La trasfigurazione quaresimale
di don Ruggero Gorletti
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COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO
Seconda domenica di Quaresima
In quel tempo Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
COMMENTO
Che senso ha il racconto della trasfigurazione nel vangelo? Perché la Chiesa mette questo fatto nei vangeli della Quaresima? Noi abbiamo da poco iniziato il cammino della Quaresima: questo cammino, se fatto seriamente, è molto impegnativo: ci chiede di aumentare la preghiera, la penitenza e la carità. Ma in generale la vita cristiana, se presa seriamente, è impegnativa. E per assumerci un impegno, per fare fatica, per rinunciare a qualcosa, è necessario avere una motivazione. E la motivazione ce la da Pietro proprio in questo brano: è bello per noi stare qui. È bello fare l’esperienza di stare con il Signore.
Alla base del cristianesimo non c’è una regola, una morale. Queste sono importanti ma vengono dopo. Anzitutto c’è il fatto che è bello essere cristiani, è bello stare con Gesù, e questo vale tutte le rinunce e i sacrifici che essere cristiani comporta.
Gesù conduce i tre discepoli sul monte, li fa stare un po’ di tempo in disparte con lui, e dona loro la straordinaria esperienza della trasfigurazione. Essi hanno la grazia di vedere, per alcuni istanti, il Figlio come è visto dal Padre, in una luce che non è di questo mondo, che anche l’evangelista balbetta nel descrivere («le sue vesti erano bianchissime, nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere così bianche»), fanno un’esperienza che è un anticipo di paradiso, in cui la pace la gioia sono totali e in cui non si può desiderare altro. E Pietro esprime tutto questo con le parole: «è bello per noi stare qui». È l’esperienza opposta di quella di Adamo, che si nasconde dopo il peccato originale, tentando di allontanarsi da Dio. Pietro invece scopre che è bello stare con Dio, che vale la pena di intraprendere il cammino di purificazione, di fare quello che ci dirà. Ci dice che vale la pena essere cristiani, di fare sacrifici nell’osservare la sua legge e mettersi al suo servizio, perché è bello stare con il Signore.
Ancora una volta, come nell’episodio del battesimo, si ode una voce dal cielo: il Padre ci rende noto che siamo alla presenza del Figlio, quel Figlio generato ma non creato della stessa sostanza del Padre, quel Figlio per mezzo del quale ogni cosa è stata creata. Rispetto all’episodio del battesimo c’è una parola in più: «ascoltatelo». È un comando che ci viene dato. L’esperienza di Dio non può non lasciare traccia nella concretezza del nostro vivere.
Insieme a Gesù appaiono Mosè ed Elia, che parlano con Lui. Mosè ed Elia raffigurano i due elementi fondamentali dell’Antico Testamento: la Legge e i Profeti. E il brano di Vangelo di Luca, parallelo a quello di Marco che abbiamo appena ascoltato, ci dice quale sia l’oggetto del loro colloquio: Gesù con Mosè ed Elia parlava del suo esodo da Gerusalemme, della crocifissione e morte e della resurrezione, il centro della nostra fede, a cui tutto l’Antico Testamento si riferisce.
Il brano di vangelo di oggi ci dice che la croce non è l’ultima parola, la fine di tutto. La croce e la morte sono un esodo, un passare il Mar Rosso per giungere alla terra promessa. La vera terra promessa, a cui ci conduce Gesù con il suo esodo passando dal Calvario, è il Paradiso, quella situazione in cui c’è tutto quello che serve perché possiamo essere pienamente felici e non desiderare altro. Ma, come dicevamo, se la croce non è il termine del cammino, è tuttavia un passaggio obbligato per il paradiso, ed è per questo che il Signore, scendendo dal monte, raccomanda ai tre apostoli di non raccontare ad alcuno l’episodio, se non dopo la resurrezione dai morti. Proprio per non dare l’idea di una gloria che non passi dalla croce. La croce prima ancora che la sofferenza, indica l’accettazione della volontà di Dio sulla nostra vita, che naturalmente comprende anche l’aspetto della sofferenza e della rinuncia, ma esse non sono fini a sé stesse, perché ci aprono il paradiso.