Vogliono sigillare il tempo secondo scopi politici
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LA STORIA, DALLA POTENTE RIFLESSIONE DI MACHIAVELLI ALLA RISCOPERTA DEL CONTRORIVOLUZIONARIO DE MAISTRE
Negli ultimi anni, diversi governi hanno ridotto le ore di insegnamento della storia nella scuola. La prima cosa che uno può pensare è che i governi vogliono un popolo di ignoranti per potere perpetuare il loro dominio. Noi pensiamo anche che i governi che danno la storia a non specialisti – quelli che in televisione ci martellano il cranio con i soliti filmati banali e le prediche dei soliti predicatori prezzolati che presentano ogni anno i libri-panettoni – abbiano come obiettivo solo la banalizzazione del passato e la sua sistemazione dentro schemi che vogliono sigillare il tempo secondo scopi politici. Oggi più che mai, in questo momento di confusione e di smarrimento, di conflitti in ogni parte del mondo, s’impone una riflessione sulla storia e sul suo insegnamento. Conoscere la propria storia è fondamentale per capire la propria identità, per progettare un destino, una presenza nel mondo, ma quale storia? Negli ultimi decenni, per fare qualche esempio, nuovi studi sulla storia del Meridione stanno rivoluzionando aspetti che da quasi un secolo e mezzo erano considerati intoccabili e che erano ascrivibili alla retorica risorgimentale. Si è scoperto finalmente che il Sud è stato invaso e annesso senza la propria volontà da un Paese che ha conquistato un altro Paese con un’aggressione internazionale. Eppure i mass media, in genere, ci propongono sempre la solita storia istituzionalizzata. La storia non è mai definita, è sempre soggetta alla rivisitazione, a quello che con terminologia specifica si chiama revisionismo, che è un brutto termine ma è quello appropriato quando è fatto con metodologia scientifica. La conoscenza della storia è fondamentale per elaborare una propria visione del mondo e una propria ideologia, sia essa politica, religiosa, sociale, economica.
Il fondatore della scienza politica moderna, Niccolò Machiavelli, su cui ritorneremo, sostiene che l’azione storica ha delle leggi interne che bisogna conoscere per potere progettare e costruire, mantenere lo Stato, perché l’uomo non cambia mai, è immutabile, anche se lui fa entrare in gioco nell’azione politica altri fattori, come l’occasione, la fortuna, la virtù del Principe, il momento storico, e la stessa forma di governo, che eccezionalmente – lui era un repubblicano che vedeva nella Repubblica Romana il migliore assetto politico mai esistito – può anche essere un Principato illiberale. Un altro grande storico suo contemporaneo e amico, Francesco Guicciardini, sostiene invece che la storia è un caos e che non è possibile fondare una scienza politica. Gli eventi di oggi sembrano dargli ragione. Sant’Agostino dice che qualsiasi fatto storico, anche se negativo, dà sempre un insegnamento, altri studiosi come Vico o Leopardi, o Nietzsche, parlano di corsi storici e di tempi ciclici di progresso e di ritorno alla barbarie, intellettuali come Ezra Pound, grandissimo poeta statunitense dalla vita avventurosa che elaborò una singolare teoria economica basata sul denaro, sul lavoro e sul credito – anche se oggi viene screditato per le sue teorie complottiste contro la massoneria, gli usurai ebrei e per le sue simpatie mussoliniane e hitleriane – mette i fatti economici al centro della sua riflessione. Lev Tolstoj osserva che per comprendere le leggi della storia occorre studiare gli accadimenti che condizionano i comportamenti delle masse, mentre altri, per esempio il famoso rivoluzionario Robespierre, sostengono che le rivoluzioni sono sempre opera di élites borghesi o aristocratiche che si pongono alla guida del popolo. Sulla visione della storia hanno scritto un po’ tutti. Per il poeta Eugenio Montale, per esempio, la storia (titolo anche di una sua famosa poesia) è un caos, non ha morale, è una catena dove mancano anelli, si sposta sempre di binario, non è maestra di niente. La storia è fuori dalla storia, e non è poi “la devastante ruspa che si dice./Lascia sottopassaggi, cripte, buche/e nascondigli. C’è chi sopravvive.” La storia, dunque, consente a qualcuno di salvarsi, perché qualcuno riesce a sottrarsi alla sua rete a strascico. E qualche volta anche gli scampati hanno forma di ectoplasmi che ignorano di esserne fuori, mentre altri, intrappolati nel sacco della storia, credono di essere più liberi di lui. La storia è senza meta e senza giustizia. La storia non ha nessun significato per l’uomo, e l’apparire non è un valore. La storia è esterna ed estranea all’uomo, che può solo nascondersi in un cunicolo lasciato dalla sua ruspa. La storia per Montale non insegna niente e non ha bellezza. Un pensiero ancor più pessimista, questo del poeta ligure, di quello di Guicciardini, per il quale, comunque, benché non possa essere magistra vitae come per Cicerone o studiata come scienza esatta da Machiavelli, la storia può essere compresa se analizzata nella sua unicità e contingenza, in ogni singolo fatto, visto che la realtà è poliedrica e irripetibile, che sfugge a una sistemazione esatta.
