Walimohammad Atai: “I talebani vogliono far rimanere la mia gente nel buio”
di Matteo Orlando
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INTERVISTA ALLO SCRITTORE AFGANO WALIMOHAMMAD ATAI, MIRACOLOSAMENTE SOPRAVVISSUTO AD UN ATTENTATO ORGANIZZATO DAI TALEBANI
Walimohammad Atai, nato in Afghanistan nel 1996, si è occupato di diritti umani sin da piccolo, seguendo le orme di suo padre, medico e oppositore politico ucciso dai talebani. Dopo aver aperto una scuola laica nel suo villaggio, e un laboratorio di cartapesta per fare lo scultore e insegnare l’arte della scultura, è stato accusato dai talebani di essere una spia degli infedeli e, dopo un attentato nei suoi confronti a cui è miracolosamente sopravvissuto, ha deciso di fuggire dall’Afghanistan. Ottenuto l’asilo politico in Italia, ha iniziato un capillare lavoro di informazione e dialogo interreligioso e interculturale. Fondatore dell’associazione FAWN (Free Afghan Women Now) per la difesa dei diritti delle donne afgane, attualmente è un educatore professionale e un interprete-traduttore giurato per tribunali, commissioni territoriali, carceri, questure e ministeri.
A seguito delle false accuse arrivate dai talebani (quelle di essere una spia degli infedeli) cosa è accaduto?
Dopo che ho aperto una scuola vera, e non come quella dei talebani che a sfondo religioso produceva e produce ancora oggi le “bombe” essere umani, sono stato condannato all’impiccagione e la mia scuola bruciata con tutto il materiale che mi era stato dato dall’esercito afgano e da quello americano. I talebani volevano che la gente della mia città rimanesse in totale buio, e come diceva mia nonna paterna, io ero la luce, stavo per far uscire gli afgani da quella società avvolta nel buio in nome dell’Islam, facevo perdere clienti ai talebani, perché se la gente si istruisce, il lavaggio di cervello dei talebani non funziona e non avrebbero potuto convincerli ad abbracciare la morte e uccidere altri essere umani. Così, con l’aiuto di mia nonna, sono fuggito a Herat e da Herat, mettendomi sotto camion per entrare in Iran, poi in Turchia e Grecia, finalmente sono arrivato Italia. Il viaggio però mi ha fatto perdere 3 anni, ho subito torture e sono stato in carcere.
Scampato all’attentato ha ottenuto asilo politico in Italia. Nel nostro paese come si sta impegnando per l’Afghanistan? Come riesce a informare e favorire il dialogo interreligioso e interculturale?
Mi ero messo sotto un tir a Patrasso in Grecia e dopo essere stato aggrappato per più di 23 ore, sono arrivato in Italia. Mi era stato detto che gli occidentali sono infedeli, che appena li vedi bisogna ucciderli, che se toccano i tuoi vestiti, i vestiti li devi bruciare, se toccano la tua mano, devi lavarla 15 volte con dei versetti e preghiere. Poi sono stato accolto a Lecce da un prete, stava sempre in piedi per aiutarmi, mi preparava da mangiare e si prendeva sempre tanta cura di me. Un giorno avevo tanta febbre e tosse, e il prete è rimasto al mio capezzale tutto il giorno come se fosse mio padre. Secondo i talebani lui avrebbe dovuto essere ucciso per primo perché era il leader degli infedeli, così mi era stato detto durante l’addestramento nella madrassa. Invece dopo aver visto il suo gesto di grande umanità e amore, mi sono messo a piangere. Mi avevano detto che se lo avessi ucciso avrei guadagnato in paradiso il miglior posto, i fiumi di latte e miele, tanti angeli, vergini e sarei stato felice con Allah. In Italia grazie all’aiuto degli italiani, non ho trovato solo la pace, vita e dignità, ma ho conseguito due lauree triennali e una specialistica in relazioni internazionali all’Università di Pavia. Dall’Italia cerco di far arrivare la voce del mio popolo imprigionato a cielo aperto dai terroristi talebani. Con la presentazione dei miei libri, che raccontano il vero volto dell’Afghanistan, cerco di far capire al mondo che noi siamo vittime del terrorismo e non siamo terroristi, che l’Afghanistan è stato la crocevia delle religioni, dove Cristiani, Buddisti, Ebrei, Musulmani hanno convissuto in un mirabile esempio di tolleranza e fratellanza.
Lei ha fondato l’associazione FAWN (Free Afghan Women Now) per la difesa dei diritti delle donne afgane. Come vi state muovendo con l’associazione? Quali attività state portando avanti?
