riportava, dopo alcun tempo, la disgregazione e le guerre intestine.
Poi il territorio inospitale e il clima fetido; terre selvagge, rocciose, spinose, sabbiose; piogge torrenziali e sole implacabile. Per i sacerdoti europei tende, capanne o il cielo per tetto; insetti, rettili e belve; cibi sconditi, scarsi, nauseanti. Quando le guerre o le inondazioni cacciavano dai villaggi nei boschi e tra le rupi le popolazioni divenute cristiane con il loro gregge i missionari dividevano pene, fame e malattie.
Ma l’ostacolo più grande era forse nella natura stessa dell’anima indiana e nella struttura sociale-religiosa di quei popoli. Migliaia di missionari lavoravano invano, per lunghi anni, senza frutti apparenti. E poi le caste! L’eterno problema dell’India, ancor oggi vivo, era in quei tempi un muro di impenetrabile. Si può essere miserabili e accattoni, ma se si è nati nella casta dei bramini si ha il diritto di considerare tutti gli uomini inferiori, perché si è di stirpe divina. Non il valore né la virtù ma il sangue, conta e le barriere sono invalicabili.
Disprezzati quanto i paria, anzi, di più, erano tutti gli occidentali, detti, per scherno, prangui, cioè ignobili spudorati, bestie immonde, perché non rispettavano le leggi sacre degli indiani, usando le bevande fermentate, mangiando carne. I missionari erano europei, dunque, erano prangui anch’essi. Vita esemplare, abnegazione, sacrificio, non contavano nulla. Per gli indù la questione si poneva in questi termini: come diventare discepoli di uomini che destano ribrezzo?
Eppure i missionari come il De Britto senza sosta e senza risposo, consumando letteralmente la propria vita con privazioni fatiche inaudite, notti insonni dedicate all’istruzione religiosa dei nativi e ai battesimi che sovente scatenavano le ire dei pagani e la persecuzione, guadagnavano nuove anime a Cristo.
Ma che l’opera dei missionari fosse benemerita e niente affatto il frutto dell’”imperialismo” bianco e occidentale lo testimoniavano i numerosi miracoli che le preghiere dei sacerdoti e degli stessi convertiti suscitavano: guarigioni, liberazione dai demoni, campi e case salvate da incendi e inondazioni. Tutto ciò aumentava la messe dei convertiti da un lato e l’ira di chi si ostinava nell’idolatria e nel vizio dall’altro. E i sacerdoti erano i primi a pagare con frequenti incarcerazioni e supplizi; in molti casi con la morte, inflitta nel modo più atroce. Ma proprio il martirio era il premio da loro più agognato per una vita tanto aspra e dura in quelle terre di missione.
Roba da far sbiancare di vergogna chi col pretesto del “no proselitismo” e che “tutte le religioni portano a Dio” ha oggi rinunciato a convertire.
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