Suicidio assistito, Boscia: “scriteriata esaltazione del concetto di libertà”

Suicidio assistito, Boscia: “scriteriata esaltazione del concetto di libertà”

di Bruno Volpe 

L’ENNESIMO SUICIDIO ASSISTITO

“Il grande problema è che viviamo in una società nella quale ognuno pensa di avere il diritto di fare quello che vuole e vivere come crede”: lo dice in questa intervista il professor Filippo Maria Boscia, Presidente Nazionale dei Medici Cattolici che commenta così l’ennesimo suicidio assistito, avvenuto in Svizzera, di Sibilla Barbieri.

Ancora una volta con la presenza di Marco Cappato che poi, come al solito, si è autodenunciato.

Professor Boscia, un altro suicidio assistito, in Svizzera riguardante una cittadina italiana. E questa volta col parere negativo della Asl di Roma. Che cosa sta accadendo?

“Nulla di veramente nuovo. Il discorso è che ormai siamo ad una totale e scriteriata esaltazione del concetto di libertà. Si pensa erroneamente di essere liberi totalmente nel nascere, qiando e come, se nascere, di morire e decidere quando e come e anche liberi nel modo di vivere e questo riguarda tanti aspetti del vivere anche nella sessualità, che spesso non è oblativa ed aperta alla vita come dovrebbe essere, ma diventa frivola, privo del senso di responsabilità. In poche parole anche la sessualità che pur è una cosa bella, al posto di essere rivolta alla oblatività, è diventata gioco, in alcune occasioni volgarità e banalità. E’ il frutto di una libertà che non conosce confini, ci si crede, appunto nel nome della libertà, di essere arbitri e padroni del proprio destino e naturalmente della vita della quale noi siamo amministratori e non padroni”.

Certi casi fanno baccano e finiscono sui giornali…

“Certamente. Poi ci sono gruppi, come quello di Cappato, che con la scusa o il pretesto di alleviare le sofferenze, diventano paladini della morte. Ma non è umano uccidere per fare sparire la sofferenza. Noi non possiamo e non dobbiamo far sparire la sofferenza uccidendo il malato. In parte tutto ciò è figlio e frutto della grande solitudine che spesso circonda il malato e l’ anziano”.

In che senso?

“Il posto naturale dove dovrebbe stare un anziano infermo è la casa, il suo letto, il suo ambiente. In molte circostanze egli viene lasciato solo dai figli con una badante della cui onestà talvolta è lecito dubitare. Invece i figli, che pure sono in debito con padre e madre pensano alle loro cose. Peggio ancora quando l’ anziano viene messo in una rsa, residenza assistita. Si pensa, quando pronunciamo la parola residenza ad una reggia e non è così, o quando diciamo assistita la mente va a decine di medici ed infermieri. Nulla di tutto questo. E’ evidente che quando il vecchio e malato arriva a questo punto, ovvero assieme alla infermità soffre la solitudine, pronuncia la fatidica frase: ma che vivo a fare. La solutudine uccide. E ci sono organizzazioni di criminali che ne approfittano per dare morte, per fare fuori al posto che curare. Il vero e grande male oggi è la solitudine, sia negli anziani che nei giovani e sconfina talvolta nello sradicamento dagli affetti, dalle amicizie, dalla casa dove si è vissuto.”.

Eutanasia e suicidio assistito, che cosa sono?

“Una barbarie, un oltraggio alla sacralità della vita e appunto la risultante di quel concetto esasperato di libertà, dove ognuno vive come se non dovesse dar conto a Dio. Come dicevo prima ci si crede liberi di nascere, non nascere, abortendo, di morire e di vivere come si vuole”.

In sostanza quanto accaduto per l’ennesima volta che cosa è?

“Un omicidio. La morte non è mai bella, ma noi medici non possiamo e non dobbiamo darla, al contrario abbiamo il dovere di portare conforto, di assistere nel momento più difficile. Viviamo in un contesto che ha banalizzato tutto, anche la sacralità del corpo. Domandiamoci. Il corpo e la vita mi appartengono? No, non ne sono padrone e la libertà personale non è assoluta, siamo persone con la nostra dignità. Purtroppo e questo accade in non rari casi, domina quello che io chiamo edonismo giulivo, i figli o i nipoti vedono l’ anziano come un peso, il malato anche e non vogliono rinunciare al loro tempo libero, o alla vacanze per fargli un poco di compagnia. La risposta che arriva davanti a casi del genere è appunto: ma che vivo a fare. Io come medico cattolico non so rassegnarmi e invoco quella che è la dignità del medico il quale maideve portare morte”.

Che fare?

“E’ necessaria un’alleanza tra famiglia e malato, tra strutture sanitarie e soprattutto incremento delle cure palliative. Deve prevalere non l’eutamasia, ma l’eubiosi, la buona vita. Il malato grave e terminale non va soppresso, ma accompagnato dolcemente alla morte e in Italia la legge del 2010 sull’ accesso alle cure palliative non è stata mai veramente applicata. E così situazioni di malattia, sofferenze e solitudine estreme alla fine conducono al fatidico: che vivo a fare, abilmente sfruttato da chi porta morte e non vita che è sempre sacra e da proteggere. Noi non ne siamo padroni”.

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