Mia nonna paterna è stata una neurologa e negli anni ’40 in Afghanistan andava al lavoro in gonna, era proprio lei che ha avuto l’idea di fondare un’associazione che aiutasse per le cure mediche, istruzioni, cibo e sicurezza, il mio popolo. Mia sorella Salma Atai, che è un chirurgo, ha dato il nome all’associazione FAWN (Free Afghan Women Now) perché tante sue amiche si erano suicidate, si erano impiccate, o fatte cadere nei pozzi, perché erano vendute a 12 anni ai signori della guerra, che avevano più di 50 anni. Allora mia sorella ha aperto un ospedale, un centro di alfabetizzazione, una co-housing per orfani, un punto di aiuto per le donne e, ancora, un centro di riabilitazione per le vittime di mine e problemi psichiatriche. Così io ho conosciuto mia moglie Homaira perchè partecipava al corso di alfabetizzazione. L’associazione ha curato, istruito e aiutato ognuno tutti giorni, fino all’arrivo dei talebani. Loro hanno chiuso tutto, fra cui l’ospedale, e lo hanno trasformato in caserma. Ad oggi l’associazione è chiusa e non può svolgere nessun attività, gli orfani sono tutti scappati (erano più di 350), sicuramente diventeranno bambini-soldato per conto del governo terroristico dei talebani.
Un suo libro è intitolato “Ho rifiutato il paradiso per non uccidere”. Di cosa tratta?
Nel mio libro “Ho rifiutato il paradiso per non uccidere”, racconto sia la mia storia che quella dei miei amici, come ci addestravano e ci indottrinavano per diventare kamikaze, bambini-soldato e costruttori di bombe. Racconto come si sono fatti saltare in aria con tanta felicità i miei amici dell’infanzia, perché erano sta convinti che appena schiacciavano il bottone del giubbotto, con la chiave che avevano al collo, avrebbero aperto la porta del paradiso con le loro mani. Io sono stato l’unico, grazie a mia nonna paterna, a rifiutare il paradiso promesso in cambio dell’uccisione di altri essere umani.
Nel libro “Il martire mancato” ha raccontato di come è uscito dall’inferno del fanatismo islamico. Cosa consiglierebbe ai giovani musulmani attratti dal radicalismo?
Il mio secondo libro, “Il martire mancato, come sono uscito dall’inferno del fanatismo”, racconta tante altre storie tristi. Il libro spiega e insegna soprattutto ai giovani musulmani quanto è pericoloso il radicalismo e fondamentalismo religioso. Io vedo che la seconda generazione in Italia si radicalizza e, in alcune parti dell’Italia, si è già radicalizzata e col tempo potrebbe diventare un problema per la convivenza e la nostra società multireligiosa, multietnica e multiculturale. Molti giovani vanno sui siti terroristici o incontrano uomini radicalizzati personalmente. Quello che io vorrei consigliare e dire ai giovani è che il radicalismo è una malattia che si espande nella società. Chi si contamina con questa malattia difficilmente guarisce. Ho visto mia madre, amici dell’infanzia e vicini di casa che prima si erano radicalizzati e col tempo erano diventati peggio dei talebani.
Suo padre è stato ucciso dai Talebani. Quali sono i suoi principali insegnamenti che porta nel cuore e che cerca di mettere in pratica?
Mio padre è stato ucciso dai terroristi perché era istruito e cercava di insegnare la vera cultura afgana e il vero Islam: L’istruzione è considerata il peggior nemico dai terroristi e per questo che i talebani appena ritornati al potere hanno subito chiuso le Università e le scuole normali. Ogni giorno io vivo in base agli insegnamenti di mio padre e mia nonna paterna. I talebani rinchiudono le donne fra le quattro mura di casa, perché le donne sono i primi insegnanti della nostra vita, è la donna che dà vita, che insegna le prime parole di vita, che educa i propri figli. Se una donna è istruita, istruisce ed educa bene i suoi figli e non li lascia diventare kamikaze per i terroristi. Questo è il motivo per cui le donne le vogliono rinchiudere, in modo tale che si possa contare su più bambini-soldato e clienti per il paradiso.
A suo giudizio in Italia alcuni giovani musulmani di seconda generazione rischiano di cadere nel fanatismo religioso?
Ho visto e vedo spesso molti giovani italiani musulmani comportarsi da radicalizzati. Quando presento i miei libri le critiche non mancano, non solo da parte di chi è venuto da poco dall’estero, ma anche da giovani italiani di seconda generazione. Penso che alcuni giovani di seconda generazione siano più pericolosi per la convivenza e la società multiculturale e religiosa che quelli della prima generazione. Ho conosciuto alcuni giovanissimi ragazzi di seconda generazione, che non seguono solo i loro genitori radicalizzati ma vanno oltre loro, e questo è sicuramente un problema per la nostra società e il nostro futuro. Il radicalismo per me è una malattia contagiosa. Ci vogliono un po’ di anni prima di odiare lo stile di vita normale che si fa in Italia e ci vuole un po’ di tempo per considerarci la feccia del mondo. Il radicalismo non è sempre facile da contrastare e prevenire. Conosco alcuni miei amici afgani che per sradicalizzarsi hanno impiegato tanti anni ed ancora oggi non sono del tutto guariti.