“Siamo tutti ebrei, oggi?”
di Marco Andreacchio
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PENSIERI SUL NOSTRO DESTINO TECNOLOGICO, SEGUITI DA UNA POSTFAZIONE SU DIVERSITÀ E ALTERITÀ
Nel 1978 Hans Askenasy pubblicò un volume intitolato Are We All Nazis? Prendendo spunto da una serie di esperimenti condotti dallo psicologo di Yale Stanley Milgram (autore di Obedience to Authority del 1969), Askenasy mostra quanto sia stranamente facile per persone progressiste e liberali del secondo dopoguerra – persone in sintonia con i nostri tempi – iniziare a comportarsi come dei nazisti tedeschi.
Ammettendo che l’ipotesi di Askenasy sia ben fondata, se oggi fossimo tutti nazisti, chi sarebbero le nostre vittime? Ironia della sorte, i nazisti diverrebbero manifestamente le proprie vittime, sotto il controllo di uno strumento tecnologico di disumanizzazione che morde la mano di coloro che lo alimentano. Il processo di nazificazione si concluderebbe con una conversione esplicita del ruolo del nazista in quello fatale dell’ebreo. In altri termini, l’obiettivo ultimo del movimento ideologico nazional socialista si svelerebbe oggi più che mai essere il suicidio collettivo già presagito, tra l’atro, da Dostoevsky come fase terminale dello sviluppo della modernità (1).
Composto agli albori del nostro mondo machiavellico, Il Mercante di Venezia di Shakespeare ci aiuta a capire che i nazisti odiano gli ebrei per aver posto il denaro al servizio di una legge antica, lì dove la modernità ci chiama ad usare il denaro per stabilire un nuovo ordine mondiale aldilà di ogni conflitto tribale. Oggi il nuovo mondo viene a coincidere con la tecnocrazia che si sta attualmente consolidando, su scala planetaria (2); un regime in cui ognuno di noi – non semplicemente il prototipo ebraico nel Lager nazista – è un numero privo di umanità, non foss’altro che sotto la patina di un propaganda della kindness (“benevolenza”) universale attualmente in voga su scale planetaria (3). Al termine del percorso della modernità, il mondo intero si trasforma in un gigantesco Lager in cui l’umanità è totalmente abolita.
Giacomo Leopardi vide arrivare l’esito in questione nel diciannovesimo secolo; Giambattista Vico nel diciottesimo; Shakespeare nel sedicesimo (4). Il mondo moderno non rifiuta semplicemente Dio: lo reinventa come tecnologia intesa in termini di dominio della natura, in primo luogo della natura umana. La maestria, qui, consiste nel tenere a bada tutto ciò che in natura risulti pericoloso, ma soprattutto la verità, che, come ci ricorda un antico adagio, ama nascondersi, cioè nascondersi nella natura, in tutto ciò che della natura è oscuro— primordialmente la morte.
Ciò che è pericoloso e che dovrebbe essere domato nel mondo moderno è visibilmente la morte, tana sia della verità che dell’amore per la verità. La tecnologia della modernità non è essenzialmente altro che il dominio o l’addomesticamento di una morte che l’uomo tecnologico ritiene altrimenti essere semplicemente una mostruosità violenta ed intollerabile.
L’ADDOMESTICAMENTO DELLA MORTE
L’addomesticamento della morte viene a coincidere con l’amministrazione di una morte separata dal “Sacro” (Das Heilige) che Rudolf Otto scorgeva come pericolo profondo di cui l’uomo moderno era diventato progressivamente ignaro, a suo danno. Donde rileviamo che la tecnologia moderna non bandisce la morte; la gestisce piuttosto, o la governa in conformità con i principi mercantili su cui si fonda il mondo moderno nel suo insieme. La modernità commercializza la morte, confezionandola come merce; stabilisce allora un commercio della morte, dalla quale è strategicamente alimentata. (5).
L’idea stessa del nostro “brave new world” (espressione shakespeariana alla quale Aldous Huxley ridonò lustro nel 1932) comporta l’astrazione machiavellica di un mondo meccanicamente autonomo rispetto ad un pensiero o ragione naturale che vede in Platone la sua rappresentazione più emblematica. Il classico nesso teologico-politico è sostituito da un nuovo legame in cui la dimensione teologica è usata “geometricamente” (more geometrico, secondo Spinoza) per potenziare l’elemento politico “riformato” (si pensi ai “modi ed ordini nuovi” del Machiavelli), non più aperto al mistero teologico, ma avvalentesi di “idee chiare e distinte” di stampo cartesiano concernenti il divino, al fine di stabilire un nuovo ordine mondiale dominato dal nuovo dio che conosciamo sotto il nome di tecnologia.