Prima di prendere in esame quattro pensatori che hanno espresso una coerente visione della storia, un cenno la merita la più aberrante visione della storia, quella di Adolf Hitler. Tutta l’ideologia del Nazionalsocialismo sul concetto che la storia, come dice Hitler nel suo libro “Mein Kampf” (1925), è solo espressione della lotta eterna tra le razze per la supremazia. La razza più forte ha il diritto di dominare, anche attraverso la guerra, che è l’unica cosa che può dare un senso più nobile all’esistenza di un popolo. La razza superiore per Hitler è quella ariana o nordica che ha il diritto di dominare il mondo, anche togliendo lo spazio ai popoli inferiori, per esempio gli ebrei e gli slavi, e infatti teorizzò il Lebensraum, cioè lo spazio vitale, l’espansione verso Est. In altri termini, obiettivo di Hitler, secondo questa concezione, era l’unificazione dell’Europa sotto il dominio della Germania, per cercare questo spazio vitale a Est, in Polonia e in Russia, e dominare il mondo, dopo lo scontro finale con gli Stati Uniti, la sconfitta del capitalismo dopo avere distrutto il comunismo. È inutile osservare che oggi il concetto di razza non esiste più, per non parlare della confusione che il Cancelliere tedesco fa tra popolo germanico e ariano, razza ariana, nazione. L’apocalisse a cui ha portato questa visione del mondo la conosciamo tutti.
Niccolò Machiavelli
Una riflessione sulla storia non può che partire da Niccolò Machiavelli (Firenze, 3 maggio 1469 – Firenze, 21 giugno 1527), uno dei più grandi intellettuali europei, storico, scrittore, drammaturgo, politico e diplomatico, il fondatore della scienza politica moderna, autore – soprattutto sul piano metodologico – della più potente riflessione sulla storia dei tempi moderni. Contrariamente alla visione della storia di un altro grande storico suo contemporaneo e amico, Francesco Guicciardini, il quale, come detto, sostiene che la storia è un caos, un groviglio irrazionale di fatti dai quali è impossibile uscire, se non con la “discrezione” e il “particulare”, il Nostro, convinto che l’uomo, ahimè, è immutabile e agisce secondo le dinamiche dei fenomeni fisici, pensa che possiamo capirci qualcosa nella storia, e si mette in testa di fondare una scienza politica. E inoltre, pur essendo egli repubblicano e ammiratore della Repubblica Romana, istituzione che, a suo avviso, garantisce maggiore stabilità e durata, pensa anche che in determinati momenti della storia, in quella che lui chiama “gravità dei tempi”, sia necessaria l’azione di un Principe “virtuoso” che, organizzando le energie del suo popolo, fondi e sia capace di difendere uno Stato forte, in grado di non essere spazzato via dalla storia. Da qui l’esigenza di una scienza politica valida in ogni tempo, per il carattere d’immutabilità della natura umana e dei suoi comportamenti. Nel contesto di queste premesse, poi, è tutto logico e razionale, per Messer Niccolò, uno che la politica la visse da protagonista come Segretario della seconda Cancelleria della Repubblica Fiorentina dal 1498 al 1512, e come diplomatico per i numerosi e qualificati incarichi presso Stati italiani e stranieri: milizie cittadine e non mercenarie, l’agire politico e la morale intesi come laici e autonomi e non subordinati all’etica religiosa, perché la politica per Machiavelli ha delle proprie leggi specifiche, e gli eventi della politica, quelli che lui chiama “verità effettuale della cosa”, vanno analizzati con metodo che noi chiamiamo induttivo, cioè rigorosamente scientifico, anticipando in modo geniale Galilei e le metodologie fisico-naturali del Seicento.
