Il “premierato” non è il “papocchio meloniano”
di Daniele Trabucco e Filippo Borelli
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UN “PREMIERATO” CHE NON È UN PREMIERATO
In data 03 novembre 2023 il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge di revisione costituzionale inerente alla modifica della forma di Governo. In particolare, è prevista l’elezione a suffragio universale e diretto, da parte del corpo elettorale, del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore.
Tuttavia, alla legittimazione democratica diretta non segue una preminenza del Capo del Governo sui Ministri, come ci si aspetterebbe da un vero “premierato”, i quali continuano ad essere nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri. Questi, lungi dall’assumere una posizione di preminenza all’interno della compagine governativa, resta, come lo è ora, un “primus inter pares”.
A questo si aggiunga, anche qui diversamente da un modello di vero “premierato”, che non è contemplato il potere di revoca dei Ministri. L’unico modo, pertanto, per “liberarsi” del titolare di un Dicastero è costringerlo alle dimissioni volontarie oppure a seguito di una mozione di sfiducia individuale in una delle due Camere (si veda la sentenza n. 7/1996 della Corte costituzionale sul caso Mancuso) disciplinata a livello di regolamenti parlamentari.
Non vengono, poi, rivisti i poteri del Presidente del Consiglio che rimangono quelli attuali e, soprattutto il disegno di legge di revisione costituzionale non viene accompagnato da un disegno di legge elettorale. Il rischio e’ quindi di avere una riforma costituzionale che se approvata direttamente in Parlamento (occorre in tal caso in seconda votazione la maggioranza qualificata dei due terzi sia alla Camera dei Deputati che al Senato della Repubblica) od attraverso referendum confermativo rimanga di fatto non attuabile per la mancanza di una legge elettorale che consenta l’elezione diretta del Presidente del Consiglio.
Da ultimo, se il Presidente del Consiglio eletto, con il suo Governo, ottiene la fiducia ex art. 94 della Costituzione vigente sia alla Camera dei Deputati, sia al Senato della Repubblica, inizia a svolgere il proprio mandato, mentre in caso contrario, ossia di non ottenimento della fiducia, il Capo dello Stato prima rinnoverà l’incarico all’eletto di formare l’Esecutivo con la conseguenza che, se anche in questo secondo tentativo non dovesse ottenere la fiducia, non potrà che sciogliere anticipatamente entrambe le Camere.
Tuttavia, se il rapporto di fiducia dovesse venir meno nel corso della legislatura, il Presidente della Repubblica avrà l’obbligo di incaricare a formare l’Esecutivo o il Presidente del Consiglio dimissionario o “un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto”. Se il secondo Presidente del Consiglio incaricato non ottenesse la fiducia o negli altri casi (quali?) di cessazione dalla carica, allora si procederà a sciogliere i due rami del Parlamento e si tornerà a votare.
Come si puó rilevare, l’eventuale secondo Presidente del Consiglio dei Ministri incaricato si trova in una posizione di maggiore forza rispetto al primo, cioè a quello eletto direttamente dai cittadini elettori, in quanto solo la sua “caduta” porterebbe al voto. Una proposta di riforma che fa davvero molto riflettere anche per il modo con cui è stata scritta. “Le leggi inutili indeboliscono quelle necessarie” (Montesquieu).