La questione del perché si faccia appello a Dio, oggi, è nel contempo una questione di mezzi, del come dunque, così come il problema dei fini tende ad essere ridotto alla rauca affermazione di una presunta libertà: siamo educati a fare appello a Dio tecnologicamente, come mezzo di salvezza dalla morte selvaggia che Hobbes notoriamente condannava come radicalmente violenta (6); ma invochiamo Dio tecnologicamente anche nel senso che il nostro stesso appello è mediato dalla tecnologia come modus operandi quotidiano, come nostro modo ordinario di relazionarci alla salvezza o di concepirla. Il modo in cui tendiamo a rapportarci a Dio è tecnologico nel senso che ci basiamo sul calcolo o sull’astuzia, usando una patina di sentimento per giustificarci. L’astuzia moderno-mercantile non si rivolge semplicemente o ingenuamente a Dio; non fa appello a Dio come contesto pericoloso/vivente e supremo del nostro appello (7); fa piuttosto appello a Dio simbolicamente, come ad una maschera innocua della tecnologia e quindi anche di un modo tecnologico o machiavellico di ricerca del self-empowerment (ossia, in termini nietzscheiani, di accrescimento di potenza). Ci appelliamo a Dio nella misura in cui ci vediamo nell’atto di appellarci a Dio sul palcoscenico teatrale della tecnologia.
Perché dunque facciamo appello a Dio? Qual è lo scopo del nostro appello? Il nostro obiettivo prossimo è quello di edulcorare la tecnologia che costituisce l’unica provvidenza di cui siamo abituati a fidarci in termini pratici e a temere. Non abbiamo bisogno di riferirci esplicitamente alla tecnologia come a Dio, in quanto la tecnologia è già il nostro modo di vivere, un assunto che non ha bisogno delle nostre preghiere, in parte perché rimane sordo ad esse ed in parte perché usa le nostre preghiere ad “altri Dei” come mezzo per renderci irragionevolmente asserviti alla tecnologia.
LA TECNOLOGIA ADDOMESTICA IL NOSTRO DIO?
I nostri Dei formali sono utili quanto lo sono gli appelli che gli rivolgiamo. Invochiamo un Dio in quanto utile (come il Dio degli utilitaristi); lo invochiamo servendocene, o lasciando che la tecnologia ce lo addomestichi. In che modo la tecnologia addomestica il nostro Dio? Tenendolo “al sicuro” nell’ambito di una religione scelta privatamente o soggettivamente. La religione si converte in “club” o “sottocultura” (8) che struttura la nostra “spiritualità”, rendendola utile e quindi formalmente legittima (legittima agli occhi del regime tecnologico), integrandola al servizio di una società utilitaristica a pieno titolo, la società tecnologica di mezzi che sono divenuti o stanno diventando i nostri nuovi fini.
Ciò che abbiamo qui è la parodia di un riconoscimento classico (sia antico che medievale) che ciò che ci è dato naturalmente (physei, come direbbe Aristotele) non è un mezzo per alimentare i nostri appetiti, ma un fine in un contesto divino. L’odierna elevazione tecnologica dei mezzi allo statuto di fini comporta l’identificazione idolatra dei mezzi con fini simbolici di cui ci serviamo per garantire la presunta autonomia dei nostri appetiti da qualsiasi considerazione concernente fini permanenti della vita.
La conversione del nazista in “ebreo” da eliminare a causa del suo persistente legame con la “vecchia morale” legata, a sua volta, ad un “istinto platonico” di ritornare ad origini integralmente buone ossia naturalmente desiderabili (dove ciò che è assolutamente primordiale è assolutamente migliore) è resa finalmente possibile dal consolidamento di una società in cui siamo tutti nazificati nella misura in cui siamo tutti integrati nella macchina della disumanizzazione, macchina che abolisce formalmente ogni legame inalienabile tra l’uomo e Dio. Il vecchio legame naturale è ora formalmente sostituito da un legame tecnologico basato sull’assunto che, in assenza di tecnologia, solo il nudo sentimento, solo sentimenti fugaci e pericolosi, potrebbero mettere l’uomo in relazione con Dio, ossia con una nostra finalità universale.
