Gli USA e quelle conversioni di vip al Cristianesimo
di Marco Andreacchio
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LA CONVERSIONE: DONO O SCELTA?
Il recente fenomeno americano della conversione di celebrità mediatiche al cristianesimo suggerisce che la religione tradizionale rimane un’opzione accessibile ad atei o materialisti disincantati. Perché non scegliere una religione capace di alleviare le pene di un’esistenza in cui saremmo in grado di scegliere tra innumerabili beni diversi, ma mai quello supremo? Oggi più che mai le nostre società liberali ci permettono di scegliere Dio stesso, il bene supremo, aderendo ad una delle tante chiese o confessioni religiose che lo rappresentano (per l’avanguardia transumanista, “la” o “le”), a condizione ovviamente che impariamo a interpretare insegnamenti religiosi tradizionali in conformità alla nozione che la conversione è e deve essere una libera scelta dell’individuo, che possiamo senza remore scegliere la nostra religione, il nostro stesso Dio, così come possiamo scegliere di de-convertirci, o piuttosto di “de-transizionare”. Sì, le nostre tecnocrazie liberali rendono possibili sia la transizione che la de-transizione. L’ultima cosa che vorremmo oggi è essere costretti alla conversione, essere obbligati a passare dal materialismo o da una spiritualità narcisistica ad una religiosità tradizionale. Eppure, proprio qui avremmo ragione di mettere in discussione le nostre conversioni liberali; una ragione per dubitare.
Nelle società illiberali, si dicano anche patriarcali, la conversione religiosa è sempre stata intesa in termini di “chiamata suprema” e del nostro dovere di rispondervi. La conversio latina, così come il periagoge greco, non è una scelta personale o un salto esistenziale, per quanto impegnato, ma un dono provvidenziale derivante dal nostro lasciar andare ogni scelta, come anche qualsiasi sete di “salti mortali” fideistici (con buona pace di Kierkegaard). Inevitabilmente il termine “conversione” avrà due sensi: 1. quello formale per cui il convertito viene integrato in una comunità di fede tradizionale politicamente autonoma (un’impossibilità nell’ambito tecnocratico odierno) e 2. quello apocalittico per cui la vita politica ordinaria è esposta al suo fondamento provvidenziale. Il “tornare indietro” di San Paolo sulla via di Damasco pertiene al secondo registro, ma ogni conversione le pertiene principalmente dato che la “conversione formale” altri non è che immagine di uno svelamento o rivelazione che illumina a sua volta la vera natura della nostra vita quotidiana e quindi della vita politica in generale.
Il senso primordiale, apocalittico della conversione riguarderà il volgersi riflessivo dei sensi, della nostra coscienza sensibile, della nostra immaginazione (sensus communis), del nostro stesso sentimento, ripiegati su se stessi verso la loro fonte vitale. La conversione comporterà allora innanzitutto la svolta apofatica (rimozione di attributi, o rinuncia a “possedimenti”) attraverso la quale l’uomo nega se stesso, il suo essere-determinato (quivi l’essenza del pentimento per l’Adamo caduto), divenendo un punto interrogativo fondato su niente meno che un punto interrogativo assoluto. Conversione come ingresso in una dimensione di pura riflessione in cui “l’io” non è altro che il pensiero stesso – pensiero come legame indissolubile tra l’assolutamente indeterminato (limite assoluto di ogni determinazione) e le sue determinazioni continuamente indeterminate, ossia mutevoli.