Del numero dei peccati, oltre il quale Iddio non perdona più
di Matteo Castagna
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NON TENTARE IL SIGNORE DIO TUO
Non tentabis Dominum Deum tuum. (Matt. 4. 7.) ” Non tentare il Signore Dio tuo”
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) lo si ricorda soprattutto per la sua tutela dei moralisti, come dal nuovo titolo conferitegli da papa Pio XII nel 1950. Il significato del suo nome, Alfonso, rispecchia sinteticamente la sua personalità: valoroso e nobile. Canonizzato nel 1839, venne decretato da papa Pio IX Dottore della Chiesa nel marzo 1871. Le sue parole fanno riflettere: «Oh quanti uomini vivono gonfi di se stessi per sapere di matematica, di belle lettere, di lingue straniere e di certe notizie di antichità, che niente conducono al bene della religione e niente giovano al profitto spirituale! Ma a che servirà la scienza di queste cose a molti che sanno tante belle cose, e poi non sanno amare Dio e praticar la virtù?».
Attualissima questa Sua omelia:
Nel Vangelo della I Domenica di Quaresima si legge che essendo andato Gesù Cristo al deserto, permise che il demonio lo portasse sopra il pinnacolo, o sia sommità del tempio, ed ivi gli dicesse: Si filius Dei es, mitte te deorsum; soggiungendogli che gli angeli l’avrebbero liberato da ogni offesa. Ma il Signore gli rispose che nelle sacre carte sta scritto: Non tentabis Dominum Deum tuum” Non tentare il Signore Dio tuo”. Quel peccatore che si abbandona al peccato senza voler resistere alle tentazioni, e senza volere almeno raccomandarsi a Dio che gli dia l’aiuto per resistere, sperando che il Signore un giorno lo caverà da quel precipizio; costui tenta Dio a far miracoli, oppure ad usare con esso una misericordia straordinaria fuori dell’ordine comune. Iddio vuol salvi tutti, come dice l’apostolo: Omnes homines vult salvos fieri, ma vuole che ancora noi ci adoperiamo per la nostra salvazione, almeno col prendere i mezzi per non restar vinti dal nemico, e coll’ubbidire a Dio quando ci chiama a penitenza. I peccatori ricevono le chiamate da Dio, e se ne scordano e seguitano ad offenderlo; ma Dio non se ne scorda. Egli numera così le grazie che ci dispensa, come i peccati che noi facciamo; onde allorché giunge il tempo da Dio determinato egli ci priva delle sue grazie, e mette mano a’ castighi. E ciò appunto voglio oggi dimostrarvi nel presente discorso, che quando i peccati arrivano a certo numero, Iddio castiga e più non perdona. Attenti.
Dicono molti santi padri, s. Basilio, s. Girolamo, s. Ambrogio, s. Giovanni Grisostomo, s. Agostino ed altri, che siccome Iddio tiene determinato il numero per ciascun uomo dei giorni di vita, de’ gradi di sanità o di talento che vuol dargli, secondo il detto della Scrittura: Omnia in mensura et numero, et pondere disposuisti, così ancora per ciascuno tiene determinato il numero de’ peccati che vuol perdonargli, compito il quale, più non perdona. Illud sentire nos convenit, dice s. Agostino, tamdiu unumquemque a Dei patientia sustineri, quo consummato, nullam illi veniam reservari. Lo stesso scrive Eusebio Cesariense: Deus expectat usque ad certum numerum, et postea deserit. E lo stesso scrivono i padri nominati di sopra.
Misit me Dominus, ut mederer contritis corde. Iddio è pronto a sanare quei che tengono buona volontà di mutar vita, ma non può compatire gli ostinati. Il Signore perdona i peccati, ma non può perdonare chi ha volontà di peccare. Né possiamo noi chiedere ragione a Dio, perché ad uno perdoni cento peccati, e ad un altro, al terzo o quarto peccato gli mandi la morte, e lo condanni all’inferno. Egli disse per il profeta Amos: Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum. In ciò bisogna adorare i divini giudizi, e dire coll’apostolo: O altitudo divitiarum sapientiae et scientiae Dei! Quam incomprehensibilia sunt iudicia eius! Quegli che è perdonato, dice s. Agostino, è perdonato per sola misericordia di Dio; quegli che è castigato, giustamente è castigato: Quibus datur misericordia, gratis datur: quibus non datur, ex iustitia non datur. Quanti Iddio ha mandati all’inferno al primo peccato! Scrive san Gregorio che un fanciullo di cinque anni, che avea già l’uso di ragione, in dire una bestemmia fu preso dai demoni e portato all’inferno. Rivelò la divina Madre a quella serva di Dio Benedetta di Firenze, che un fanciullo di dodici anni al primo peccato fu condannato; un altro figliuolo di otto anni al primo peccato morì e si dannò. Tu dici: ma io son giovine, vi sono tanti che tengono più peccati di me. Ma che perciò? Perciò Iddio, se pecchi, è obbligato ad aspettarti! Nel vangelo di s. Matteo si dice che il nostro Salvatore la prima volta che trovò un albero di fico senza frutto, lo maledisse dicendo: Numquam ex te nascatur fructus; e quello seccò. E pertanto bisogna tremare di commettere un peccato mortale, e tanto più se tu prima ne hai commessi altri.
