In Vermeer l’armonia tra l’umano e il divino è ripristinata
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LA GEOGRAFIA POETICA* DI VERMEER
Il “Geografo” (De geograaf, 1668-69) del pittore olandese Johannes Vermeer richiede una modalità di interpretazione alla quale l’uomo moderno è poco avvezzo; un’interpretazione aperta ad una conversione, se non a un vero e proprio capovolgimento del mondo moderno nel suo insieme (1).
Al di là di quanto sia stato già notato altrove circa il dipinto (2), Vermeer non ci presenta qui 1. la contemplazione filosofica, se non addirittura estatica, e 2. la scienza meccanicistica moderna, come due attività complementari; piuttosto, “Il geografo” rivela un percorso che taglia attraverso la “geografia” moderna, al fine d’illuminare la natura della contemplazione.
Quasi nulla nei dipinti di Vermeer è lasciato al caso, anche se la selva oscura della “materia” non viene mai risolta allegoricamente nell’arte dell’olandese. Nel De geograaf il mondo materiale giace nell’oscurità, sotto un foglio di carta disteso e prestantesi a servire da supporto per il disegno di una mappa. Mentre il mondo “terrestre” – rappresentato da un ruvido arazzo modulato come la superficie di un paesaggio fisico – giace nell’oscurità, la carta stesa sopra il terreno rimane in piena luce. Per parlare in termini cartesiani, la carta funge da contesto per tutto ciò che è “chiaro e distinto” in contrapposizione alla natura nel suo stato per così dire bruto. Il mondo della scienza moderna è ancora una tabula rasa su cui il geografo potrebbe scrivere, se non fosse rivolto verso una luce che trascende il piano delle idee chiare e distinte.
Il geografo di Vermeer potrebbe essere tale solo formalmente rispetto all’abbigliamento, o forse per mestiere occasionale piuttosto che per indole naturale. In ogni caso, Vermeer interviene per “distrarlo” dal mestiere, in direzione della contemplazione, senza però indurre il giovane ad abbandonare l’arte della misurazione. La misurazione è semplicemente rigirata su un lato, come lo è il compasso nella mano destra del geografo, la cui mano sinistra poggia saldamente su un libro appoggiato a sua volta sull’arazzo.
Il compasso qui è un indicatore di distanze, per quanto queste non siano meramente geografiche. Una pergamena arrotolata conferma visivamente la traiettoria indicata dal compasso, invitandoci a discernere un percorso che ci conduce dal libro poggiato in orizzontale ad un altro stante quasi verticalmente sotto la finestra. Un “paesaggio” oscuro quasi scolpito dall’arazzo si estende quindi entro i due libri, senza lasciarsi misurare in termini meramente fisici.
Cosa rappresentano i due libri di Vermeer? In linea con un’iconografia tipica del Rinascimento (si considerino ad esempio i due volumi tenuti da Platone ed Aristotele nella “Scuola di Atene” di Raffaello) (3), Vermeer utilizzerebbe un compasso poetico per distinguere i due poli formali dell’etica e della metafisica, non essendo lo iato tra questi adeguatamente misurabile in termini fisici. Il compasso che misura la distanza tra i poli formali della divinità e dell’umanità, o tra la natura intesa come ars divina ed un’arte propriamente umana, non è meccanico, ma spirituale-poetico. Il compasso di Vermeer sarà la prudenza stessa, una virtù che gli iconografi medievali e rinascimentali sono inclini a rappresentare come una lonza (allegoria della prudenza) che maneggia appunto un compasso (4).
La pergamena arrotolata nel dipinto di Vermeer ci offre un passaggio visivo verso la metafisica sotto la guida della prudenza intesa come provvidenza umana. Non vige dunque alcuna opposizione tra il divino e l’umano; né debbono i due essere concepiti come “poli complementari” in un contesto più ampio (5). Vermeer correggerebbe allora la geografia “scientifica” moderna che sarebbe altrimenti propensa a misurare meccanicamente lo iato tra l’umano concepito come res cogitans (l’Io/ego formale cartesiano) e la natura concepita come res extensa (materia priva di provvidenza propriamente divina).
