La Pentecoste: la rivoluzione cattolica di Alessandro Manzoni
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L’EPOPEA DEL CATTOLICESIMO DEMOCRATICO MODERNO
Diremmo una banalità se affermassimo semplicemente che La Pentecoste, insieme con Il Cinque Maggio, il Coro dell’atto IV dell’Adelchi, cioè La morte di Ermengarda, e il romanzo, sia la più alta espressione poetica del genio manzoniano. Forse saremo meno banali dopo che avremo esposto le nostre idee in merito ai significati dottrinali cattolici e al valore ecclesiologico dell’ultimo degli Inni Sacri, cominciato da Alessandro Manzoni il 21 giugno 1817, ripreso due anni dopo e completato dal 17 aprile del 1819 al 26 settembre del 1822. Il testo definitivo fu stampato a Milano nello stesso anno in cinquanta copie dall’editore Vincenzo Ferrario. È noto che il progetto manzoniano degli Inni Sacri prevedeva la stesura di dodici inni, ma ne furono scritti solo cinque, La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Pentecoste e La Passione. La Pentecoste ebbe un percorso travagliato perché seguì l’evoluzione, o, se vogliamo, il cambiamento della spiritualità manzoniana, in crisi – secondo molti critici – per l’atteggiamento della Chiesa schierata a favore della Restaurazione, mentre il cattolicesimo manzoniano avanza verso posizioni più democratiche, in conseguenza dell’influenza dei moralisti francesi e del retaggio della sua precedente formazione illuministica, anche se poi lo scrittore lombardo rinnegò le opere scritte in quel periodo prima della conversione. La Pentecoste, come è noto, nel cattolicesimo – riprendendo una festa ebraica che celebra sette settimane dopo la Pasqua la rivelazione di Dio che dona sul Monte Sinai a Mosè la Torah, la Legge – è la discesa dello Spirito Santo sui discepoli di Gesù e segna la nascita della Chiesa.
Tra i più importanti e nuovi temi dell’inno è che la religiosità – e dunque la Chiesa – è presentata come il destino della nuova società, sostituendosi alla politica che non riesce a dare risposte concrete ai problemi dell’umanità, e, sostenendo Manzoni che la Pentecoste è la storia dell’incontro tra sacro e divino, ci manda il messaggio – che è pure una speranza – che l’uomo può essere riscattato dal peccato grazie all’intervento di Dio sulla terra. Nella Pentecoste Manzoni pone le basi dell’ideologia cattolica che sosterrà i Promessi Sposi anche con il ruolo della “provida sventura”. Manzoni non vuole scrivere un’opera dogmatica, egli intende celebrare la Chiesa come comunità di fedeli, Chiesa come istituzione che agisce nella storia, e pertanto La Pentecoste, come e più ancora degli altri Inni, si può considerare un inno civile. L’intuizione geniale di Manzoni è quella di privilegiare una Chiesa non chiusa in sé stessa ma attiva per i suoi valori nella società, perché la religione non deve separare dalla vita ma sublimare la vita stessa.
La Pentecoste è innanzitutto l’avvento, la presenza dello Spirito di Dio nella storia, è la fondazione della missione apostolica e dell’universalità della Chiesa, che è alla base del rinnovamento spirituale del mondo. È un rinnovamento che riguarda tutti, schiavi e liberi, è l’apparizione sulla scena del mondo della Chiesa impaurita che viveva nascosta nella paura subito dopo la morte di Gesù, è il ritorno dell’umanità al vero e unico Dio, il Salvatore di tutti, poveri e umili, non solo dei grandi. È un inno lontano un anno che sembra un secolo dal Dio del Cinque Maggio che scende su Napoleone morente, su Ermengarda salvata dalla “provida sventura”.
