Il dr. Ballantini: “Pochi capiscono cosa voglia dire fare il medico”
di Pietro Licciardi
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MANCANO I MEDICI? «ERRORI NELLA PROGRAMMAZIONE» E CHIUDERE QUALCHE OSPEDALE È OGGI INEVITABILE
Una delle questioni più dibattute, specialmente dopo i disastri della pandemia, è lo stato di salute della sanità pubblica. Un problema forse meno avvertito nelle grandi città, che hanno più di un ospedale, ma che può essere grave in molte delle zone montane o rurali del nostro Paese, dove chi si deve curare deve spostarsi magari per parecchi chilometri prima di trovare uno specialista o una struttura sanitaria idonea ad accoglierlo.
Il dottor Mario Ballantini è da poco in pensione dopo aver lavorato per molti anni presso l’Azienda Sociosanitaria Territoriale “Valtellina e Alto Lario” e aver vissuto i problemi comuni a molte aziende sanitarie “minori”, prive di grandi ospedali o di cliniche universitarie. Con lui InFormazione cattolica ha cercato di charire alcune questioni.
Dottor Ballantini, anche a Sondrio mancano medici e specialisti?
«Purtroppo si e una parte della domanda sanitaria si sta orientando verso le strutture private o fuori provincia. A farne le spese sono ovviamente le fasce deboli della popolazione, che hanno meno possibilità culturale ed economica di operare scelte alternative».
Quali le cause di questa carenza, peraltro comune anche a molte altre Asl sul territorio nazionale?
«Sono diverse e questa mi pare tra le principali: negli anni scorsi le scuole di specializzazione e le facoltà di medicina non hanno effettuato una programmazione che tenesse conto dei pensionamenti a cui fisiologicamente si sarebbe andati incontro. Il fenomeno non ha avuto contraccolpi immediati perché le leggi hanno ritardato la possibilità di andare in pensione e quindi il fenomeno è “esploso”, concentrandosi in questi ultimi anni. Se le scuole di specializzazione licenziano trenta specialisti l’anno e ne vanno in pensione sessanta non sarebbe stato difficile rendersi conto che il sistema prima o poi sarebbe crollato. E’ quello a cui stiamo assistendo».
Durante la sua carriera avrà visto avvicendarsi nel suo ospedale diverse generazioni di medici. Cosa può dirci della loro preparazione professionale e umana, considerato che nei decenni l’insegnamento universitario è alquanto scaduto?
«Secondo me la preparazione dei medici è buona. Ma la professione è pesante e richiede sacrifici, parzialmente compensati da un ruolo sociale tutto sommato abbastanza riconosciuto e un livello economico un po’ più alto della media. Non tutti i giovani “reggono”, specie davanti ad un rapporto medico paziente profondamente mutato. Si considerino ad esempio le problematiche intorno all’errore medico e ai risarcimenti, che oggi sono molto più importanti di un tempo. In una parola: i giovani sono ancora bravi ma sembrano più “provati” dalla professione delle generazioni precedenti».
Si può attribuire alla “fuga” dei medici dopo il blocco dei pensionamenti il dilatarsi dei tempi di attesa per le visite specialistiche e gli esami nelle strutture sanitarie pubbliche? Tempi che comunque non sono mai stati troppo brevi
«Una delle cause è senz’altro la fuga dei medici, anche se il termine fuga non mi piace molto: nessuno “scappa”, semplicemente valuta e sceglie la propria vita. Pochi si rendono davvero conto di cosa voglia dire in molti casi fare il medico. Ma l’altra causa dei tempi di attesa dilatati sono le modalità di accesso agli esami diagnostici e alle procedure. Spesso si accede al sistema in modo inappropriato e chi ha davvero bisogno resta indietro. Spiego con un esempio: se una ecografia serve a cercare un tumore e su cento ecografie di tumori ne trovo due, qualcosa non va, prescrivo ecografie che non servono e il sistema si ingolfa, chi avrebbe davvero bisogno deve aspettare. I numeri dimostrano che questo avviene sempre più spesso. Ci sono poi studi interessanti che ci dicono che una buona parte degli accertamenti diagnostici non viene neanche ritirata o letta dagli utenti; e che molte medicine vengono acquistate e finiscono nella spazzatura. Una parte del problema è quindi nella natura del rapporto medico paziente; ovvero aspettative, comportamenti, credibilità, responsabilità, e via elencando».