Evidentemente l’assunto in questione presuppone che l’intelligenza divina non sia presente ed operante nel sentimento umano, e quindi che i nostri sentimenti non siano originariamente animati da una scintilla di ragione. La tecnologia trova la sua giustificazione primaria nel presupposto che il nostro legame naturale con il divino non sia in alcuna misura razionale, o intrinsecamente significativo e traducibile in termini politici. L’arena politica dovrebbe quindi essere gestita dalla tecnologia, che ridefinirebbe così la politica in termini “positivistici” come astratta o alienata dalla morte nella sua accezione di pericolo ultimo. Il nostro stesso pensiero dovrà essere distratto dal problema della morte cruda, anche se ciò che otterremo è mera confusione mentale, una confusione che ci rende progressivamente vulnerabili ai dettati della tecnologia.
Nel mirino della violenza ritroviamo il nazista allorché il mondo stesso è trasformato in Lager, guisa terminale di un laboratorio in cui lo “scienziato” fa da propria cavia, dato che la “mente” del laboratorio è ora la macchina stessa: la macchina come logica che sta oggettivandosi nello strumento tecnologico che allora assurge al compito di amministratore (causa efficiens) della giustizia.
IL DESTINO DELLA TECNOLOGIA
L’internet ed i suoi onnipresenti algoritmi testimoniano in modo lampante il destino della tecnologia. Gli algoritmi non sono semplicemente prodotti dagli uomini, poiché articolano una logica speciale che guida gli ingegneri informatici. Gli uomini svolgono il ruolo d’ingranaggi di una macchina che include, qui, nel contempo mezzi e fini – entrambi una logica e la sua guisa oggettiva di strumento – rispondendo a qualsiasi questione etico-morale in qualità di suo contesto formale generale. Il giusto, ora, è ciò che è eminentemente progressista, cioè favorente l’ascesa o trionfo (soprattutto in termini di potenza) della società tecnologica; e l’algoritmo è lì per garantire che il pubblico rimanga in linea con l’imperativo generale: servire la tecnocrazia incondizionatamente, anche e soprattutto laddove il regime stabilisca che dobbiamo identificare altruisticamente la nostra servitù nei confronti della macchina con il modo più dignitoso possibile di essere liberi.
Che dire di coloro che non sono sulla stessa lunghezza d’onda? La loro ragione viene negata, dal momento che la loro voce è sommersa da valanghe incessanti di flussi di informazioni, non ultime quelle di “notizie scioccanti” che dovrebbero distrarci da qualsiasi notizia che non contribuisca prontamente al consolidamento del regime tecnocratico. Coloro che non sono sulla stessa lunghezza d’onda devono essere, come segnala la distopia di Aldous Huxley, selvaggi bisognosi di rieducazione ai modi della nuova macchina; bisognosi di accettare che ogni divinità personale resta in definitiva maschera della vera provvidenza quasi-divina della tecnologia, ministro supremo di tutti i credi e cardine omogeneizzante di qualsiasi comunicazione tra credi.
Il timore di Askenasy che si diventi tutti nazisti trova oggi la sua concreta giustificazione nella conversione di tutti gli uomini in “ebrei”, in quanto la natura umana come culla della manifestazione dell’autorità divina “patriarcale” è sempre stata il vero bersaglio della modernizzazione (9). Perché la modernità richiede l’abrogazione della natura umana attraverso la sua trasformazione tecnologica tale che ci permetta di essere tutti emancipati dal nostro più intimo impulso verso la perfezione trascendente divina, un impulso identificato come seme di tutti i mali. Tale è “l’ebreo”, virus ostinato da cui la tecnologia dovrebbe liberarsi, se non altro in nome di un pianeta che, oggi può richiedere l’abbattimento delle nostre mucche sotto il pretesto che il loro gas intestinale possa ledere “equità e diversità” geologiche, mentre domani potrebbe invocare un olocausto ben più audace.