Questa concezione della Chiesa rappresentata non come istituzione salvifica dei potenti ma come promotrice del rinnovamento del mondo per tutti, una Chiesa non distante dalle genti di tutto il mondo, che privilegi l’approccio del cuore attraverso la predicazione della Parola, l’apostolato, la preghiera, il martirio, sui miracoli e sui dogmi, risente certamente dall’influsso esercitato su Manzoni dai grandi moralisti cattolici francesi come Pascal, Massillon, Bossuet, Bourdaloue, Nicole, così come dal pensiero democratico della sua prima educazione illuministica a Parigi, tuttavia non passivamente, ma secondo il suo profondo sentimento cristiano che lo induceva a rappresentare la missione della Chiesa nel mondo rinnovato e la presenza e il governo di Dio sulle anime e sulle vicende terrene, su tutti gli accadimenti della storia, con quel senso di pietà e di profonda e pensosa umanità che avevano costituito e costituiranno sempre il segno distintivo del suo pensiero religioso e della sua poesia.
Secondo il grande critico letterario Attilio Momigliano, nella Pentecoste la poesia nasce dalla fede e alla fede innalza, ma senza che la realtà dell’uomo sia soverchiata da un eccessivo sentimento religioso. Perché Dio vigila con amore e ha uno sguardo pietoso su tutti gli uomini – cristiani, pagani, spose, schiavi, poveri, infelici, empi, giovani, vecchi – e regna sui loro cuori. Ecco perché nella Pentecoste, diversamente dagli altri Inni Sacri, i motivi biblici e la fede della Chiesa diventano pura poesia e canto di speranza e di preghiera che mette con un più alto amore l’intera umanità di ogni condizione – uomini, vecchi, donne, bambini, giovani – nella luce di Dio. Così scrive in modo acuto e sottile sulla Pentecoste Cesare Angelini, grande cultore e interprete originale di Manzoni nel Novecento, ma anche di altri poeti e scrittori italiani, come Leopardi, Foscolo, Monti, Pascoli, Dante, Tommaseo, scrittore di magnifica prosa poetica, che fu sacerdote a Pavia, rettore del Collegio Borromeo, e fu apprezzato da Croce, Papini, Serra e altri:
“La visione del poeta è sicura: egli sente tutta la maestà della Chiesa cattolica e ne canta la storia in un serrato impeto di strofe, calme eppur travolgenti. Pensiamo talvolta che se il Machiavelli, messi da parte i ferri della politica, avesse rivolta l’austerità dal suo pensamento a chiudere in versi la maestà dell’Impero, ne sarebbe venuto fuori un inno non molto diverso, per intonazione e rilievo e fervor di eloquenza e contratta concinnità”. E continua: “Il che ci porta vicini a un altro pensiero: a dire cioè come nella Pentecoste il Manzoni abbia già calato tutto il mondo morale-religioso dei Promessi Sposi, che si risolve soprattutto nell’aderenza all’amore per la povera gente, pei tribolati e gli umili che trovan la lor forza nella rassegnazione e nella preghiera. Si direbbe che la persuasione delicatamente religiosa che il Manzoni ha dell’umana uguaglianza, la sia un’idea mirabilmente fiorita su dalla conversione, anzi, lo spirito stesso del nuovo convertito che sente la religione come uno strumento di elevazione morale; in questo differenziandosi dall’Alighieri che la sentiva piuttosto, e con forza, sotto la specie teologica e dogmatica”. E anche sulla differenza dall’Alighieri ci troviamo d’accordo.
“E la cosa s’illumina anche meglio quando si rifletta — fatto importantissimo — che tutto questo, il Manzoni lo scriveva nel primo quarto di quel secolo decimottavo che tutti, filosofi statisti umanitari, suggerivano i modi per sviluppare i principî dell’ottantanove che si assommavano appunto nella elevazione del popolo”. Angelini si sofferma molto su questo aspetto: “Anche il Manzoni porta il suo contributo alla soluzione del problema, facendo vedere come solo la carità derivata, non dalle contaminazioni del secolo, ma dalla pura fonte del Vangelo e disciplinata nel cattolicismo, poteva essere il succo e la linfa da far scorrere entro gli strati dell’umano consorzio per redimerli e farne un mondo di uguali. Anche lui la vuole, questa uguaglianza; ma è intimamente persuaso che gli uomini saranno uguali, se possederanno l’umiltà della vita, cioè se saranno veramente uomini”.