La visione pessimistica di Machiavelli della natura umana – gli uomini sono malvagi per natura – ha come conseguenza che l’uomo politico deve essere centauro, cioè metà uomo e metà bestia, e di quest’ultima metà “golpe”, cioè volpe, e metà “lione”, perché per lui, per conservare e mantenere lo Stato, sono talvolta necessari atti anche riprovevoli e ripugnanti secondo la morale comune, ma non gratuiti, perché servono per mantenere lo Stato, che è il fine ultimo dell’agire politico, lo Stato inteso come la sola istituzione che può opporsi alla malvagità dell’uomo e al caos che disgregherebbe la comunità. Già, il caos. Machiavelli si rende conto che per mantenere lo Stato spesso le virtù civili – amor di Patria, onestà, solidarietà, amore per la libertà – non bastano, che occorrono leggi, cioè la religione intesa non come percorso personale di salvezza spirituale ma come fede nei principi comuni, ché anzi, la religione cristiana – nella persona del Papa – lui la accusa di svalutare le cose del mondo e di non aver saputo unificare l’Italia, in questo, tuttavia, riconoscendo al Papa l’autorità e il prestigio per poterlo fare. Dicevamo del caos della storia. Machiavelli sa bene che l’uomo politico talvolta si trova a dover fare i conti con quella che lui chiama – nella sua visione laica e rinascimentale – la fortuna, cioè il caso fortuito che può distruggere il disegno meglio architettato, ma la fortuna può essere contrastata, almeno per metà delle possibilità, dall’avvedutezza dell’uomo politico che mette in anticipo dei ripari, e fa l’esempio dei fiumi in piena in un determinato periodo dell’anno, per i quali proprio per questo si costruiscono degli argini per contenerli, o da quella che lui chiama occasione, cioè la capacità di saper volgere al proprio favore il momento storico favorevole o anche sfavorevole. Quello che affascina, comunque, di questo grande intellettuale, è anche il suo stile, un periodare incalzante, incisivo, conciso, lapidario, e un lessico vario, mutuato dalla parlata comune e da arditi latinismi, il tutto mescolato in un linguaggio fortemente espressivo, metaforico, penetrante e visivo. E ancora oggi affascinano sempre più il suo slancio, la sua passione, il suo atteggiamento profetico, perché teorizzava l’unità d’Italia in un contesto storico che ancora non la consentiva. Machiavelli pone le fondamenta ideologiche e teoriche dello Stato moderno, e proprio per questo avevano sul comodino “Il Principe” i più grandi statisti e teorici degli Stati moderni, anche se le sue opere furono confinate per secoli nell’Index librorum prohibitorum dall’Inquisizione.
Per Marx (Treviri, 5 maggio 1818 – Londra, 14 marzo 1883) la storia è storia della lotta di classe, e la lotta di classe è il motore della storia. Nell’epoca moderna, secondo la sua concezione materialistica della storia, questa lotta è il conflitto tra la classe degli sfruttati, il proletariato, e la classe degli sfruttatori, la borghesia, nate dopo le rivoluzioni del Settecento. “La storia di ogni società esistita fino a questo momento – dice Marx – è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi.…. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi….. La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta”. Per Marx, come è noto, la vittoria finale è la dittatura del proletariato, che vuol dire eliminazione dello sfruttamento, della proprietà, recupero di tutte le facoltà umane. Che accade quando lo sviluppo delle forze produttive non è più adeguato ai rapporti di produzione. Marx apprezza il ruolo storico avuto dalla borghesia. “Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni armate e autonome nel Comune, talvolta sotto la forma di repubblica municipale indipendente, talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all’epoca dell’industria manifatturiera, nella monarchia controllata dagli Stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo dello Stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese”. La borghesia è stata, infatti, storicamente una forza rivoluzionaria che ora deve cedere il passo al proletariato. Essa ha avuto un carattere rivoluzionario che ha radicalmente trasformato il mondo come mai si era visto in migliaia di anni, e ha creato un mondo a sua immagine e somiglianza. Una visione del mondo, quella marxista, che, sul piano pratico è miseramente fallita,
Per Max Weber (21 aprile 1864, Erfurt, Germania – 14 giugno 1920, Monaco di Baviera, Germania) – grande filosofo, sociologo, economista e storico tedesco – e in generale per la cultura liberaldemocratica, è, sì, l’economia che causa il conflitto di classe, ma il conflitto può provenire dal prestigio sociale e dal potere, il potere che con le sue differenze può alimentare la formazione di diverse fazioni politiche. Weber, in definitiva, non pensava che le comunità fossero costituite dalla condizione economica, ma da persone dello stesso prestigio sociale, anche se egli riconosce che esiste una relazione fra status sociale, prestigio sociale e classi. Pensatore originale e profondo, cercò di inquadrare la religione nel contesto sociale ed economico. La sua opera più importante è il saggio “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, con il quale cominciò le sue riflessioni sulla sociologia della religione. Weber sostiene che la religione è una delle ragioni per cui le culture dell’Occidente e dell’Oriente si sono sviluppate in maniera diversa, e sottolinea l’importanza di alcune particolari caratteristiche del Protestantesimo ascetico che portarono allo sviluppo del capitalismo, della burocrazia e dello Stato razionale e legale nei paesi in primo luogo europei. Insomma, la politica non è morale ma include anche un orientamento etico. La politica è anche fatta di azioni non morali, a volte “bisogna sporcarsi le mani”, riprendendo il pensiero di Machiavelli, il quale ci ha insegnato non che “il fine giustifica i mezzi”, bensì che di fine in politica ne esiste solo uno, e dunque chi vuole perseguirlo non può avere remore nello sporcarsi l’anima. Ma non bisogna essere troppo machiavellici, dice Weber, perché una politica priva di ideali piò sconfinare nel cinismo e nella disaffezione del cittadino per le istituzioni statali, per cui deve prevalere sempre l’etica della responsabilità.