Se il vero bersaglio nazismo del XX secolo non fu una mera entità fisica, ma ciò che gli ebrei rappresentavano essenzialmente e nell’immaginario popolare europeo, vale a dire l’alleanza tra la ragione umana e l’autorità divina, allora in termini pratici i nazisti tedeschi vinsero la Seconda Guerra Mondiale. Perché anche se il loro obiettivo non è stato raggiunto assolutamente, oggi il progetto nazista è comunque diventato planetario e le moderne società liberali sono giunte ad abbracciarlo come una fatalità storica. Cosa significò fondamentalmente “il totale annientamento degli ebrei” da parte dei nazisti degli anni ‘30-40? Quale fu il nucleo sostanziale della “Soluzione Finale” di Hitler? Una singola ed inequivocabile risposta ci è data dall’obiettivo che si sono fatti proprio le società liberal-progressiste ossia tecnologiche del secondo dopoguerra, vale a dire il completo oscuramento o l’abolizione in termini di prassi del legame naturale tra vita politica e intelligenza divina – legame a prescindere dal quale non ci sarebbe mai permesso di proclamare e difendere significativamente la dignità dell’essere umano (hominis dignitas). (11)
POSTSCRIPTUM: Dall’alterità alla diversità?
“…occorre porre una distinzione tra differenza e alterità. La prima non è necessariamente del registro della seconda. L’esaltazione contemporanea della differenza è forse anche il segno più evidente della sparizione su tutti i fronti dell’alterità” (Dominique Quessada, Court traité d’altéricide). (12)
L’abrogazione nominale moderna della reciproca irriducibilità dell’umano e del divino è progredita di pari passo con l’ascesa di un “Regime della Diversità” planetario. L’esaltazione della diversità non ha, però, eradicato il problema dell’alterità: l’uomo moderno non ha affatto oltrepassato l’alterità della natura e di Dio rispetto all’uomo; ci siamo semplicemente alienati da quell’alterità e quindi dalla nostra propria natura. Non possiamo eliminare il problema fondamentale dell’uomo come altro rispetto sia alla natura/generazione che all’intelligenza o principio-guida di essa natura, semplicemente ignorandolo intenzionalmente, per quanto faticosamente ci fossimo proposti di distrarci da qualsiasi dimensione della realtà che trascenda la nostra capacità intellettiva. In effetti, il problema metafisico dell’alterità riemergere per l’uomo moderno come un problema quasi-politico minacciante, con una violenza sempre crescente, di sovvertire completamente il nostro regime di diversità.
Lungi dall’averci permesso di convivere pacificamente o di “tollerarci” a vicenda in nome della diversità, la nostra alienazione dalla dimensione metafisica del problema dell’alterità ci ha catapultati in un’arena socio-politica dominata dal sospetto di tutti contro tutti, dove ognuno è lupo tra lupi, per parafrasare l’espressione machiavellica di Hobbes, homo homini lupus. O meglio, aldilà della barbarie di un’antichità che arrivò a definire lo straniero come nemico (il latino hostis – donde i nostri “ospite” e “ostile” – designa entrambi), oggi “l’altro” emerge come vero e proprio “inferno” (tale lo valuterà Sartre), “minaccia esistenziale”, ovvero intollerabile virus demonizzato dal quale solo un nuovo deus ex machina potrebbe salvarci (subentrante, non per carenza di una rivelazione superiore, ma a causa di un nostro rifiuto strategico di qualsiasi divinità implicita nella natura stessa delle cose).
La tecnologia, il perfetto “Dio dalla macchina” odierno, viene a salvarci dall’esposizione all’alterità radicale di tutto ciò che altrimenti pretendiamo essere semplicemente “diverso”. La tecnologia funge da vaccino collettivo contro la verità o interiorità di tutto ciò che è clinicamente o “positivisticamente” classificato come diverso, confermando che il prezzo da pagare per la nostra convivenza è la disumanizzazione universale, ovvero la neutralizzazione di tutto ciò che in noi è destinato ad un’alterità metafisica. L’ideologia più recente della “neutralità del genere” si trova significativamente sulla punta di un iceberg tecnocratico o trans-umanista sul quale tutto ciò che è propriamente umano deve essere abolito – come già preannunciava tangenzialmente al Frankenstein di Mary Shelley, per quanto propiziamente satirico, il Leopardi delle Operette Morali (si pensi p.es. alla “Proposta di premi fatta dall’accademia dei Sillografi” del 1827) – per trasposizione su di una piattaforma completamente meccanica.
