Cronaca minuto per minuto della miracolosa guarigione di Suor Caterina Capitani
di Padre Vincenzo Iacovone, missionario vincenziano
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Cronaca minuto per minuto della miracolosa guarigione di Suor Caterina Capitani, Figlia della Carità, avvenuta a Napoli il 25 maggio 1966. La suora, affetta da una gastrite ulcerosa emorragica gravissima che l’aveva ridotta in fin di vita, dopo aver pregato papa Giovanni XXIII insieme con le consorelle, ebbe una sua visione, seguita dalla subitanea guarigione, dichiarata scientificamente inspiegabile dalla Consulta medica della Congregazione per le Cause dei Santi
Narriamo i fatti così come li abbiamo appresi dalla viva voce della miracolata e dei sanitari che l’hanno assistita.
Suor Caterina Capitani, uscita nel novembre 1963 dal Noviziato delle Figlie della Carità della Provincia Napoletana, prestava il suo servizio presso gli Ospedali Riuniti per bambini “Lina Ravaschieri” in Napoli.
Nel marzo 1964 un’imponente emorragia per bocca destà sorpresa e serie preoccupazioni per la sua salute. Si provvide subito da parte del primario professor Giuseppe Piroli, dei proff. Capozzi, Ruggero e Grassi e dei dottori Caracciolo, Cannata e Maisano agli accertamenti del caso (radiografia del torace, stratigrafia, ixgrafia dello stomaco, analisi di laboratorio) ma la causa del male sfuggì ad ogni ricerca.
Nel corso del 1964 le emorragie si ripeterono quasi ogni mese, sempre più abbondanti, ma non si riuscì in nessun modo a risolvere il problema diagnostico.
Ci si rivolse al professor Alfonso D’Avino, Direttore del reparto otorinolaringoiatrico dell’ospedale “Ascalesi” di Napoli. Questi sottopose la suora ad un esame di esofagoscopia che rivelà nel segmento toracio una zona con soffusione emorragica tra i 28 e i 34 cm dall’arcata dentaria. Si iniziarono subito cure emostatiche e antianiemiche, mentre con nuovi esami ed accertamenti si cercava di stabilire la diagnosi del male. Non si venne a capo di nulla. Le emorragie continuavano a susseguirsi e l’inferma riusciva a sostenersi soltanto con trasfusioni e fleboclisi che le davano un momentaneo sollievo e quel tanto di energie indispensabili per disimpegnare il suo servizio presso i piccoli ammalati.
Si occuparono di legi l’ematologo professor Giovanni Bile e il dottor Pasquale Gisoni, dei “Pellegrini” di Napoli, ma neppure le loro indagini (prove emogeniche, trombolastogramma, uan cura intensiva di Emex) riuscirono a risolvere il problema della diagnosi.
Intanto, lo stato di salute della suora preoccupava seriamente a motivo degli episodi emorragici che si ripetevano con sempre maggiore frequenza ed intensità.
Il 10 maggio 1965 si ricorse alle cure del chiarissimo professor Giuseppe Zannini, direttore dell’Istituto di Semeiotica Chirurgica dell’Università di Napoli, specialista in chirurgia dei vasi sanguigni. Egli si impegnò con passione a scoprire le cause dell’inspiegabile male, ma neppure le sue indagini ottennero risultati soddisfacenti.
La paziente presentava un grave decadimento generale: non poteva nutrirsi convenientemente e quando veniva colpita dalle emorragie era costretta, per tre o quattro giorni, a prendere solo dei pezzettini di ghiaccio. Presto le emorragie divennero sempre più imponenti e numerose, fino a ripetersi ogni quindici ed anche ogni otto giorni e meno ancora.
Dal 10 luglio al 26 ottobre la Suora aveva emesso oltre tre litri e mezzo di sangue!
Ricoverata d’urgenza nella Clinica Mediterranea, il prof. Zannini decise di operarla per presunta ipertensione portale e, dopo i necessari accertamenti, il 30 ottobre, la sottopose alla splenoportografia.
Dinanzi a suor Caterina un’immagine del Papa Buono. Il prof. Zannini era aiutato dal prof. Mazzeo e dagli assistenti proff. Mazzitelli e Vittoria, nonché dall’Anestesista prof. Cuoccolo. Dei medici che in precedenza si erano occupati della nostra inferma non ne mancava alcuno.
A intervento iniziato il chirurgo si rese subito conto dell’estrema gravità dell’atto operatorio. Con grande abilità praticò un’ampia resezione gastrica subtotale, asportando tre quarti di stomaco e lasciandovi appena un moncone delle dimensioni di un’albicocca, l’unica parte non ulcerata.