Dice Dio: De propitiato peccato noli esse sine metu; neque adiicias peccatum super peccatum. Non dire dunque, peccatore mio: siccome Dio mi ha perdonati gli altri peccati, così mi perdonerà quest’altro se lo commetto. Ciò non lo dire, perché se tu aggiungi un altro peccato al peccato perdonato, devi temere che questo peccato nuovo si unisca al primo peccato, e così si compisca il numero, e tu resti abbandonato da Dio. Ecco come ciò più chiaramente lo spiega la scrittura in altro luogo: Dominus patienter expectat, ut eas (nationes), cum iudicii dies advenerit, in plenitudine peccatorum puniat. Iddio dunque aspetta ed ha pazienza sino a certo numero; ma quando è piena la misura de’ peccati, non aspetta più e castiga: Signasti quasi in sacculo delicta mea. I peccatori mettono i loro peccati nel sacco, senza tenerne conto, ma ben ne tiene conto Iddio per dare il castigo, quando è maturata la messe, cioè quando è compito il numero: Mittite falces, quoniam maturavit messis.
Di tali esempi poi ve ne sono molti nelle divine scritture. In un luogo parlando il Signore degli ebrei disse: Tentaverunt me per decem vices, ecco come egli numera i peccati, non videbunt terram, ecco come compito il numero, castiga. In altro luogo parlando degli amorrei, disse che trattenea il loro castigo, perché non ancora era compito il numero delle loro colpe: Necdum enim completae sunt iniquitates amorrhaeorum. In altro luogo abbiamo l’esempio di Saulle, che avendo la seconda volta disubbidito a Dio, restò abbandonato, talmente che pregando egli Samuele che si fosse interposto per lui appresso il Signore: Porta, quaeso, peccatum meum, et revertere mecum, ut adorem Deum: Samuele che sapea averlo Dio abbandonato, rispose: Non revertar tecum, quia abiecisti sermonem Domini, et proiecit te Dominus etc: Saulle, tu hai abbandonato Dio e Dio ha abbandonato te. Di più vi è l’esempio di Baldassarre, il quale stando a mensa colle sue donne profanò i vasi del tempio, ed allora vide una mano che scrisse sul muro: Mane, Thecel, Phares. Venne Daniele e richiesto della spiegazione di tali parole, spiegando la parola Thecel, disse al re: Appensus es in statera, et inventus es minus habens: dandogli così ad intendere che il peso de’ suoi peccati avea fatto traboccar la bilancia della divina giustizia; ed in fatti nella stessa notte fu ucciso: Eadem nocte interfectus est Balthassar rex chaldaeus. Ed oh a quanti miseri avviene lo stesso, che seguitano essi ad offendere Dio, quando giungono i loro peccati ad un certo numero, son colti dalla morte, e mandati all’inferno! Ducunt in bonis dies suos, et in puncto ad inferna descendunt! Trema, fratello mio, che ad un altro peccato mortale che fai Iddio ti mandi all’inferno.
Se Dio mettesse mano a’ castighi subito quando l’uomo l’offende, non si vedrebbe Dio così disprezzato, come ora si vede; ma perché egli non castiga subito, e per sua misericordia aspetta e trattiene il castigo, perciò i peccatori si danno animo a seguire ad offenderlo: Quia non profertur cito contra malos sententia, absque timore ullo filii hominum perpetrant mala. Ma bisogna persuadersi che Dio aspetta e sopporta, ma non aspetta e non sopporta sempre. Sansone seguitando a trescare con Dalila sperava di liberarsi dalle insidie de’ filistei, come avea fatto altre volte: Egrediar sicut ante feci, et me excutiam. Ma in quella volta restò preso, e gli fu tolta la vita. Non dire, avverte il Signore: io ho fatti tanti peccati, e Dio non mi ha castigato: Ne dixeris, peccavi, et quid accidit mihi triste? Altissimus enim est patiens redditor. Iddio ha pazienza sino a certo termine, passato il quale, egli castiga i primi peccati e gli ultimi. Viene una, come suol dirsi, e paga tutto. E quanto maggiore sarà stata la pazienza di Dio, tanto più grave sarà la sua vendetta.