Non basta che la tecnologia tenga a bada una natura pericolosa; i pericoli della natura devono essere tradotti in termini tecnici (come problemi che l’homo faber può, in linea di principio, risolvere) permettendoci di addomesticare l’alterità della natura, soprattutto considerando che il nostro regime tecnocratico-globalista ha sistematicamente e quasi ubiquitariamente, anche se inconsapevolmente, favorito la conversione dell’alterità metafisica in ideologie miranti ad affermare una linea di condotta o “stile di vita” alternativi rispetto ad ogni altro.
Oggi “l’altro ideologico” si presenta come l’incarnazione più pericolosa, per non dire perniciosa, di un vecchio altro metafisico, servendo di fatto da pretesto o giustificazione formale per un consolidamento radicale della tecnocrazia: intervenendo per vigilare sulla diversità – in particolare imponendo una rigida separazione ufficiale tra la sfera privata e quella pubblica – la tecnologia (non semplicemente lo strumento “oggettivo”, ma il modus operandi che domina la nostra epoca) promuove la visione, o piuttosto il dogma secondo cui ogni alterità metafisica è costitutivamente ideologica. Qualsiasi appello all’alterità metafisica sarà quindi spinto a convertirsi in progetto ideologico volto a sovvertire “storicamente” o in termini “secolari” il nostro Regime della Differenza. Donde la presunta necessità di un progressivo consolidamento dell’egemonia della tecnologia, che per definizione è planetaria/globale in scala/visione dal momento che pretende di definire il fondamento stesso della vita e dell’ordine politico.
Come risponde la tecnologia alla proliferazione dell’alterità ideologica nata dal rifiuto moderno dell’alterità propriamente metafisica? Il nostro regime tenta di esorcizzare alternative ideologiche trasferendole sul proprio terreno, digitalizzando o fornendo uniformità tecnologica a qualsiasi alterità presumibilmente ideologica. Di qui il passaggio contemporaneo dall’alterità sovrumana all’uniformità transumana, per cui la differenza radicale ed il clima di crisi che la rappresenta si convertono in norma suprema: “la nuova normalità”.
Qual è stato allora il destino dell’alterità nel mondo moderno? Mentre in epoche remote l’altro umano era stato definito alla luce di un altro sovrumano – sia questo natura o Dio – in tempi moderni, poiché l’altro sovrumano, o piuttosto eterno, viene “secolarizzato” e quindi inscritto nella sfera politico-morale della vita, inevitabilmente l’alterità politica ci segnala un’inimicizia radicale: l’atro politico non è più semplicemente un nemico che potrebbe diventare un vero alleato su basi naturali o divine, ma una manifestazione del male assoluto.
L’elevazione moderna della moralità a livelli virtualmente o simbolicamente teologici ha discreditato come impossibile qualsiasi dialogo (razionale) sui nostri fini morali. L’abbandono moderno di un paradigma classico dell’alterità e quindi di Dio e/o della natura come altro primordiale (non integrato in qualsiasi ordine morale “illuminato”) ci ha portati progressivamente a supporre pregiudizialmente che il nostro altro morale, ossia chiunque si consacri a fini morali diversi dai nostri, debba essere il nostro nemico radicale, rappresentante di ciò che Kant chiamerebbe “male radicale” (das radikal Böse) e come tale qualcuno con cui qualsiasi dialogo sincero è categoricamente impossibile.
Data questa premessa, ci sentiamo costretti ad accettare il compromesso tipico del liberalismo moderno: possiamo fingere di discutere su fini, mentre in realtà parliamo semplicemente di mezzi per promuovere l’agenda del relativismo, vale a dire di un regime in cui si presume generalmente che i nostri fini siano imposti meccanicamente sulla nostra visione “soggettiva” di essi. Di conseguenza, dovremmo poter parlare di “punti di vista” riguardanti i fini, ma non dei fini stessi. Ma ecco che “punti di vista” o “perspettive” non sono altro che mezzi che il moderno regime “liberale” utilizza per consolidarsi radicalizzando così l’alienazione tra mezzi e fini, ossia tra il contenuto della nostra coscienza (cioè il nostro sentimento) e la forma della nostra coscienza (l’autorità, celata o palese, che determina il nostro sentimento).
L’abbandono moderno di discussioni classiche riguardanti “la migliore forma di governo” attesta l’alienazione tipicamente moderna dei mezzi dai fini, stabilita la quale giungiamo a supporre che “il migliore” sia l’unico necessario: fatalità “storica” meccanicamente fondata. Non pensiamo a ciò che è assolutamente o intrinsecamente migliore, perché non riconosciamo alcun criterio sovra-politico/morale che ci permetta di discernere un regime come il migliore tra tutti gli altri. Non ci resta che accontentarci, in modo provvisorio, di mere opinioni su ciò che è meglio. La nostra conoscenza o “scienza” sarà radicalmente provvisoria e sarà persino orgogliosa di essere sempre radicalmente aperta alla revisione.