Si rese indispensabile anche l’asportazione della milza (splenectomia) e la deconnessione della vena Porta con la vena Cava (anastomosi).
Furono momenti di estrema trepidazione per tutti. La vita di suor Caterina era legata ad un filo di speranza. L’esame istologico della milza e dello stomaco confermava la diagnosi del prof. Zannini: numerose erosioni diffuse in tutta la mucosa gastrica e una spiccatissima iperemia nella milza.
L’intervento si protrasse per cinque ore, durante le quali la Comunità delle Figlie della Carità restò in fervida e trepida preghiera, per sollecitare l’intercessione di Papa Giovanni in favore di suor Caterina, ormai fra la vita e la morte.
Durante la notte un improvviso collasso fece temere la fine, ma il coraggio e la prontezza della vigile consorella che l’assisteva le fecero somministrare i più urgenti soccorsi del caso, prima ancora che potesse accorrervi il medico di turno.
La catastrofe fu così scongiurata. Giorni di spasimi e di atroci dolori attendevano l’inferma. La mancata canalizzazione dell’intestino faceva ritenere inevitabile un nuovo intervento chirurgico.
La Suora era sfinita; il sondino gastrico le procurava enorme fastidio e le rendeva la respirazione molto faticosa. Al nono giorno dall’intervento si fece animo ed osò chiedere al Professore un purgante.
L’inattesa richiesta ebbe il più categorico diniego.
Era impensabile adottare un simile rimedio dopo il gravissimo atto operatorio subito.
Ma, alle ripetute insistenze dell’inferma, il Chirurgo finì per acconsentire. Si raddoppiarono le preghiere in onore di Papa Giovanni e le funzioni dell’intestino si regolarizzarono ben presto, senza alcuna pericolosa conseguenza.
Sembrava finalmente che tutto si mettesse per il meglio, ma l’indomani, improvvisamente, una nuova crisi res cianotica la paziente. Si ricorse all’ossigeno ed agli accertamenti radiografici. Questi denunciarono la presenza di un velo pleurico e l’immobilizzazione del diaframma.
Il susseguirsi di fatti clinici sempre più preoccupanti, invece di scoraggiare l’inferma, ne accrescevano la fiducia nell’aiuto divino. Si iniziarono le cure del caso ed anche questa volta l’estremo pericolo fu scongiurato.
L’11 novembre suor Caterina poté essere dimessa dalla clinica e trasportata all’Ospedale “Lina Ravaschieri”. Qui cominciarono nuovi, acuti dolori, dovuti forse alla presenza di “acetone”, che le procurava frequenti vomiti; il suo peso scese da 73 a 59 kg.
Si decise allora di mandarla a respirare un po’ di aria nativa ed a tre mesi e mezzo dall’intervento partì per Ponza, ove le Consorelle dell’Ospedale Provinciale “S. Carlo” le prodigarono le cure più affettuose. Ma le sue condizioni generali non accennavano a migliorare, anzi divennero presto scadentissime e due mesi dopo ci si vide costretti a rivolgersi di nuovo al prof. Zannini.
Il 6 aprile 1966 suor Caterina ritornò a Napoli, ospite delle Suore dell’Ospedale della Marina, ove era Superiora colei che l’aveva fatta ammettere tra le Figlie della carità.
Il Professore se ne prese cura con una dedizione incomparabile, ma l’ammalata continuava ostinatamente a deperire: si alimentava pochissimo; l’acetone ed i conseguenti disturbi la tormentavano, il peso era sceso ancora di dieci chili.
Si pensò di mandarla nuovamente a respirare aria nativa, ma il 14 maggio, a soli otto giorni dall’arrivo a Potenza una improvvisa emorragia, causata dalla perforazione del piccolo moncone di stomaco con formazione di ulcera peptica e fistola aperta all’esterno, consigliò l’immediato trasferimento della Suora a Napoli. Ma, a misura che il male diveniva preoccupante, l’inferma si affidava con crescente, filiale abbandono alla protezione di Papa Giovanni.
L’indomani il dott. Giacinto Russo, dell’Ospedale di Potenza, scrisse testualmente al prof. Zannini: “Chiarissimo professore, suor Caterina Capitani, da lei operata alcuni mesi or sono di gastroresezione, ha presentato ieri, improvvisamente, un episodio di ematemesi preceduto da violento dolore in sede epigastrica; contemporaneamente, da un piccolo tramite fistoloso della ferita chirurgica, già secernente da circa un mese, a detta della paziente, scarsa quantità di liquame siero ematico, fuoriusciva un fiotto di bile misto a succo di arancia che la Suora aveva bevuto qualche ora prima.
