Dialogare? sì, ma senza troppe illusioni. Meglio tornare ad annunciare il Vangelo
di Pietro Licciardi
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UN CHIARIMENTO SULLA DIALOGHITE DELLA CHIESA
Il precedente articolo di InFormazione Cattolica sulla dialoghite che affligge la Chiesa postconciliare necessita di un chiarimento. Innanzitutto occorre precisare che fa certamente parte dei compiti del cristiano, e quindi della Chiesa, cercare un confronto con le altre realtà, anche ostili, presenti nel mondo, come – per tonare all’articolo in questione – massoni, comunisti e aggiungiamoci anche islamici e le altre varie religioni, congregazioni e sette, laiche e religiose. Ma affinché il dialogo sia tale, ovvero un ragionamento finalizzato ad una comprensione e reciproco modus vivendi, occorre che questo si svolga secondo ben precise regole e criteri, che cercheremo di seguito di accennare e che talvolta, anzi spesso, la dialoghite ignora, nella sua bramosia di cercare “ciò che unisce e non ciò che divide” per “costruire ponti e non costruire muri”.
Riprendendo innanzitutto le argomentazioni del cardinale Giacomo Biffi, allora arcivescovo di Bologna, svolte durante un convegno di studio organizzato dallo Studio teologico accademico bolognese nel 1998, Gesù usa abitualmente la forma dell’asserzione autoritativa: “in verità vi dico” – rafforzata nel quarto Vangelo: “In verità, in verità vi dico“ e quando si confronta con i farisei e i dottori della legge, più che una discussione nasce regolarmente un diverbio. Non si vede dunque come si possa presentare Gesù come l’antesignano del “dialogo” nel senso moderno del termine.
Chiarito questo primo punto, è verso la metà del nostro secolo, dice ancora il cardinale Biffi, che la parola “dialogo” nella mentalità comune diventa quasi mitica e caricata di sentimenti, di attese, di problematiche che la portano molto lontano dalla sua valenza primitiva. Un fenomeno che riguarda soprattutto il discorso religioso nel mondo cattolico, tanto che ancor oggi a sentire certi pronunciamenti sembrerebbe che taluno voglia identificare nel “dialogo” l’intero contenuto della fede cristiana, sicché il “dialogare” sarebbe già per se stesso obbedire alla missione fondamentale di predicare il Vangelo.
Senonché il credente ha – o dovrebbe avere – il “nous” di Cristo; cioè la sua mentalità, la sua visione di Dio e dell’universo, la sua capacità di cogliere il senso di ogni cosa entro il disegno del Padre. “Credere” vuol dire guardare la realtà con gli occhi del Risorto. E qui Biffi cita san Paolo nel secondo capitolo della lettera ai Corinzi: «Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L’uomo naturale (psychicòs) non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale (pneumaticòs) invece giudica ogni cosa…».
Parlare con chi ignora Cristo è perciò come far ascoltare un’esecuzione musicale a chi è sordo dalla nascita o disquisire con chi è sempre stato cieco sul cromatismo di un maestro della pittura. Lo si può anche fare, conclude il cardinale, ma soltanto per ragioni di cortesia, senza alcuna speranza che i “dialoghi” di questo genere abbiano un qualche esito.
Per esempio, non ci si può aspettare che chi non conosce Cristo – sia islamico, ateo o massone – comprenda qualcosa circa l’incarnazione del Figlio di Dio e la redenzione del mondo attraverso il suo sacrificio; circa la Chiesa, sposa del Signore risorto e suo “corpo”, che cammina in questa nostra storia di errori e di peccati senza sviarsi e senza contaminarsi; circa il valore del matrimonio indissolubile e della verginità consacrata; circa la positività e anzi la preziosità del dolore…
Chi è davvero e compiutamente “non credente” è in uno stato di analfabetismo quale che sia la sua forza speculativa naturale e l’ampiezza della sua erudizione. Sulla terra dell’incredulità i cattolici sono dunque “stranieri e pellegrini” e non devono cullarsi nell’illusione che possano intendersi facilmente con tutti.
A questo si aggiungono poi le trappole di chi ricorre al “dialogo” per imbastire una sorta di guerra psicologica istillando nell’interlocutore un atteggiamento propenso alla condiscendenza, alla simpatia, alla non-resistenza e perfino alla resa. Su questo è utile leggere di Plinio Correa de Oliveira Trasbordo inavvertito e dialogo, in cui sono spiegati molto bene i maccanismi che, ad esempio, hanno portato tanti ecclesiastici e laici a diventare collaborazionisti del comunismo prima e delle sinistre ideologie – dal pacifismo, all’immigrazionismo, all’ambientalismo – oggi.
Insomma, a forza di costruire ponti e abbattere muri il rischio è di annacquare e mettere tra parentesi, i fondamenti della fede cattolica, che finisce per diventare uno dei tanti prodotti, magari offerta in saldo, nel supermarket dello spirito.
Per guarire dalla dialoghite probabilmente sarebbe opportuno tornare a fare quello che ormai è diventato sempre più raro: annunciare sic et simpliciter il Vangelo. Ovvero fare ciò che taluni con sommo scandalo e disprezzo definiscono proselitismo e che con buona pace per loro continua ad essere un dovere per il credente e la principale opera di carità cristiana, specialmente in questi tempi satanici.
CRISTO , nella sua vita, come ci affermano i Vangeli, non seguiva le mode dell tempo.
E l’ha pagata cara….
Perché annacquate tutto questo “in omaggio” al cosiddetto dialogo?