Il “relativismo” della nostra scienza è richiesto dal nostro presupposto che il criterio più elevato o il fondamento assoluto della nostra conoscenza è totalmente incommensurabile con le nostre differenze politico-morali. Non può esserci alcuna gerarchia naturale di valori o fini, ma solo un fine supremo assoluto imposto meccanicamente su di una molteplicità indefinita di differenze ugualmente significative o insignificanti.
Il mondo moderno si è sviluppato in opposizione alla rivendicazione “platonica” medievale dell’alterità come carattere inalienabile del nostro mondo/cosmo, dove l’umano è meglio o propriamente compreso alla luce del divino, così come i fini umani sono meglio compresi alla luce di fini divini (lezione magistralmente articolata in sintonia fondamentale con Tommaso d’Aquino, nel Monarchia di Dante). Il consolidamento dell’ideologia moderna, ossia del progetto moderno di stabilire un mondo aldilà del classico problema filosofico dell’alterità, ha aperto le porte ad un’era di diversità in cui la crisi emerge come norma suprema dal momento che il conflitto viene inteso come “primo motore” universale, per parlare in termini aristotelici.
L’appello contemporaneo alla diversità va di pari passo con il nostro rifiuto categorico di qualsiasi modello divino per l’ordinamento della nostra vita. La nostra alienazione dall’entelechia classica e quindi dalla necessaria inerenza dei fini nei mezzi, e dunque il nostro rifiuto del primato assoluto dell’atto sulla potenza, ci ha proiettati in un mondo nuovo in cui i fini non vengono scoperti come offerti en arche o “in principio”, ma escogitati proprio mentre lasciamo o fingiamo di lasciarci alle spalle le “cose prime”. Inevitabilmente, la diversità arriva a sostituire l’alterità come nostro standard morale, soprattutto visto che la diversità implica un potere che si scatena attraverso la divergenza da qualsiasi percorso centripeto della vita e dal suo fulcro trascendente (13).
In assenza di un tutto originario (tale l’holon aristotelico), le parti acquisiscono o si presume che acquisiscano la loro identità, il loro stesso essere, attraverso la diversificazione. “Io sono ciò che sono nel processo di diversificazione da tutti gli altri” (dove l’alerità però si omogeneizza e quindi neutralizza nella differenziazione, per cui diverremmo tutti ugualmente “diversi”). Ecco l’essere definito dalla differenza, per cui essere significherebbe differire. In termini teologici, l’ortodossia viene definita ora anarchicamente e quindi tirannicamente dall’eresia. Questa conclusione atomistica richiede necessariamente una collaborazione universale che garantisca il consolidamento di un garante generale della diversità. Donde l’ascesa della tecnocrazia come regime in cui tutti lavorano per costruire il deus ex machina, unico garante della diversità di tutti.
Perché sentiamo il bisogno di una macchina del genere? Alcuni di noi potrebbero essere “più diversi” di altri; o, per parlare in modo meno eufemistico, alcuni potrebbero essere così diversi da negare ad altri il diritto alle proprie differenze. Il regno della diversità richiederà un’uniformità di sottomissione ad una macchina generale istituita per assicurarci che nessuno esporrà la diversità al vecchio problema dell’alterità: affinché si possa essere tutti ugualmente diversi, nessuno deve potersi elevare “tridimensionalmente” ad un modo di vivere capace di mettere in ombra il primato della diversità sull’alterità, limitando in qualche modo il ricorso alla diversità. Dopo tutto, la diversità potrebbe essere vista come un mero mezzo per raggiungere un fine più elevato, un principio presupposto da ogni diversità. Alcune delle nostre differenze potrebbero essere sottoposte a giudizio davanti a standard che trascendono le pianure della diversità centrifuga, standard che sono del tutto “diversi” rispetto al caleidoscopio delle nostre differenze sfrenate. Un ritorno all’alterità genuina costituirebbe, in sintesi, una minaccia terribile o “esistenziale” per la nostra epoca di diversità e le sue “società pluralistiche”, e quindi per quell’anarchia concettuale, morale e fisica che il dominio dispotico della tecnologia stabilisce oggi come la nostra più alta norma – come se un destino “evolutivo” ci avesse condannato a cercare nei capricci del potere diversificato la nostra unica e vera salvezza.