Ho seguito la paziente per la giornata di ieri: a parte il dolore, è in buone condizioni generali, con pressione polso normali e addome trattabile su tutti i quadranti, dolente solo in corrispondenza dell’epigastrio e dell’ipocondrio destro.
Il vomito è cessato, l’alvo è tutt’ora chiuso alle feci e ai gas, è comparso modico rialzo termico ed al tramite fistoloso continuo, a tratti, la emissione di tanta quantità di bile.
La paziente ha già iniziato la terapia infusiva, antibiotica e di rianimazione e, stamattina, è in migliori condizioni generali.
La Superiora mi ha chiesto di inviarle questa breve relazione clinica perché lei possa stabilire la condotta terapeutica che ritiene più utile”.
Il 17 maggio l’inferma venne trasportata in ambulanza all’Ospedale della Marina.
Il prof. Zannini si affrettò a visitarla, e ne rilevò la gravità del caso. Non potendo però intervenire chirurgicamente, si limitò a prescrivere delle trasfusioni di sangue, infusioni, antibiotici, ecc., e liquidi per bocca come alimentazione.
Le condizioni generali si aggravavano, la febbre permaneva molto alta, la fistola continuava ad espellere quanto la Suora riusciva ad ingerire con grandi stenti.
Il 19 maggio, festa dell’Ascensione, i Superiori, vedendo suor Caterina in imminente pericolo di vita, accolsero la sua richiesta di ricevere gli ultimi sacramente e le consentirono pure di emettere i voti religiosi. Si confessò, si comunicò con una particella di Ostia e si dispose serenamente alla morte che sentiva molto vicina: “ora posso morire; sono pronta!”.
Conforto degli ultimi giorni fu l’Eucaristia ed una illimitata fiducia in Papa Giovanni al quale si rivolgeva spesso, non per implorare la guarigione, ma perché avesse posto termine a tante sofferenze.
Il 22 maggio le fu recata una reliquia di Papa Giovanni. La pose sulla fistola con la convinzione di essere esaudita.
Iniziò, come poté, una novena in suo onore. Chiese che le fosse collocata di fronte al letto un’immagine del Papa e venne accontentata. Fu delicatezza della Superiora porvi dinanzi un cero.
Ma il Papa fece come Gesù nei riguardi di Lazzaro infermo. Non ebbe alcuna fretta di intervenire.
Le condizioni della Suora si aggravarono maggiormente; dalla fistola venivano espulsi tutti gli scarsi alimenti ingeriti; la paziente soffriva un forte mal di testa. Si temette da un momento all’altro la fine. Solo l’inferma era contenta: le sofferenze stavano finalmente per cessare ed ella poteva già disporsi ad entrare nella Casa del Padre, ove la mamma l’aveva preceduta il 13 gennaio del 1965.
Il 25 maggio 1966, terzo giorno della novena, la Suora ebbe la netta impressione che non sarebbe giunta fino a sera.
Dopo le 14 il termometro aveva segnato 39.5, la fistola continuava ad emettere liquido, il polso era piccolissimo, il respiro affannoso, le funzioni dell’intestino bloccate da dodici giorni. L’inferma pregò la Suora che l’assisteva di socchiuderle la porta perché desiderava starsene in attesa del Signore.
Qui preferiamo cedere la parola alla Consorella: «Restai sola. Stavo girata sul lato destro ed ero assopita quando (potevano essere le 14,40) sentii una mano poggiata sullo stomaco, in direzione della fistola, ed una voce che mi chiamava dal lato sinistro: “Suor Caterina!”.
Spaventata nel sentire una voce di un uomo, mi voltai e vidi in piedi, accanto al mio letto, Papa Giovanni in abiti papali, non bianchi, che non so descrivere, perché mi fermai a fissare il viso che era molto bello e sorridente. Egli mi disse: “Suor Caterina, mi hai molto pregato ed anche molte Suore e persone lo hanno fatto! Me l’avete proprio s trappato dal cuore questo miracolo! Ma ora non temere, tutto è finito. Tu stai bene, non hai più nulla. Suona il campanello, chiama le suore che stanno in cappella per la meditazione, e qualcuna dorme con un sorriso sulle labbra. Fatti mettere il termometro tanto per avere una testimonianza, non hai neppure 37. Poi mangia tutto come prima, perché da questo buco non uscirà più nulla, non troveranno più nulla. Aveva una grossa perforazione con invasione del peritoneo; ma io ti ho assistita dal primo giorno affinché non morissi. Tutto ciò doveva avvenire e dovevi soffrire perché si avverasse tutto questo. Vieni a Roma a pregare sulla mia tomba. Ti aspetto”».