Joseph Marie de Maistre
Joseph Marie de Maistre (Chambéry, 1º aprile 1753 – Torino, 26 febbraio 1821), diplomatico, politico scrittore, filosofo, magistrato e giurista sabaudo di lingua francese, suddito del Regno di Sardegna, tra i più noti pensatori reazionari del periodo post-rivoluzionario, autore di riferimento di molti pensatori tradizionalisti cattolici, era un controrivoluzionario che credeva che tutti i mali del tempo presente derivassero dalla Riforma protestante che aveva indebolito l’autorità papale sull’Europa occidentale e i Paesi cattolici, introducendo il libero esame, ossia l’interpretazione della Bibbia, senza la guida della Chiesa, base della libertà di coscienza, oltre ad aver causato le terribili guerre di religione. L’idea che sorregge tutto il suo pensiero, espressa soprattutto nel suo capolavoro Le serate di Pietroburgo, in contrapposizione al pensiero illuministico di un Voltaire, è non solo che l’uomo è troppo malvagio ed egoista per essere libero e che la liberazione, anche se solo spirituale, è stata portata dall’avvento del Cristianesimo. Per De Maistre, né il liberalismo, né il capitalismo o le rivoluzioni possono liberare veramente l’uomo e così assicurare l’ordine politico e sociale, anzi peggiorano sempre la situazione. Per De Maistre, diremmo manzonianamente e romanticamente, tutto conduce a Dio, e gli uomini non possono modificarne il Suo progetto. La storia umana è governata dalla Provvidenza, che indirizza l’umanità a una meta a lei sconosciuta. Se diciamo che De Maistre è reazionario, dovremmo dirlo anche di Manzoni, ma in genere su Manzoni non arriviamo a tanto azzardo. Il ritorno del pensatore sabaudo al Medioevo – tempo in cui la Chiesa governa tutto l’ordine sociale, ciò che la rende superiore al potere civile – non è unico nel contesto del Romanticismo, epoca in cui sono ancora molti a credere nella superiore forza e nel prestigio del Papa rispetto a tutte le altre sovranità europee e nel diritto dell’aristocrazia ad assumere la guida del Paese. Per De Maistre, il Papa è infallibile, ed è un’infallibilità non circoscritta alla sola fede ma estesa al campo teocratico, mistico, politico. Nel contesto di questo originale aspetto del suo pensiero, De Maistre non può “leggere” la Rivoluzione francese come gli altri controrivoluzionari, cioè come figlia del razionalismo e il giacobinismo come esito finale delle teorie illuministiche, ma come espressione della Provvidenza che si era servita anche di Robespierre e del “Terrore” per cementificare l’anima del Paese per resistere agli attacchi esterni e per consentire di svolgere alla Francia la sua missione civilizzatrice. Insomma, il “Terrore” restituito alla storia di Francia. Se, ovviamente, è anacronistico pensare a un ritorno del Dictatus Papae di Gregorio VII del 1075 o di altre forme di cesaropapismo, è senz’altro possibile e non fatuo oggi rivalutare la centralità della Chiesa cattolica e del Papa come arbitro internazionale dei conflitti e al di sopra dei particolarismi nazionali, interlocutore privilegiato dei potenti politici e religiosi della Terra. Il Papa guida morale e politica super partes degli Stati Europei al fine di garantire la pace – vista l’assenza o l’inefficienza delle più importanti istituzioni mondiali sulle tragedie del tempo presente e gli interventi sempre più pressanti e sentiti di Papa Francesco – può essere un’opportunità, e chissà che non sia il caso di tornare a riflettere sul pensiero di De Maistre (che non passò inosservato nemmeno nel XX secolo e fu studiato da intellettuali come Carl Schmitt, Nicolás Gómez Dávila, Leo Strauss, Emil Cioran, Guido Ceronetti, Roberto Calasso) sulla più alta autorità religiosa cattolica come parte attiva di una potente azione di civiltà in grado di affermare l’ordine sociale, politico e spirituale, e soprattutto la pace, nelle Nazioni.