Quali sono i problemi che si trovano oggi ad affrontare i presidi sanitari decentrati sul territorio? Soprattutto nelle località montane, dove gli spostamenti non sono agevoli e i tempi per raggiungere un pronto soccorso non sempre brevi.
«I tempi per raggiungere il pronto soccorso sono solo uno dei problemi e neanche il più difficile. Semmai il problema è quale pronto soccorso si incontra; ovvero con quale standard organizzativo, quale attrezzatura… Comunque l’elicottero in montagna ha fatto la differenza. Tutt’altro discorso è l’assistenza per la gestione delle cronicità e delle fragilità, dove non ci sono situazioni acute da trattare con un ricovero, ma bisogni assistenziali e di cure “a bassa intensità” ma continue, spesso in carenza di reti familiari. Qui non serve l’elicottero, occorre una capillarizzazione dei presidi e delle professionalità che si fa molta fatica a mantenere. Faccio presente che il fatto acuto come l’incidente o l’infarto, è importante e impattante nell’immaginario, ma la maggior parte dei costi e della “fatica” del sistema sanitario risiede nella gestione della cronicità e fragilità. Qui si concentra la sofferenza della gente. Sto parlando di diabete, obesità, disturbi mentali, demenze, pneumopatie e cardiopatie croniche, insufficienza renale cronica, epatopatie e molte altre condizioni cliniche».
Per anni i governi a guida prevalentemente di sinistra hanno tagliato posti letto e chiuso strutture sanitarie “perché ce lo chiedeva l’Europa” Secondo la sua esperienza non c’era altro modo per razionalizzare la spesa sanitaria in Italia?
«Modi per razionalizzare la spesa ci sono sempre. La riduzione dei posti letto però non è solo un problema di costi. E’ un trend di tutto il mondo “sviluppato” ed è dovuto al fatto che oggi il ricovero in ospedale ha altri significati, strumenti, obiettivi e naturalmente costi rispetto a cinquant’anni fa. Lo sviluppo della medicina e le conseguenti aspettative della gente sono alte e in rapidissimo progresso e questo comporta tecnologia ed esperienza, oltre a lavorare su grandi numeri e per obiettivi circoscritti, di chi eroga prestazioni, ovvero gli ospedali. Questo è possibile solo concentrando gli ospedali. Andreste a farvi operare in un posto dove fanno una operazione a settimana? O dove hanno una TAC che “vede” cosa si vedeva venti anni fa? In altre parole: se io tengo un piccolo ospedale aperto in periferia, ho dei costi ma soprattutto non appena affronto qualcosa di serio, e che posso trattare in modo ottimale magari a 50 o 100 km più in là, devo trasferire il paziente. E mentre cinquant’anni fa la tecnologia era molto meno complessa e costosa, e quindi si poteva facilmente decentrare sul territorio, oggi è impensabile portare attrezzature costose dove vengono usate al 5 o 10% del loro potenziale dandole in mano a personale che non riesce a farsi esperienza sufficiente».
L’epidemia del 2020 secondo lei ha insegnato qualcosa dal punto di vista dell’organizzazione sanitaria in Italia?
