La deriva “liberal” di Luca Zaia e di altri cultori della morte
di Daniele Trabucco
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LE LIBERTÀ TRA ILLUSORIA AUTONOMIA DEL SOGGETTO E NECESSITÀ DI UN FONDAMENTO METAFISICO
“Dall’amore al fine vita sogno che crescano le libertà”. Sono le dichiarazioni, riportate dalla stampa, del Presidente della Giunta regionale del Veneto pro tempore dott. Luca Zaia.
Al di là del risvolto politico delle affermazioni e della deriva “liberal” di una parte della Lega veneta, è interessante soffermarsi sul presupposto filosofico di quanto asserito da Zaia.
È evidente che siamo di fronte all’accoglimento pieno della prospettiva kantiana che altro non è se non una manifestazione del paradigma della modernità: ciò su cui la morale si basa è l’autonomia della volontà dell’uomo che Kant (1724/1804) chiama, com’è noto, “imperativo categorico del dovere”.
In altri termini, la morale, in quanto basata sul concetto dell’uomo come essere libero (in lingua tedesca “Wesen”), non ha bisogno dell’Idea di un altro essere al di sopra di lui. Il “Tu devi” kantiano diventa così un recipiente vuoto riempibile di ogni possibile contenuto (dal gender al fine vita, dall’interruzione volontaria della gravidanza alle unioni civili etc.
Le “libertà che crescono” di cui parla Zaia. In questo modo, osserva il grande Cornelio Fabro (1911/1995), Kant perviene ad un ateismo antropologico trascendentale dove Dio non è il fondamento dell’ordine morale, ma solo Colui che accorda la connessione fra il merito di osservare la legge e la felicità ed è unicamente in questo senso che, per il filosofo di Königsberg, la morale conduce alla religione.
Davvero, allora, l’imperativo categorico può costituire il fondamento della legge morale, la sua “vis obligandi”? Ora, anche i briganti sono convinti di obbedire all’imperativo morale della propria ideologia quando depredano o uccidono e questo dimostra come l’imperativo categorico sia in grado di giustificare qualunque etica e qualunque visione politica anche malvagia e brutale.
L’illusione dell’ateismo morale o della libertà atea è quella, dunque, di ritenere che l’uomo sia a se stesso la sua legge. L’uomo, però, come “custode della legge” non può pretendere di emettere un giudizio morale perfetto in ragione del suo essere una realtà creaturale che commette errori ed è costituita da innegabili imperfezioni.
Il vero giudizio può essere pronunciato solo da chi, avendo in sé ogni perfezione, può giudicare realmente con ius–titia. Solo lo “status creationis” può divenire, quindi, il fondamento dello “status moralitatis”: l’uomo trova nella sua natura (non intesa come naturalismo) il fondamento dell’agire morale e giuridico in quanto la “lex naturalis” che scopre è “partecipazione” della “lex aeterna” secondo il noto insegnamento tomista ed è questa che lo guida e lo orienta sebbene possa non comprenderla appieno.
La dissoluzione della morale cui oggi assistiamo è la conseguenza della distruzione della metafisica e questo porta ad accogliere, anche all’interno di una parte della teologia, “il principio di immanenza” come unico criterio di giudizio. A quanto sostenuto si potrebbe obiettare che questa “sorta di morale confessionale” non vale per i non credenti e che le riflessioni di Zaia rientrano all’interno di una dialettica laica. Il laicismo che cos’è se non il frutto della libertà negativa?
La morale naturale (non quella kantiana dell’uomo quale “essere libero” di cui sopra) è identica per tutti: credenti e non credenti e si radica nell’essenza della persona umana la cui negazione porta all’indifferentismo (è indifferente per l’uomo essere quello che è o un’altra cosa) o al perseguire fini che si palesano come “antiumani” i quali risultano possibili non per natura, ma per il tramite dell’esercizio di una volontà di potenza su se stessi o sugli altri grazie alla legge positiva.
Da qui la necessità di recuperare un pensiero filosofico autenticamente cattolico, e perciò umano, da contrapporre alle derive nichilistiche proprie della contemporaneità.