Onde dice il Grisostomo che più dee temersi quando Iddio sopporta, che quando subito castiga: Plus timendum est, cum tolerat, quam cum festinanter punit. E perché? Perché, dice s. Gregorio che coloro, coi quali Dio usa più misericordia, se non la finiscono, più rigorosamente sono puniti: Quo diutius expectat (Deus) durius damnat. E soggiunse il santo che questi tali spesso sono castigati da Dio con una morte improvvisa, senza aver tempo di convertirsi: Saepe qui diu tolerati sunt, subita morte rapiuntur, ut nec flere ante mortem liceat. E quanto più grande è la luce che il Signore dà ad alcuni per emendarsi, tanto maggiore è la loro accecazione ed ostinazione nel peccato. Scrisse s. Pietro: Melius enim erat illi non cognoscere viam iustitiae, quam post agnitionem retrorsum converti. Miseri quei peccatori che dopo la luce avuta tornano al vomito; mentre dice s. Paolo essere impossibile, moralmente parlando, che costoro di nuovo si convertano: Impossibile est enim, eos qui semel illuminati sunt, gustaverunt etiam donum coeleste… et prolapsi sunt, rursus renovari ad poenitentiam.
Senti dunque quel che ti dice Dio, o peccatore: Fili, peccasti, non adiicias iterum, sed et de pristinis deprecare, ut tibi dimittantur: Figlio, non aggiungere offese a quelle che mi hai fatte, ma attendi a pregare che le prime ti sieno perdonate: altrimenti può essere facilmente che ad un altro peccato grave che farai si chiudano per te le divine misericordie, e tu resti perduto. Quando dunque, fratello mio, il nemico ti tenta a commettere un altro peccato, di’ fra te stesso: e se Dio non mi perdona più, che ne sarà di me per tutta l’eternità? E se il demonio replica: non temere, Dio è di misericordia: rispondi: ma qual sicurezza ho io o qual probabilità, che tornando a peccare, Iddio mi userà misericordia e mi perdonerà? Ecco quel che Dio minaccia a quei che disprezzano le divine chiamate: Quia vocavi et renuistis… ego quoque in interitu vestro ridebo et subsannabo vos. Notate quelle due parole, ego quoque, vengono a dire che siccome tu avrai burlato Dio confessandoti, promettendo e poi di nuovo tradendolo; così Dio si burlerà di te nella tua morte, ridebo et subsannabo. Il Signore non si fa burlare, Deus non irridetur. E il savio dice: Sicut canis qui revertitur ad vomitum suum, sic imprudens qui iterat stultitiam suam. Il b. Dionigi Cartusiano spiega eccellentemente questo testo, e dice che siccome rendesi abbominevole e schifoso quel cane che mangia quello che prima ha vomitato; così rendesi odioso a Dio chi ritorna a fare quei peccati che prima ha detestati nella confessione: Sicut id quod per vomitum est reiectum, resumere est valde abominabile ac turpe, sic peccata deleta reiterari, sono le parole del Cartusiano.
Ma gran cosa! Se tu compri una casa, tu usi già tutta la diligenza per assicurar la cautela e non perdere il tuo danaro; se prendi una medicina cerchi di assicurarti bene che quella non ti possa far danno; se passi un fiume cerchi di assicurarti di non cadervi dentro; e poi per una breve soddisfazione, per uno sfogo di vendetta, per un piacere di bestia, che appena avuto finisce, vuoi arrischiare la tua salute eterna, dicendo: poi me lo confesso! E quando, io ti dimando, te lo confesserai? Domani. E chi ti promette questo giorno di domani? Chi ti assicura che avrai questo tempo, e Dio non ti faccia morire in atto del peccato, come è succeduto a tanti? Diem tenes, dice s. Agostino, qui horam non tenes? Tu non puoi star sicuro di avere un’altra ora di vita, e dici: Domani me lo confesserò? Senti ciò che dice s. Gregorio: Qui poenitenti veniam spopondit, peccanti diem crastinum non promisit. Iddio ha promesso il perdono a chi si pente, ma non ha promesso di aspettare sino a domani chi l’offende; forse il Signore ti darà tempo di penitenza e forse no; ma se non te lo dà, che ne sarà dell’anima tua? Frattanto per un misero gusto già tu perdi l’anima, e ti metti a rischio di restar perduto in eterno.
Faresti tu per quella breve soddisfazione un vada tutto, danari, casa, poderi, libertà e vita? No; e poi come per quel misero gusto vuoi in un punto far perdita di tutto, dell’anima, del paradiso e di Dio? Dimmi, credi tu che sieno verità di fede il paradiso, l’inferno, l’eternità? Credi tu che se ti coglie la morte in peccato sei dannato per sempre? E che temerità, che pazzia, condannarti da te stesso ad un’eternità di pene, con dire: spero appresso di rimediarvi? Dice s. Agostino: Nemo sub spe salutis vult aegrotare; non si trova un pazzo che si prenda il veleno con dire: appresso piglierò rimedj e mi guarirò; e tu vuoi condannarti all’inferno, con dire: appresso me ne libererò? Oh pazzia che ne ha portati e ne porta tanti all’inferno, secondo la minaccia di Dio che dice: Fiduciam habuisti in malitia tua, veniet super te malum, et nescies ortum eius. Hai peccato confidando temerariamente nella divina misericordia, ti verrà improvvisamente il castigo, senza saper donde viene. Che dici? Che risolvi? Se a questa predica non fai una forte risoluzione di darti a Dio, ti piango per dannato.