«Senza dubbio. La prima cosa è che il sistema deve essere pronto a far fronte a situazioni come quelle affrontate e che si potranno ripetere. Quindi i piani pandemici devono esserci e devono essere fatti bene. Dopo, da psichiatra, dalla pandemia e da quello che ho osservato ho imparato altre cose. Ad esempio che viviamo in una società complessa in cui è difficilissimo riuscire a condividere informazioni e promuovere comportamenti corretti. Dobbiamo renderci conto che il mondo è cambiato e non si possono ottenere i medesimi risultati con mezzi antichi. L’autorevolezza del medico è un mezzo antico, un tempo la parola del dottore era quasi sacra; adesso abbiamo il “dr. Google” con cui confrontiamo ciò che il medico dice. Non basta dire che bisogna vaccinarsi per essere credibili. Occorre chiedersi con quali criteri oggi le persone decidono sulla propria vita e credo che la pandemia e le polemiche sui vaccini, distanziamento ecc. abbiano insegnato che occorre una rivoluzione nelle modalità di comunicazione».
Cosa ci dobbiamo aspettare secondo lei nell’immediato futuro?
«Sono convinto che nell’immediato futuro le cose continueranno così ma probabilmente tra qualche anno andremo un po’ meglio. Occorre una buona programmazione sul personale e qualcosa credo si stia facendo. Ad esempio le scuole di specialità hanno più posti di cinque anni fa e gli effetti si vedranno tra qualche anno. Spesso ci si è scordati che non bastano soldi per avere professionalità diffusa; occorre anche tempo. Quando ho iniziato a fare il direttore e chiedevo all’amministrazione di fare un concorso per assumere un medico c’era una negoziazione anche su base economica; negli ultimi anni facevano subito tutto quello che chiedevo, i soldi erano lì, ma che me ne faccio dei soldi se i concorsi non hanno candidati perché non ci sono medici? Se le scuole “sforneranno” più specialisti il sistema potrebbe rimettersi in moto».
Per concludere, noi, ma non solo noi, abbiamo l’impressione che l’insistenza con la quale si batte sul tasto della dolce morte -il cosiddetto suicidio assistito e eutanasia – abbia a che fare più che con i cosiddetti diritti, con la volontà di trovare una facile soluzione all’aumento dei costi sanitari dovuti anche all’invecchiamento della popolazione. Qual è il suo parere in proposito?
«Mi pare che questo sia impossibile anche per il semplice fatto che per avere davvero un risparmio con questo metodo dovremmo avere dei numeri imponenti che non si hanno neanche nei paesi più avanti su questa terribile strada. Secondo me il problema è di carattere culturale, più che giuridico o economico. Promuovere l’eutanasia è la conclusione più coerente della deriva individualistica della cultura occidentale. Si ritiene cioè che se uno potesse decidere in modo semplice e legale quando morire, questa decisione nascerebbe solo da lui e riguarderebbe solo lui e a questo punto ci si chiede perché lo si dovrebbe impedire, dato che è una scelta, appunto, individuale. Ma l’identità di ciascuno, nel bene e nel male, è fatta anche della trama di relazioni in cui è nato, cresciuto e immerso. Se un domani un anziano, malato e impegnativo per la propria famiglia, ad esempio, potesse scegliere o non scegliere di morire, quanto influirà su questa scelta il pensare ai suoi familiari? Magari si sentirà “egoista” se non sceglie di “togliere il disturbo”… Come influirà sulla sua decisione “libera” l’atteggiamento implicito e talvolta esplicito del figlio o dei nipoti? E se invece l’anziano malato sarà solo quanto influirà la sua solitudine sulla sua “libera scelta”? Alla base del desiderio di morire spesso c’è l’esperienza di un dolore che diventa sempre più “disumano” e senza relazioni gratuite, di condivisione. L’esperienza meravigliosa di Cicely Saunders, infermiera e medico che ha “inventato” i moderni Hospice, dice in modo molto convincente come per rendere umana l’esperienza universale della sofferenza occorrono senz’altro la morfina ma anche e soprattutto relazioni significative, che danno senso alla vita».