La “scienza” moderna in generale tenta di sintetizzare l’uomo e la natura – superando così ciò che in termini biblici tradizionali è la caduta di Adamo dall’Eden – riconcependo i due termini in un contesto nuovo e meccanicistico che oggi chiamiamo abitualmente, “evoluzione”. In effetti, la nozione moderna di “evoluzione” è così radicata nella nostra educazione che solo con grande difficoltà riusciamo a vedere oltre la sua portata per dare un senso al “linguaggio” di Vermeer. Perché Vermeer ci parla poeticamente di una poesia che, lungi dall’essere confinata nella moderna nicchia dell’intrattenimento consolatorio, si eleva a veicolo della vita stessa, o meglio a percorso o modo di vivere dato il quale noi stessi diveniamo il luogo “rinascimentale” in cui l’armonia tra l’umano e il divino viene ripristinata.
Il percorso in questione è quello che nel dipinto di Vermeer si estende visivamente dal piano bidimensionale delle apparenze (rappresentato da una mappa girata di lato per mostrare i paesi di lingue romanze: Italia, Spagna e Francia) fino al globo tridimensionale appoggiato su un armadio posto dietro il geografo esitante o dubbioso. La traiettoria tra il bidimensionale e il tridimensionale è la stessa indicata già dal compasso. La dimensione nominale si riconcilia con quella sostantiva attraverso la virtù stessa del pittore, così che non dovremo saltare da una materia “meccanica” ad un mondo “spirituale” di contemplazione estatica, ma elevarci dall’illusione di un mondo “piatto” ad un mondo poetico nello specchio del quale ci è dato di partecipare nella pienezza per così dire tridimensionale della realtà.
In termini platonici classici, la tridimensionalità non è ciò che oggi siamo abituati a considerare tale, designando piuttosto la pienezza ontologica delle cose, o la coincidentia divina dell’essenza e dell’esistenza delle cose, ossia di qualsiasi dato empirico. L’apparenza delle cose e la genesi della loro apparenza coincidono solo laddove l’apparenza è considerata non da un “punto di vista” esterno, ma da ciò che s’intende classicamente per “l’occhio della mente”, ossia dal punto di vista del principio generativo delle cose. In termini teologici, questo significa vedere le cose come le vede Dio: vedere le cose “dall’interno,” anziché a posteriori e quindi dall’esterno. La vera apparenza delle cose non presupporrebbe più una genesi antecedente, coincidendo invece con la sua stessa genesi.
Vermeer non ci invita certo ad abbracciare una concezione vitalistica della realtà per cui il divenire sarebbe visto come la realizzazione evolutiva dell’essere. L’alternativa platonica di Vermeer comporta piuttosto il riconoscimento del divenire come arte misteriosa dell’essere stesso, di un essere che risolve il divenire in sé, o che produce fuori di sé nell’atto di ritornare in sé stesso. L’ascesa del geografo vermeeriano andrebbe allora intesa alla luce di ciò che essa indica al di fuori delle “finestre” che Leibniz negò alle sue monadi: lungi dal realizzare l’essere, l’artista umano testimonia la realizzazione (in quanto ripristino) del divenire nell’essere. L’uomo stesso sarà tanto più reale – e quindi definitivo – quanto più entrerà in Dio (conto tenuto del cattolicesimo del pittore, per cui il Dio nel quale si entra non altri sarà che quello già incarnato nell’umano).
L’uomo di Vermeer è evidentemente duplice, come ci indica la doppia firma sul dipinto. Mentre sull’anta dell’armadio è impressa una versione sbiadita ed abbreviata del nome del pittore (con riferimento al solo cognome), una firma più completa e datata spicca in alto sulla parete su cui è appesa la mappa rigirata dell’Europa meridionale. In qualche modo Vermeer si trova, al di sopra del tempo stesso, tra il bidimensionale e il tridimensionale.