Non ci è concessa alcuna alternativa, oggi, rispetto ad un tiranno tecnologico che nasconde la sua alterità – la sua logica dominante – dietro la cornucopia di artefatti che dovrebbero potenziarci o affermare la nostra diversità sulla scia della vertiginosa “morte di Dio” annunciata dai profeti ottocenteschi (non ultimi Nietzsche e Dostoevskij) dell’autodistruzione della ragione moderna. Nessuna alternativa seria può dipendere da una nostra scelta individuale o collettiva che la si ritenga (questo può mostrarcelo anche Heidegger), in quanto la nostra libertà deve ancora essere coltivata e trasformata in forma mentis (lo hexis/habitus di Aristotele) da forze “esterne”. Chi o cosa potrebbe (ri)educarci alla libertà, aiutandoci così a superare il miraggio della libertà fisica astratta da qualsiasi vetta metafisica?
Attualmente, eredi della rivoluzione cartesiana, in generale rimaniamo in uno stato di compulsione, dimenandoci come degli ego che credono o fingono di scegliere il potere diversificato dispensato convulsamente dal Leviatano della riproduzione meccanica planetaria. In quanto “soggetti” cartesiani formali, costretti a riempirsi di “oggettività” tecnologicamente mediata, difficilmente ci eleviamo a cercare una libertà che non sia essenzialmente edonistica, o “della carne” (14). Nel suo stato più etereo, la libertà che cerchiamo sarà un intrattenimento “virtuale”, distrazione effimera dalla sfida di rapportarci ad un’alterità autentica (15).
Abbiamo bisogno di insegnanti, “motori esterni” che ci riportino sui binari della civiltà classica, ma i mezzi di comunicazione pubblica sono stati cooptati dalla Macchina e la nostra ricettività al pensiero è quasi completamente annegata nel pantano di poteri sempre nuovi e diversificati. Data tale premessa, è evidente che le nostre nazioni non ritorneranno ad alcuna vera libertà, almeno finché non avremmo attraversato una demolizione o conflagrazione decisiva della tecnologia. Ciò comporterebbe ovviamente una devastazione umana di portata planetaria, catastrofe universale che però altri non è che la deflagrazione della barbarie alla cui repressione e dunque dissimulazione stiamo attualmente lavorando collettivamente. Sino ad allora e a lungo dipoi, l’unico segno di autentica libertà che percepiremo sarà il “grido solitario nel deserto” (vox clamantis in deserto) che si annunciava al mondo delle nazioni già nel Vangelo di Giovanni 1:23 (16).
NOTE:
(1) Sull’indole suicida dell’uomo moderno basterebbe però rivisitare il buon Vico nostrano, per esempio là dove ci avverte dell’anima oscura dell’ottimismo illuminista, notando che, “Gli uomini prima sentono il necessario; dipoi badano all’utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano del piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze”—Principi di scienza nuova delle nazioni, 1744: “Degli Elementi,” 66. Vale notare parenteticamente che nel suo celebrato capolavoro Vico espone socraticamente i veri ed “antichissimi” principi della scienza politica moderna. Cfr. pp. 90-92 del mio “Autobiography as History of Ideas: An Intimate Reading of Vico’s Vita,” Historia Philosophica: An International Journal, Vol. 11 (2013): 59-94.
(2) La ridondanza della nostra frase trova la sua giustificazione nel proposito di evitare un malinteso: la società tecnologica è per definizione universale, aperta o di portata planetaria, in quanto presuppone l’istituzione di una macchina totalizzante come garante suprema della pace o gestrice delle guerre.
(3) Oggi abbiamo persino un “World Kindness Movement” apparentemente con tanto di sede in Italia. Cfr. https://www.theworldkindnessmovement.org/italian-kindness-movement/. Il termine kind, etimologicamente legato al proto-germanico kunjam, suggerisce benevolenza in un contesto familiare, per quanto nell’ambito della retorica globalista si riporti il termine kind perlopiù ad una collettività ideologica. Occorrerebbe allora essere kind verso tutti a prescindere dell’identità intrinseca di chiunque. Come tutti gli universalismi morali, quello dello kindness dimostra quanto avesse ragione Leopardi quando espose “la teoria dell’amore universale” come una forma virulenta di egoismo; tesi confermata tra l’altro ed incisivamente già da Jonathan Swift allorché si ribellò alla morale dell’illuminismo moderno dichiarandosi ironicamente “misantropo” dal momento che non amava affatto l’uomo in generale come fanno invece coloro che amano tutti per non dover amare nessuno.