“Il Papa mi fece alcune raccomandazioni particolari, poi terminò dicendo: “Ci sono suore che trascurano la corona; io da Papa dicevo il Rosario intero ogni giorno. Ah, la Madonna… la Madonna!”. E se ne andò penato!
Mi sentii subito un’altra… ero guarita! Mi alzai in mezzo al letto perché non sentivo alcuna sofferenza. Poi, emozionata e tremante – temevo mi ritenessero allucinata – suonai il campanello per chiamare le Suore che stavano realmente in cappella a fare la meditazione delle 14,30 e che si precipitarono prevedendo il peggio.
Ma quale fu la loro sorpresa nel vedermi in mezzo al letto e, fra le meraviglie di tutte, chiesi di mangiare e dietro le mie insistenze fui accontentata. Presi subito del semolino, poi un gelato di latte di mandorla e, poiché avvertivo ancora appetito, presi anche delle polpettine ed alle 18 pastina in brodo.
Il momento più trepidante e commovente fu quando la Superiora scoprì la fistola per assicurarsi se ci fosse stata fuoriuscita degli alimenti che poco prima avevo ingerito. Ma la fistola non c’era più. Era completamente chiusa, e di essa non esisteva neppure l’aureola rossastra che la circondava. Tutto era perfettamente conforme a quanto aveva detto Papa Giovanni.
Dopo i primi attimi di smarrimento la superiora mi misurò la febbre: il termometro non segnava neppure 37 mentre un quarto d’ora prima era 39,5.
Le funzioni intestinali, bloccate da dodici giorni, si riattivarono subito. Chiesi di alzarmi e camminai da sola, senza barcollare né aver bisogno di appoggiarmi.
A questo punto dissi che ero guarita, che Papa Giovanni era venuto a guarirmi…
L’indomni, 26 maggio, mi sentivo completamente in forma; feci una colazione con tè e savoiardi; alle nove presi pane con pomodoro; a mezzogiorno pranzai a refettorio con le Consorelle. Mangiai con molto appetito, minestrone, della carne con contorno di asparagi e della frutta.
Nello stesso giorno venne a visitarmi il prof. Zannini che, meravigliato nel trovarmi seduta in mezzo al letto e sorpreso dell’istantanea scomparsa della febbre, rilevò che la fistola non c’era più; di essa non rimaneva che un piccolo punto appena visibile. Prescrisse delle cure ricostituenti a base di vitamine (che in verità non feci, perché ero guarita) e una radiografia del tratto esofago-gastrico digiunale. Volgendosi alla Superiora disse: “Questa Suora è strana, in bene e in male!” poi, soddisfatto e confuso, si congedò”.
Continuando a stare benissimo, il 28 maggio, dopo 48 ore, la Suora ritornò a Potenza in treno, destando grandissima impressione in tutti, specie nel dott. Russo che non esitò ad affermare: “Qui c’è un prodigio!”.
La Suora riprese il giorno stesso la sua vita ordinaria, senza avere preoccupazioni di sorta per il cibo. Anche la digestione era normalissima.
L’8 giugno si procede agli accertamenti radiografici, secondo le prescrizioni del prof. Zannini. Ma il radiologo, ignaro della miracolosa guarigione, non riusciva a spiegarsi la scomparsa dei mali che riteneva dover riscontrare e si vide costretto a ripetere la radiografia per una quindicina di volte, obbligando la Suora ad ingerire due bicchieri di bario, malgrado le ridottissime dimensioni dello stomaco, che era invece di aspetto normale e sempre del volume di un’albicocca; nessuna traccia della fistola. Insomma tutto era come dopo l’intervento operatorio del 30 ottobre 1965; col sorprendente vantaggio di poter mangiare ogni cosa ed in notevole quantità anche subito dopo aver ingerito i due bicchieri di bario per gli esami radiografici.
A distanza di sei mesi dalla prodigiosa guarigione la Suora ci assicurò: “Continuo a stare benissimo, mangio sempre con buon appetito, senza aver alcun disturbo nella digestione che, anzi, avviene rapidamente, tanto che a volte non si direbbe che sono stata operata di stomaco e che ho subito tante altre gravi sofferenze. Son convinta che debbo tutto ciò al buon Dio ed alla intercessione di Papa Giovanni”.
Condividiamo in pieno la tua convinzione, fortunata suor Caterina! Per questo abbiamo ringraziato ed abbiamo voluto far conoscere la tua strepitosa guarigione per invogliare quanti soffrono a rivolgersi alla sua intercessione.