Lo stesso geografo poetico ritratto nel dipinto si drizza in piedi lasciando dietro di sé una sedia vuota, finemente lavorata. Un distinto spettatore è forse tacitamente invitato ad alzarsi, discernendo per altro nel libro scuro rappresentato sul lato destro del dipinto, così come nei fogli scompigliati che giacciono sul pavimento, inviti ad accettare la sfida poetica di Vermeer? È forse un caso che un segno luminoso risultante da un intarsio sulla copertina del libro in questione punti direttamente al libro in piedi sotto la finestra?
Vermeer dipinse “Il geografo” poco dopo aver realizzato “L’astronomo”, opera strettamente correlata ed in cui troviamo rappresentato un dipinto del piccolo Mosè tra i giunchi, appeso su una parete di fondo (6). Nell’Olanda di Vermeer, Mosè era tradizionalmente lodato come perfetto geografo, laddove notissima dovette restare l’opposizione biblica all’astrologia intesa come divinazione (7). In quanto versione “scientifica” dell’antica divinazione astrologica, ossia della filosofia/scienza naturale presocratica (tale quella dei re Magi, come soleva sottolineare Pico della Mirandola), l’astronomia moderna è ancora più incompatibile con la “geografia” mosaica di quanto non lo sia l’astrologia antica. Infatti, mentre quest’ultima si volge a contemplare cieli eterei – abbandonando così l’uomo caduto nella sua miseria – l’astrologia cerca di dominarli completamente, come suggerisce perentoriamente la postura dell’astronomo di Vermeer.
Come dobbiamo intendere il rapporto tra geografia e astronomia? La padronanza della natura nel suo insieme – padronanza come addomesticamento all’interno di un sistema di leggi – deve forse servire gli interessi della nostra padronanza del mondo umano e quindi di una natura che siamo in grado di usare al fine di scongiurare una morte violenta, così come ci invita a farlo il machiavellico Thomas Hobbes? Oppure l’astronomia – l’astrologia “scientifica” dell’uomo moderno – dovrebbe forse ergersi (notando che l’astronomo di Vermeer rimane seduto) ad affrontare la sfida “geografica” posta da Mosè ed interpretata platonicamente in termini di pratica dell’arte umana intesa come segno vivente o presenza misteriosa di una controparte divina? Può la geografia poetica di Vermeer guidare astrologi ad intendersi aldilà delle aspettative dell’astronomia dell’uomo moderno?
* Alla “geografia poetica,” Giambattista Vico consacra una sezione omonima del secondo libro della Scienza Nuova del 1744.
1) Mi permetto di richiamare il lettore anglofono ad alcuni miei interventi relativamente recenti: “Vermeer’s ‘Woman Holding a Balance’: Allegory of Judgment” su https://voegelinview.com/vermeers-woman-holding-a-balance-allegory-of-judgment/; “Vermeer’s Milkmaid” su https://sacrapoetica.wixsite.com/home/post/vermeer-s-milkmaid; “Reading Vermeer’s ‘Allegory of Painting’” su https://www.youtube.com/watch?v=HtLH8BsKy1U; e “Vermeer’s ‘Allegory of the Catholic Faith’” su https://www.youtube.com/watch?v=NLOgth-SnZY&feature=youtu.be.
2) Per una panoramica sintetica di interpretazioni consolidate dell’opera di Vermeer, vedasi http://www.essentialvermeer.com/catalogue/geographer.html.
4) Vedasi p. es. il diagramma delle “sette spade” del manoscritto Pisani-Dossi del 1409 pubblicato a p. 36 di The Flower of Battle of Master Fiore Friulano de’i Liberi, su https://hroarr.com/wp-content/uploads/downloads/2016/08/wiktenauer-Fiore-de-i-Liberi-compilation-2016.pdf.
5) Raccomando al lettore anglofono un mio recente discorso: “The Problem of Nature,” su https://www.youtube.com/watch?v=Yf_4MP2a4NE&feature=youtu.be.
6) Per dettagli, vedasi http://www.essentialvermeer.com/catalogue/astronomer.html.
7) Su questo tema, Giambattista Vico offrirà ampi chiarimenti nel De universi juris uno principio, et fine uno del 1720.