(4) Su Leopardi, richiamerei il lettore mio “Liberal Education and Understanding War and Peace” (titolo originale: “International Law, Today”) su https://voegelinview.com/liberal-education-and-understanding-war-and-peace/; a Vico ho dedicato tra l’altro “Epistemology’s Political-Theological Import in Giambattista Vico”, Telos 185 (inverno 2018): 105-27; a Shakespeare ho dedicato una serie di articoli in cinque parti sul Giulio Cesare, di cui la quarta porzione è intitolata “The Inverted Order of Things: Act 4 of Shakespeare’s Julius Caesar,” su https://voegelinview.com/the-inverted -ordine-delle-cose-atto-4-di-shakespeares-giulio-cesare/.
(5) Vedasi il mio “The Essence of Technology,” su https://voegelinview.com/the-essence-of-technology/.
(6) Vedasi en passant il mio succinto intervento, “Christianity’s Corruption, Today”, su https://www.youtube.com/shorts/KOxZu9wLCus.
(7) Cfr. il mio “The Nature of Context: Beyond Technocracy”, su https://voegelinview.com/on-the-nature-of-context-beyond-technocracy/.
(8) Cfr. Il mio “Religion and Subcultures”, su https://subculture.euasu.org/religion-and-politics-what-is-at-stake/.
(9) Cfr. il mio “Mastery of Nature,” Interpretation, 45:2 (Spring 2019): 223-48.
(10) “Modernity’s confrontation with the question of authority is first and foremost a confrontation with the primordial incarnation of authority – the father. When Freud rooted heroism in the daring opposition to and overcoming of paternal authority, he served as a spokesman for the modern revolution, which conceives of all authority as an imposition upon a nature divested of all inherent authority” (p. 1 di Marco Andreacchio, “Poetic Soteriology Dante’s Heroic Defence of Classical Heroism,” Journal of Italian Philosophy, vol. 6 [2023]: 1-13).
(11) Cfr. Il mio “Humanisme et mystère dans la philosophie de Pic de la Mirandole”, Dogma: Revue de philosophie et de sciences humaines, vol. 14 (Winter 2021): 8-38.
(12) Testo originale: “…il faut distinguer différence et altérité. La première n’est pas nécessairement du registre de la seconde. L’exaltation contemporaine tous azimuts de la différence est peut-être même le signe le plus foisonnant de la disparition de l’altérité”.
(13) Laddove la tecnologia rifletta (se non si incarna del tutto) la fatalità di una “volontà di potenza” cosmica – come ammoniva Emanuele Severino, non meno perentoriamente che Heidegger – la “diversità” socialmente integrata o mediata tecnologicamente rifletterebbe la necessità della natura di superarsi. Mentre la natura nel suo stato bruto si specchierebbe in “ideologie dell’intolleranza” ancestrali, o più in generale nell’ormai letalmente famigerato patriarcato, la natura nel suo stato tecnicamente raffinato si rispecchierebbe in differenze transumaniste.
(14) Sull’edonismo/materialismo moderno come chiave della genesi concettuale della dottrina dell’evoluzionismo, cfr. Leo Strauss, Thoughts on Machiavelli (Chicago: Chicago University Press, 1978 [1958]), 296-97 e Natural Right and History (Chicago: Chicago University Press, 1965 [1950]), 249. Per una lettura pertinente del “secolarismo” moderno come avente fallito nel “tentativo d’integrare l’eterno in un contesto temporale”, si veda ibid., 317-19.
(15) Si ritorni a questo riguardo al dibattito profetico sviluppato in Leo Strauss e Alexandre Kojève, Sulla tirannide, Trad. Davide De Pretto. Milano: Adelphi, 2021. Purtroppo il traduttore De Pretto erra nell’attribuire a Strauss una concezione antinomica della verità.
(16) Si consideri in parallelo la voce del passero solitario dell’omonimo poema leopardiano del 1831 (ora su https://www.giacomoleopardi.it/?page_id=6338).