Non ci convince, invece, il giudizio estetico di Angelini, che non reputa La Pentecoste un capolavoro. Egli sostiene che La Pentecoste, pur essendo superiore agli altri Inni Sacri per superiorità logica e fattura costruttiva compatta, oltre che per le immagini bibliche adoperate con tanta efficacia da farle sembrare nuove, sia ancora di disegno retorico e poco lirico, forse perché Manzoni era ancora influenzato dal vecchio classicismo. In realtà, probabilmente in questo aspetto del suo giudizio, Angelini era condizionato dall’estetica crociana (col grande filosofo egli fu in corrispondenza, come lo fu peraltro con altri grandi intellettuali del periodo, Giuseppe De Robertis, Giacomo Debenedetti, Antonio Baldini, Marino Moretti, Carlo Linati).
La Pentecoste – ci avviamo alla conclusione – è un’epopea del cattolicesimo moderno, è il punto fermo che non conduce più nel passato. Manzoni rinnova la cultura poetica italiana abbandonando la tradizione petrarchista – come stava facendo per vie diverse Giacomo Leopardi con i suoi Canti – che con forme armoniche, perfette, esaltava la propria interiorità, mentre Don Lisander sente un bisogno di comunicazione universale. La Pentecoste contiene il più alto messaggio, il miracolo decisivo del Cristianesimo, la discesa dello Spirito Santo sui discepoli, la fondazione della Chiesa, cioè la comunità dei fedeli, che sono messi in grado di comprendere la predicazione apostolica, predicazione che esprime in tutte le lingue il messaggio evangelico e consente ai fedeli di comunicare tra di loro. Manzoni, come tutti, anche gli umili, fa parte di questa comunità, perché solo nella collettività dei fedeli si realizza l’individuo, che in questo modo può ripararsi dal caos della storia. È la risposta cattolica – eliminando la separazione fra l’umano e il divino – alla richiesta di rinnovamento della società che si esprime, attraverso l’amore di Dio, in termini di reale uguaglianza fra gli uomini. Una risposta potente di fronte alle ideologie materialistiche che avanzavano. “L’Inno La Pentecoste – sostiene il professor Alessandro Mazzini del Centrum Latinitatis Europae – per essere compreso a fondo va confrontato con un altro testo del 1821, Il Cinque Maggio. In questo componimento l’autore aveva tematizzato il massimo della grandezza umana e il suo fallimento: Napoleone, nella sua grandezza e nel momento più alto del suo potere, aveva fallito. Perché la morte comporta il fallimento di ogni dimensione umana, se non rapportata alla dimensione dell’Eterno. La Pentecoste quindi evidenzia la falsità dell’ideale eroico, rimuovendolo”.
La Pentecoste, dunque, afferma e sancisce che il vero eroismo è quello della quotidianità, delle imprese e dell’attività della Chiesa, che è la comunità delle persone. Nella Pentecoste non è più il Dio della “provida sventura” di Ermengarda, che paga e si salva per i crimini commessi dalla sua gente, i Longobardi di Desiderio, non è il Dio che scende e dà conforto, e si posa sulla “deserta coltrice” di Napoleone morente, il Dio dei grandi della storia. Nella Pentecoste è l’annuncio del Dio di Renzo e Lucia, è il Dio che scende su tutti, che si fa capire da tutti. “Come luce rapida piove di cosa in cosa, e i color vari suscita dovunque si riposa; tal risonò moltiplice la voce dello spiro: L’Arabo, il Parto, il Siro In suo sermon l’udì.” È il Dio della dimensione democratica moderna, della nuova libertà, della nuova pace, il Dio senza il quale non esiste nessuna grandezza, perché la vicenda terrena dei grandi che, come Napoleone, plasmano la storia con la loro grandezza, fallisce sempre se non è rapportata alla dimensione dell’Eterno. Il vero eroismo è quello quotidiano, è un eroismo di predicazione e di servizio, francescano diremmo, da parte di una comunità in cui viene abbandonato ogni conflitto di classe, calandosi ognuno dentro una dimensione in cui ritrova il vero e autentico significato della sua vita, dimensione in cui la morte non fa più paura, perché, anche nel momento di massimo fallimento terreno, giunge Dio a dare un senso alla nostra vita e a dare la vera grandezza, perché il giorno della morte è il vero dies natalis, perché risorgiamo in Cristo e con Cristo, Colui che solo dà senso al tempo e alla storia degli uomini, e – per dirla dantescamente – a tutte “le sustanze e accidenti”.