I punti deboli della proposta di revisione costituzionale della Meloni
di Daniele Trabucco
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UN “PREMIERATO” DA AGGIUSTARE
Parte da Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica, l’iter del disegno di legge costituzionale di iniziativa governativa (A.S. n. 935) inerente al c.d. “premierato”, la “madre di tutte le riforme” secondo quanto dichiarato in conferenza stampa da Giorgia Meloni.
Com’è noto, la proposta di riforma non attribuisce nuovi poteri in capo al Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, prevedendone solo l’elezione a suffraggio universale e diretto da parte del corpo elettorale per un periodo di tempo pari a cinque anni e alcuni vincoli per il Capo dello Stato nella fase genetica di formazione del Governo ed in caso di crisi nel corso del quinquennio di legislatura.
Ci troviamo di fronte ad un disegno di revisione costituzionale che, in realtà, non tocca la principale (sebbene non l’unica) criticità della forma di Governo parlamentare italiana, ossia la stabilità dell’Esecutivo e l’efficacia della sua azione.
Del resto, la legge ordinaria dello Stato 03 novembre 2017, n. 165 (c.d. “Rosatellum bis”), che ha introdotto nel nostro ordinamento un sistema elettorale di tipo misto (37% dei seggi assegnati con metodo maggioritario a turno unico in collegi uninominali ed il restante 61% con metodo proporzionale cui si aggiunge il 2% dei seggi destinati al voto degli italiani residenti all’estero sempre con criterio proporzionale), ha assegnato, a seguito delle elezioni politiche del settembre 2022, una chiara maggioranza parlamentare al centro/destra per cui il potere del Presidente della Repubblica di incaricare la “leader” di Fratelli d’Italia per la formazione del nuovo Governo aveva ben pochi margini di discrezionalità.
Ora, la legittima proposta dell’Esecutivo (non nuova in quanto risalente già a Mario Segni) non solo non trova riscontro in alcuna altra parte del mondo (Israele la aveva introdotta nel 1996 per poi abrogarla nel 2002 visti i risultati prodotti), ma non costuisce una risposta concreta al problema di cui si è detto in precedenza.
Siamo così sicuri che l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri e lo spauracchio dello scioglimento anticipato dei due rami del Parlamento siano idonei a garantire solidità al Governo e compattezza alla maggioranza che lo sostiene?
La risposta appare negativa. Infatti, il rischio, come ha evidenziato una parte della dottrina costituzionalistica (Bin), è che la “spada di Damocle” del voto prima della fine della legislatura possa aumentare la competizione tra i “leaders” per coagulare attorno a sè nuovi “adepti” con l’orizzonte o di implementare il peso della propria forza politica o addirittura essere eletti Presidenti del Consiglio dei Ministri.
Basta vedere la competizione “silente” tra Lega e Fratelli d’Italia su temi delicati quali il regionalismo differenziato, l’immigrazione, i rapporti con l’Unione Europea, le grandi opere etc. A questo si aggiunga che la mancanza di una prospettiva “olistica” del sistema parlamentare preclude una visione complessiva dei problemi della nostra forma di Governo.
Ad esempio, mentre si discute il disegno di legge “Calderoli” sull’attuazione del comma 3 dell’art. 116 della Costituzione repubblicana vigente concernente il c.d. “regionalismo differenziato o a geometria variabile”, si dovrebbe ragionare anche sul ruolo della seconda Camera e sull’intero sistema delle autonomie locali territoriali o sul superamento delle “materie” per distribuire le competenze sul piano legislativo tra Stato e Regioni. L’augurio è che il dibattito parlamentare possa aiutare ad approfondire i punti deboli della proposta di revisione.